«Devo essere sincero. Per lungo tempo pensando a Massimiliano Kolbe provai rimorso. Accettando di essere salvo, avevo firmato la sua condanna. Ma ora, a distanza di anni, mi sono convinto che un uomo come lui non avrebbe potuto agire diversamente. Nessuno l’aveva obbligato a farlo. Inoltre, lui era un prete¸ forse avrà pensato che la sua presenza a fianco dei condannati fosse necessaria per evitare loro il dramma della disperazione. Li ha assistiti fino all’ultimo».
Così parlava Francesco Gajowniczek, uno dei superstiti più longevi di Auschwitz ed è morto nel 1995. Non un superstite qualunque: lui è il padre di famiglia che si salvò grazie al sacrificio di padre Massimiliano Kolbe. Ed è lui stesso che, prima di morire, ha ricostruito a Famiglia Cristiana quell'incredibile storia che si consumò nel lager polacco tra luglio e agosto del 1941.
I morsi violenti del cane
Francesco era arrivato ad Auschwitz l’8 novembre 1940. Il santo frate vi sarebbe giunto il 28 maggio 1941. Non si conoscevano, ma il giovane polacco, senza sapere chi fosse lo aveva visto vittima di una scena raccapricciante: «Una mattina», mi raccontò, «stavo scavando il letame da una fossa per portarlo nei campi. Arrivò una guardia con un cane e domandò al prigioniero che riceveva il letame e lo buttava fuori perché ne caricasse così poco, e senza dargli il tempo di rispondere cominciò a bastonarlo e ad aizzargli contro il cane, che lo morse ripetutamente. Ma l’altro se ne stava calmo, senza lasciarsi sfuggire un lamento. In tedesco disse anzi di essere un sacerdote, il che fece andare in bestia l’aguzzino che lo colpì ancor più duramente. Dopo la morte del frate, che fece notizia in tutto il lager, rievocando l’episodio con alcuni amici, venni a sapere che quel prigioniero era proprio Kolbe».
La fuga del prigioniero
Verso il 28 o il 29 luglio, il francescano fu trasferito nel block 14 e dopo alcuni giorni avvenne il fatto decisivo: un prigioniero di quello stesso block era riuscito a fuggire e per rappresaglia tra i suoi compagni ne vennero scelti dieci, che furono condannati a morire di fame in un bunker sotterraneo. Fu una giornata terribile: per circa tre ore rimasero sull’attenti fino alle tre del pomeriggio, sotto un sole cocente, poi non fu data loro la cena e le loro razioni di cibo furono gettate via.
Il sacrificio
Il giorno dopo, visto che il fuggitivo non era stato rintracciato, durante l’appello serale il comandante scelse i dieci condannati, tra i quali Francesco Gajowniczek. Fu allora che padre Kolbe si offrì vittima al suo posto, meravigliando tutti, compresi i nazisti. Il 14 agosto, dopo due settimane, in quel bunker erano ancora vivi in quattro, ma il frate era l’unico in grado di parlare.
"Lei non ha capito nulla della vita"
Allora le SS decidono di abbreviare la loro fine con una iniezione di acido fenico. Il francescano martire volontario, tende il braccio e si rivolge al medico che lo sta per uccidere dicendo: “Lei non ha capito nulla della vita. L'odio non serve a niente. Solo l'amore crea” . E’ il 14 agosto 1941. Il giorno dopo, festività dell'Assunta, il suo corpo viene cremato.