Innamorati della propria vita, non della propria immagine
Il super potere dei libri (fatti bene) è quello di infilarsi a pennello nelle crepe della vita di ciascuno, prendere la forma esatta di una spaccatura e ripararla. Mi sono tuffata tra le pagine del nuovo libro di don Carlo De Marchi per il titolo, Fammi innamorare della mia vita. Meditazioni per gente sempre di corsa. (Edizioni Ares). E non saprei dire se mi attirasse di più la questione dell'innamorarsi della vita o dell'essere di corsa. La sorpresa è stata quella di rendermi conto che i due temi sono legati col superattack.
C'è un abisso tra il narcisismo imperante e l'essere innamorati della propria vita. Non è esagerato dire che il primo atteggiamento sia l'opposto del secondo. E noi siamo sempre di corsa proprio perché siamo schiavi di un'agenda egocentrica che ci impone ritmi e schemi stritolanti, orientati a blandire la nostra immagine, costruita al tavolino dei nostri desideri.
Ponendo questa domanda, don Carlo lega ciò mi pareva separato: per innamorarsi della trama così imponderabile della nostra vita occorre percorrere la strada del riposo, staccandosi dalla prospettiva egocentrata, impaziente, frenetica e ansiosa.
Insegnaci a stare quieti
Ciascuno di voi potrà ritagliarsi un percorso su misura tra queste meditazioni per gente di corsa. L'eco di sottofondo che ho colto, mentre don Carlo affronta il tema della preghiera, della fiducia, della morte, dei rapporti affettivi, è proprio la parola riposo. E anche ristoro. Entrambi i termini presuppongono che la vita di ognuno sia in rapporto vivo con Dio. Ho fretta, ho l'impressione di perdere tempo, mi lamento degli imprevisti... tutto questo accade quando non ho coscienza che vivere è stare in compagnia di un Dio che collabora attivamente al mio destino.
Quest'apparente insensatezza - la perdita di tempo di una preghiera in cui non si dice niente, non si ottiene niente - è simile alla follia della scelta che fece l'Ulisse dantesco. Tornato a Itaca, si rimise in mare. Quando s'intuisce che la vita è rapporto con l'Altro, si lascia la terraferma (la logica di essere re della propria isola, fatta di appuntamenti, leggi, programmi, scadenze) e si va per mare. Viaggiare sull'acqua moltiplica la piccolezza e la precarietà, impone l'evidenza che non tutto dipende da quanto siamo bravi a stare al timone.
In mare si può impare un criterio folle. Gesù sulla barca in mezzo alla tempesta dormiva.
Dio si riposa, cioè ha una pazienza infinita
Se Dio sale sulla barca della nostra vita, se accogliamo l'ipotesi che la nostra agenda quotidiana sia un racconto in prima persona plurare (un noi in cui Dio non è solo interlocutore astratto), allora un criterio assolutamente sconvolgente s'impone alla nostra attenzione.
Il criterio di Dio è l'attesa, non la frenesia. Sta alla porta, aspettanto tutto - ma proprio tutto - il tempo necessario. Don Carlo ripercorre la parabola del figliol prodigo (o meglio del padre misericordioso) immedesimandosi nel punto di vista di tutti i personaggi coinvolti. Ed è un testo che non finirà mai di dirci qualcosa di nuovo. Dio, come il padre della parabola, aspetta il ritorno del figlio. Avrà continuato a fare quel che doveva, ma con l'attesa nel cuore. Avrà lavorato e fatto molte cose, ma tenendo una certa passività a mani spalancate come sfondo dei suoi giorni.
Ed è l'antitesi della nostra premura di chiudere sempre in fretta le questioni. Risolvere, mettere una spunta, finire un progetto e passare all'altro. Questo c'impedisce quel riposo profondo che non è una mera pausa tra una fatica e l'altra, ma una vera, rifrancante doccia fresca già dentro l'arsura dei nostri mille impegni.
Solo l'amore dà riposo
Il padre di quella parabola riesce a fare un'altra cosa che a noi manca spesso e volentieri, la festa vera. Sì siamo pieni di happy hours, ma sono ore davvero felici? La festa è solo un evento occasionale o può essere un criterio di ristoro e riposo nel bel mezzo di ogni giornata?
Sono la prima a dire che quando vado via da una festa ho sempre l'amarezza in bocca. Perché ho bisogno di una felicità più grande di risate e balli. Vero, però un po' me la racconto dicendo così. Sinceramente, io vorrei far festa solo quando qualcosa di bello succede a me. Ed è qui il nodo, che diventa cappio. Il criterio del padre del figliol prodigo è fare festa per l'altro. Ed ecco che don Carlo scocca una freccia che va a segno:
Ammetto di essere ancora lontana mille miglia da questo sguardo, che pure m'invita a darmi subito una svegliata. Il criterio del riposo e del ristoro coinvolge l'Altro e gli altri come bene per la mia vita, qui e ora. La festa è un criterio a monte del fatto che una volta le cose vanno bene a me e un'altra a te. La presenza nostra, insieme, è la festa: è ricordarsi che non siamo dentro un sogno personale confezionato dalla nostra mente. Chesterton osava dire che gli amici migliori da tenersi fino al giorno della morte sono quelli che sono fastidiosissimi nell'ordinare una bistecca al ristorante. Il fastidio che sentiamo verso chi ci è accanto è il segno benedetto di una Creazione non fatta a immagine del nostro egoismo. La gioia dell'altro è mia, solo così posso fuggire dall'incubo che il mondo sia a misura delle mie brame.
Gioire della gioia e della presenza di chi ho accanto, godermi il ristoro che dà l'essere lieti senza un tornaconto e per una fratellanza vera - no, non lo so ancora fare.
Ma è proprio vero che è grazie a questo ribaltamento di prospettiva che ci si può innamorare della propria vita, liberi dalla schiavitù di fare confronti, di fare di ogni azione una competizione (anche con i nostri idoli mentali).
Se si può dare il nome di amico a chi senti che ti cammina accanto anche se non è vicino, leggendo queste meditazioni ho sentito molto amico don Carlo De Marchi. La sua letizia è tipicamente cristiana, cioé non autoreferenziale ma capace di cantare in coro con il Papa che ci guida, coi santi, col carisma di San Josemaría Escrivá, con i bambini del catechismo e con qualunque segnale luminoso Dio metta sulla strada.