In moltissimi hanno letto il “Saint-Exupéry americano”, nato solo sei anni dopo il francese ma (a differenza di quello) ancora vivente: quasi tutti lo hanno conosciuto unicamente o prevalentemente per il suo “Il gabbiano Jonathan Livingston” (1970 – rimaneggiato nel 2013); da ragazzo un amico mi consigliò di leggerne anche “Illusioni. Le avventure di un messia riluttante” (1976 – proseguito nel 2014).
«Non lo so suonare, quell’aggeggio»
Sorvoliamo qui – visto che di aviatori si tratta – sulla concezione religiosa di Richard Bach, che pure impregna tutta la sua opera, ma nelle prime pagine di Illusioni si trova un breve dialogo tra il protagonista e Donald Shimoda, il suo “messia riluttante”: entrambi si trovano in un negozio dove il narratore cerca articoli da ferramenta e il misterioso compagno si mette ad arpeggiare «una modesta chitarra a sei corde esposta in vendita»:
Già da queste poche righe si colgono alcune caratteristiche del pensiero religioso di Bach, quello su cui non intendo attardarmi qui: risulterà però utile esplicitare almeno che per lui (aderente a una tale “chiesa cristiana scientista”) Gesù è un Messia, forse il più eminente di tutti, in quanto è riuscito a destare la propria coscienza umana ai livelli supremi della “consapevolezza cosmica”. Roba new age, si potrà tagliar corto – e forse non se ne avrà ogni torto. La pagina mi è tornata in mente però osservando alcune animate discussioni avvenute sulla nostra pagina social sotto al post riferito all’articolo sull’ultimo libro di un noto porporato italiano – laddove il libro era dedicato appunto a una “Biografia di Gesù secondo i Vangeli”.
Mi è tornata in mente, dicevo, perché – al di là del presupposto antropologico fallace (ma non così isolato) – la domanda pone un tema cruciale anche per ogni cristologia che voglia essere ortodossa: che avrebbe fatto, Gesù, se Jimi Hendrix si fosse improvvisamente materializzato accanto a lui passandogli la sua chitarra?
Come diceva il vecchio Apollinare…
Negli ultimi anni è invalso in certi ambienti cristiani (non solo cattolici) l’uso di gridare a un presunto “ritorno dell’arianesimo”: dal fatto che poi di fatto costoro intendano con ciò la riduzione di Gesù Cristo a un semplice uomo si capisce anzitutto che ignorano cosa sia l’arianesimo (tale dottrina non nega affatto la sussistenza in Cristo del Verbo di Dio, ma non ammette che lo stesso Logos sia consustanziale e perciò coeterno al Padre).
Inesattezze e ignoranze a parte, è sicuramente vero che ha corso da diversi decenni la tendenza – anzitutto nella predicazione e nella catechesi – a descrivere così massicciamente (e così banalmente) l’umanità di Cristo da non lasciar spazio ad altro: risulta a questo punto fatale il disinteresse a un messia tanto sbiadito – a che dovrebbe servire questo Cristo, che non solo non è divino ma in cui anche la sola umanità non sovrasta di netto quella di un buon maestro di morale (tanto più che raramente si parla del peccato umano in connessione con la corruzione della natura tutta e del bisogno di redenzione)? Il messia di Bach, al confronto, giganteggia! Non sarà il Verbo di Dio, ma almeno è così prodigioso nel suo percorrere le nostre stesse strade da accendere irresistibile il desiderio di imitarlo efficacemente (ed è questo il punto – per inciso – su cui la gracile impalcatura bachiana frana: chiunque può constatare come non basti “crederci” e “acquisire piena coscienza” per camminare sull’acqua o attraversare le pareti).
Se questa grossolana tendenza a “demitizzare” la figura di Gesù ha comunque dei precedenti nella storia delle dottrine cristiane, forse essi vanno cercati più tra gli ebioniti che tra gli ariani. Non sarà male, tuttavia, riservare qualche attenzione anche alla dottrina apollinarista, che germogliò da un pensatore anti-ariano e niceno – anzi, Apollinare di Laodicea era perfino amico di Atanasio! – e proprio nel solco del tema atanasiano sull’“efficacia del Redentore”. «Ario – diceva infatti il Vescovo di Alessandria – mi ruba il Redentore»: intendeva con ciò che se Cristo non fosse stato veramente divino non avrebbe potuto operare la redenzione umana. «Ciò che non è assunto – è l’altro caposaldo di questa cristologia – non è redento», e tanto basta per dire che Cristo doveva avere anche la nostra natura.
Che cosa sia, però, e fino a che punto si spinga, la nostra natura, è questione che i dottori ecclesiastici hanno trovato tutt’altro che pacifica: se tutti erano d’accordo, ad esempio, sul fatto che la natura umana non includa di per sé e in senso proprio il peccato, non tutti lo sono sul fatto che l’anima faccia parte della natura umana. Per di più – Simonetti non finiva mai di stupirsene – questa tendenza antropologica e soteriologica avrebbe trovato larga fortuna proprio ad Alessandria, dove a suo tempo Origene invece aveva elaborato un sistema che tanta importanza riservava all’anima umana di Cristo…
Abbiamo un testo di Apollinare, tanto breve quanto denso, che vale la pena leggere per farsi un’idea di ciò che sarebbe poi stato noto come “apollinarismo”:
Siamo in pieno quarto secolo, e in un certo senso Apollinare anticipava questioni che sarebbero diventate dominanti nel dibattito teologico un secolo più tardi e che neppure la definizione dogmatica di Calcedonia (451) avrebbe spento: l’imporsi, anzi, del difisismo romano rispetto al monofisismo alessandrino avrebbe rilanciato per i secoli a venire i germi delle questioni del monotelismo e del monoenergismo. Nessuno vuole un messia schizofrenico, certamente, e non solo ad Apollinare sarebbe parso opportuno troncare a monte questa catastrofica eventualità (quella del conflitto tra «due principî intellettivi e volitivi») sostituendo tout court all’anima umana di Cristo la persona del Verbo: Massimo il Confessore avrebbe invece lavorato (e sofferto) tanto per dimostrare che proprio la verità e la pienezza della redenzione si salvaguardano unicamente con la libera uniformazione della volontà di Cristo a quella del Verbo.
Come si vede, la disputa si sarebbe concentrata, nei secoli, soprattutto sulla volontà di Cristo, lasciando alquanto in penombra il tema dell’intelletto del messia: che cosa sapeva Gesù? E come lo sapeva? E da quando? Un sacerdote è intervenuto nella disputa sui social con una sentenza lapidaria:
Apollinare non l’avrebbe detto meglio, ma la verità è che per la communicatio idiomatum i cristiani riconoscono e confessano
Se ogni natura operasse o subisse secondo le proprie peculiarità senza convergere sempre verso l’unica Persona del Figlio incarnato, sarebbe con ciò dissolta la communicatio idiomatum, il che tornerebbe ad assommare incredibilmente insieme gli errori del monofisismo e quelli del nestorianesimo; forse però il prete intendeva semplicemente dire che le operazioni dell’anima sarebbero sic et simpliciter assunte dal Verbo, ma parlando espressamente di conoscenza egli sembra con ciò escludere la volontà (si esporrebbe altrimenti ad essere troppo facilmente ripreso). Questo “apollinarismo larvato” trapela da altri interventi in cui il prete soppianta la canonica diade aristotelica “intelletto e volontà” con l’endiadi notarile “scienza e coscienza”: la coscienza però non è una potenza dell’anima, e la sua introduzione nel discorso non fa che complicare una materia già non facile (la coscienza la riferiamo infatti alla persona [divina], ma l’anima umana, vera e completa, appartiene alla natura [umana]). L’allarme al nestorianesimo era appunto il marchio di fabbrica degli eutichiani contro cui (oltre che contro i nestoriani) si rivolgeva la definizione calcedonese.
Cosa dice il Catechismo…
Questo che si potrebbe dire “apollinarismo larvato” non è certo (né mai l’è stato) l’invenzione di un prete isolato, bensì la riproposizione costante del tentativo di scongiurare il conflitto nella coscienza di Gesù annientando almeno di fatto la sua anima umana.
Così intervenendo nella discussione qualche lettore ha riportato l’ultima parte di un post di un noto (e apprezzato) domenicano italiano felicemente dedito al ministero della Parola.
Mentre però si deve immediatamente contestare che il Catechismo della Chiesa Cattolica citi, sul punto, quel passaggio della Mystici corporis di Pio XII (sovrapposizione che non opera il Domenicano, ma il Lettore), si deve osservare che la stessa citazione dell’enciclica pacelliana è parziale, a discapito della sua perspicuità. Pio XII ha infatti composto quel punto di due paragrafi:
Donde consta chiaramente che il soggetto della “amantissima conoscenza” di cui scriveva Pio XII è non la natura umana di Cristo, ma il Figlio Unigenito di Dio considerato «già prima dell’inizio del mondo»: che la seconda Persona della Trinità abbia «eterna infinita conoscenza» e «amore perpetuo» non sarà motivo di stupore per alcuno. Nel secondo paragrafo lo stesso Figlio è chiamato Redentore in quanto considerato a partire dalla sua incarnazione, e poiché – secondo l’efficace espressione di san Leone Magno – «assumendo ciò che era nostro non perse ciò che era suo», evidentemente Egli non perse l’intelletto e la volontà (peraltro condivisi con le altre due Persone): ciò non significa, però, che nell’utero di Maria l’appena creata morula della natura umana di Cristo avesse una precocissima coscienza naturale di sé.
È falso che una cosa simile sia scritta nel Catechismo e non è vero che l’abbia detta Pio XII, il quale ha piuttosto affermato che – essendo l’incarnazione «condiscendenza della misericordia, non mancanza di potenza» (Leo, Ad Flavianum) – l’anima creata di Cristo fu immediatamente “innestata” nel Verbo che è il Figlio Eterno di Dio. L’anima di Cristo, tuttavia, era in quell’istante un’anima di embrione, verissima e sostanzialmente esistente ma lungi dall’essere pienamente sviluppata tanto quanto erano lungi dalla pienezza dello sviluppo le membra del suo corpo.
Nel post del blog, in cui il Domenicano risponde alla domanda di un lettore, si rimanda agli articoli 472 e 473 del Catechismo, che vale la pena riportare e leggere con attenzione:
I due articoli sono rispettivamente dedicati alla “conoscenza acquisita” e alla “conoscenza infusa”: dopo aver ribadito che un’anima finita, in quanto creata, «de se illimitata esse non poterat», il CCC spiega (canonizzando proprio le parole di Massimo il Confessore) che il Figlio godette della scienza di tutte le cose (cuncta), a cominciare dalla peculiarissima relazione tra sé e il Padre e dalla cardiognosi.
I due paragrafi sembrerebbero in sé contraddittorî (perché “tutte le cose” e anche i pensieri degli uomini sono innumerevoli ma finiti, mentre la vita intratrinitaria non lo è), ma il paragrafo del CCC su “l’anima e la conoscenza umana di Cristo” comprende altri due numeri, non citati dal Domenicano e da quanti lo rilanciano: il primo è il 471, che (guarda caso) mette le mani avanti circa l’apollinarismo:
E l’anima razionale dev’essere funzionante e funzionale: non la si può tenere lì, formalmente attaccata al Verbo come un’edera (a ben vedere, poi, pure le piante rampicanti crescono…). Il secondo numero è il quarto del paragrafo, il 474, che delimita nella fattispecie l’àmbito proprio della conoscenza di Cristo:
L’anima di Cristo, cioè, era continuamente immersa nella visione beatifica di Dio e dal Verbo veniva illuminata e dilatata incessantemente, così che Egli potesse crescere «in sapienza e in grazia» (cf. Lc 2,52), oltre che in età: ma di cosa si arricchiva, il Figlio incarnato di Dio, in quel tempo di continua crescita? Cristo passava le notti di preghiera esercitandosi a parlare le lingue dei popoli trapassati e futuri? O a studiare clavicembalo e violino elettrico – un po’ a metà fra il tutorial di YouTube e lo spinotto di Matrix? Questo è quel che suggerisce Bach (Richard), a modo suo, ma non ciò che insegna la tradizione cattolica: Cristo «fruiva in pienezza della scienza dei disegni eterni che egli era venuto a rivelare».
Difatti il CCC non si attarda qui nell’esegesi degli episodî di nescienza di Cristo (cf. Mc 9,21-22), cioè della non-scienza occasionale di fatti intramondani (i quali ovviamente non sfuggivano alla scienza eterna del Verbo, ma che non per questo dovevano riverberarsi sulla conoscenza umana di Cristo), e allude piuttosto sibillinamente alla conoscenza delle “cose ultime”, che in Mc 13,32 Cristo dice di ignorare, mentre in At 1,7 afferma di non essere mandato a rivelare.
Certa cristologia “fissista-essenzialista”, come paralizzata dal timore di scivolare nell’adozionismo o chissà in che altro, minimizza l’impatto dei misteri di Cristo sulla stessa natura umana di Gesù, laddove fin da principio autori ecclesiastici come Ireneo di Lione (prossimo a essere dichiarato Dottore della Chiesa…) non hanno temuto di dire che essi abbiano inciso perfino nell’immanenza del mistero divino! Ora, questo è tema che qui non possiamo neppure sfiorare, ma davvero vorremo dire che il Battesimo nel Giordano fu una mera parabola scenografica per gli osservatori diretti e per noi? Che la Trasfigurazione ci fu unicamente per confortare quei tre discepoli prediletti che ebbero la ventura di assistervi? E allora di che cosa stava parlando, Cristo, con Mosè e con Elia? Perché parlare, se era tutta una mistica “photo opportunity” con cui rincuorare i discepoli nell’ora della passione? E dovremo credere che nulla cambiò nell’umanità di Cristo al ritorno dagli inferi, quando egli era divenuto tale da poter non essere riconosciuto neppure dai più intimi amici?
Diatribe fra tomisti
Leggiamo su un ben più recente post (l’altro era del 2010) del medesimo sito del medesimo Domenicano che
E ancora a dire che questa dottrina si troverebbe nel Catechismo della Chiesa Cattolica, laddove così non è. È vero che san Tommaso d’Aquino sembra lasciare di fatto poco spazio alla conoscenza acquisita, ma Tommaso (fatta salva la venerazione per il Doctor Communis) era pure quello che negava l’animazione immediata in generale, figuriamoci se parlasse di visione beatifica nella morula di Cristo. Per Tommaso il Messia, nel “primo istante del suo concepimento” letteralmente non aveva un’anima – come (secondo lui) ogni uomo. E non è uno scandalo ammettere che su questo punto (come su altri) anche l’Angelico si sia sbagliato. Un tomista di ferro come Battista Mondin non ha avuto timore, nella sua Cristologia storica e sistematica, di scrivere:
Dante, Kazantzakis e Ratzinger
Dante, Kazantzakis e Ratzinger
L’era dei social ha fatto esplodere l’insano hobby di dare e revocare patenti di ortodossia, ma quando si studia storia del dogma cristiano bisogna sempre tener presenti due grandi direttrici:
Se questo vale per tutta la rivelazione, in modo sovreminente varrà per quel suo culmine che è il mistero stesso di Cristo, “Regno-in-Persona”. Non a caso lo stesso Dante, che aveva letto Tommaso (e molti altri) fa culminare i cento canti della sua Commedia nella contemplazione dell’uomo-Dio nella rosa dei beati:
Il dogma cattolico sta insomma a quel Mistero eterno come il π sta alla quadratura del cerchio: si possono fare buone approssimazioni della soluzione, ma i numeri trascendenti non sono costruibili e dunque il problema è, rigorosamente, non trattabile. Se non lo si può sciogliere, nondimeno, lo si può contemplare: così fecero Tommaso e Dante, così l’avrebbero fatto tutti i cristiani di tutti i secoli. E il pensiero mi va a quel grande frainteso che fu Nikos Kazantzakis, il quale chiudendo l’Introduzione alla celeberrima (nonché poco e/o mal letta) “Ultima tentazione di Cristo” scrisse:
Lo scrittore greco fa, è vero, un errore di fondo analogo a quello del suo omologo statunitense:
In questo senso (e solo in questo) è vero che la sua lettura è “laica” (parola abusata e fraintesa come poche), ossia non-dogmatica, ma certo non irreligiosa – anzi. Il difetto dogmatico è certamente importante, in un’opera su Gesù, ma questo rende tanto più eclatante una duplice constatazione che noi, “i dogmatici” e “la Chiesa” dovremmo formulare e accogliere:
Perché? Come si spiega?
Evitiamo di arroccarci subito nel mantra “si disegnano Gesù secondo le loro voglie!”. Che c’è, d’accordo, ma leggiamo bene queste parole:
È questo un uomo irreligioso? O ci sembra di poter dire che descriva un’esperienza insignificante agli occhi di Cristo? Eppure cose molto simili la Chiesa le dice di sé nella massima solennità di cui è capace:
E se si pone come ponte tra Cristo e l’umanità, la Chiesa ha sempre posto l’uomo come ponte tra Dio e il cosmo. Già un secolo fa il Tanquerey scriveva:
Se è vero, dunque, che l’uomo è per sé stesso un mistero ineffabile, più grande dell’intero mistero della natura e come “innestato” nel mistero dell’Essere stesso, la persona di Cristo è per l’uomo un Mistero infinitamente più insondabile e vasto, nel quale davvero chiunque pre-sente di poter esperire più di quanto osi immaginare o sperare.
Grande paradosso è, nel Paradosso della Rivelazione, che questo unico ed eterno Mediatore paia condividere alcune tra le nostre condizioni più basse: la fame, la sete, il sonno, la fatica, l’ira… e perfino una qualche forma di ignoranza.
Dunque che avrebbe fatto, Gesù Cristo, se gli avessero passato una chitarra? Rimandiamo in conclusione di questo lungo articolo a una sintesi proposta da Joseph Ratzinger in una nota dal chiarissimo titolo “Perché Gesù non sa tutto se è Dio?”:
Insomma, Gesù avrebbe saputo scrivere un programma informatico o parlare russo? Se c’è un rischio, nelle fascinazioni per Gesù come sembra quella di Richard Bach, sta nel fatto che dietro la spettacolare realizzazione di un’umanità perfetta – in Gesù – non si ritrova una via per cui essa possa diventare comune anche a noi. Forse neppure è un problema esclusivo di scrittori come lui.