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Immergersi a fondo nella vicenda di Abramo. Un libro per farlo

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Il sacrificio di Isacco, 1603, Galleria degli Uffizi, Firenze

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 22/10/21
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Il primo libro della Bibbia presenta, dietro le arcinote pagine della creazione e del peccato, del diluvio e dell'arca, l'imponente saga di Abramo, che la Scrittura stessa riconosce “padre dei credenti”. La sua esperienza è tanto paradigmatica quanto in realtà poco approfondita, anche per via di molte difficoltà tecniche. Alle quali un recente strumento prova ad ovviare.

Sareste capaci di scrivere 326 pagine su Abramo? Non Lincoln, ma quello a cui pensarono i suoi genitori dandogli nel 1809 quel nome di un personaggio risalente a tre o quattro millenni prima? Sì, l’Abramo del catechismo, il patriarca biblico: quello di “esci dalla terra dei tuo padri eccetera…”, e poi “offrimi tuo figlio in olocausto eccetera…”, e insomma s’è detto tutto, no? Come accumulare centinaia di pagine sul personaggio, se la stessa Bibbia racchiude tutta la sua vicenda in una dozzina di brevi capitoli, diciamo pure di pagine (dal 12 al 25, con accenni prima e dopo)? E soprattutto, perché farlo? A chi interessa? 

Le risposte a queste e a molte altre domande – soprattutto a quelle che neppure immaginiamo – sgorgano nei cuori dei lettori di un libro scritto da Marco Manco, appassionato scrutatore e felice espositore delle Scritture giudaico-cristiane

De te fabula narratur

Così sulla quarta di copertina: il claim è ambizioso, e oggettivamente intrigante… Scorrendolo uno comincia a pensare che Abramo torna nella Lettera ai Romani (Rom 4) e in quella agli Ebrei (Eb 7); che nei Vangeli Gesù lo prende a termine di paragone della propria preesistenza (Gv 8,32) e che in una parabola – rifacendosi a un uso dell’epoca del Secondo Tempio – Cristo indica col suo nome quasi lo stesso Dio (Lc 16,19-31); e pure – (non) per finire – che il Nazareno disse Dio capace di dare «figli ad Abramo a partire da queste pietre» (cf. Mt. 3,9; Lc 3,8). Insomma, forse il lontano ricordo dei primi anni di catechismo, dove Abramo si riassume nel primo paragrafo del capitolo “I Patriarchi”, è un tantino angusto per una figura a cui non solo tutta la cristianità guarda da sempre, ma pure i fedeli di altre confessioni e religioni – giacché in lui «si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3). 

Ci si mette anche Isaia! …E ci va giù pesante: pensare ad Abramo come “nostro padre” non ci fa quasi più impressione, ma adesso addirittura che Sara ci abbia “partoriti”… E l’autore è saggio nel porre questo monito profetico alla fine del libro, laddove all’inizio sarebbe rimasto inascoltato perché perlopiù incompreso. Quanta gente si dice “Mi metto a leggere la Bibbia!” e, armata di sola buona volontà, si arena miseramente proprio sulle prime pagine della vicenda di Abramo: fino al capitolo 11 della Genesi nessun problema, sono “storie fantasiose” e arcinote – Adamo ed Eva, l’arca di Noè –, benché sempre lette con rapida superficialità. Al capitolo 12 si arriva invece già frastornati dalla genealogia di Abramo, che chiude il precedente, e uno ha già voglia di cominciare a saltare le pagine per leggere “giusto le cose importanti”. 

Per rompere il ghiaccio delle difficoltà di lettura

Incomprensibili per moltissimi, e per molti perfino illeggibili, le genealogie bibliche sono invece di massimo interesse per gli esegeti di mestiere, e Manco prende le mosse proprio da quella di Abram (che non nacque affatto Abramo!), armandosi di pazienza e tenacia, per guidare il lettore alla scoperta del parterre implicito della vicenda abramitica. A quel punto la genealogia cessa di essere una nenia cacofonica e si rivela invece per quella Ouverture operistica cara agli autori sacri. Che Milca fosse la moglie di Nacor non è una nozione a cui s’interessano gli orientalisti, ma la condizione per cogliere una grande sorpresa nell’ultimo atto dell’Opera: il linguaggio biblico, però, come e più di quello operistico, sa essere respingente per i profani e necessita – come e più di qualsiasi letteratura antica proposta ai moderni – un espositore affidabile e affabile. 

L’una e l’altra cosa si rivela Marco Manco, che dell’esegeta accademico mostra in quest’opera di possedere i ferri e non il linguaggio: il libro è scarno in note a pie’ di pagina (meno di 50 in tutto, e quasi tutte occupate da semplici riferimenti biblici) e cita i classici dell’esegesi moderna solo quando giudica il loro apporto utile per il frutto spirituale del lettore, che resta – per lui come già per Origene, Agostino, Gregorio e mille altri giganti che ci hanno preceduti – il fine principale della lectio divina. “Abramo. Una storia di fede” non è dunque, in senso stretto, un “libro di esegesi”, benché di esegesi sia straripante, bensì piuttosto una esposizione del testo sacro, che usa gli strumenti ermeneutici necessari (lingue, rimandi, strutture, generi letterari…) come mezzi e non come fini. Si parla dunque di Abramo e della Genesi, certo, ma soprattutto della fede, cioè di Dio – l’unico vero – e dei credenti, che pagina dopo pagina il lettore comprende non nascere mai fatti e finiti. 

Molte volte, infatti, Abramo viene chiamato, e se la sua prima mossa – l’uscita da Ur dei Caldei – non fu in realtà una risposta sua, bensì del padre Terach, all’invito esodico del Dio che si rivelava, neppure con la circoncisione – quando lo stesso testo, preparando Paolo, riconosce la “giustificazione” del futuro patriarca – l’“Arameo errante” divenne un credente maturo nella sua esperienza di fede: 

Tutto ciò che precede la richiesta dell’olocausto di Isacco, insomma, pagina altissima e oltremodo drammatica non solo nel ciclo di Abramo ma in tutta la letteratura mondiale – senza di quella mai Kierkegård (penultimo di moltissimi altri) avrebbe scritto Timore e tremore –, è in qualche modo preparazione e preludio alla “fede vera”: è uno stadio di elezione in cui la voce di Dio emerge faticosamente da quella della coscienza, e questa sfuma spesso nell’onirico (non a caso molte scene avvengono di notte o al tramonto). Abramo crede alla Voce però spesso opera sottobanco per procurarsi da sé quel che la Voce promette ma sembra tardare a mantenere; anche dopo aver avuto diverse prove tangibili della predilezione divina che lo ammanta continua a presentare la moglie come la sorella, e mentre espone la compagna al pericolo per sottrarvi sé stesso poi segue i propositi sconsigliati della moglie che rendono più tortuoso l’intreccio su cui la Grazia s’impegnerà a convogliare la propria benedizione. 

Abramo un po’ fedele e un po’ infedele, un po’ sincero e un po’ bugiardo, un poco onesto e un poco traffichino, un poco prostrato in adorazione e un poco intento in una specie di gioco delle tre carte – dove le carte sono “avere in dono”, “comprare”, “sgraffignare” – al banco degli uomini e a quello di Dio: effettivamente questo personaggio ci si mostra non poco vicino e non poco simpatico. 

La Promessa oltre le illusioni e le delusioni

La sua struggente malinconia davanti al cielo stellato sulla sua silenziosa tenda – che per anni e decenni aveva sognato allietata dagli schiamazzi di bambini per cui vivere e morire – è facilmente condivisibile, e rimanda anzi a quella del leopardiano “pastore errante”, a quella del disneyano Simba e insomma alle notti fragili di tutti noi: 

In realtà ogni uomo adulto, posto cioè per almeno un certo tempo davanti ai pesi e alle responsabilità dell’esistenza, si è proiettato qualche volta in quel buio crivellato di luce, quindi cogliere la grandezza del segno delle stelle è difficile soprattutto perché grave da portare è la materia, certo non perché ce ne sia mancata l’occasione. 

Le questioni della discendenza e della terra – oggetto della rivelazione fatta ad Abram nel cielo stellato – sono per tutti gli uomini riverberi delle questioni capitali: che devo fare nella vita? Che cosa posso sperare? Su chi riverserò il mio amore, e chi me ne restituirà un poco? Le voci della coscienza si fanno a riguardo sibilline e impetuose, e non è senza gravi fraintendimenti che ognuno impara a distinguere la voce della coscienza da voci “altre” e diverse – forse la voce di un Altro? E che vuole? 

È nelle (molte) pagine come questa che sta la ricchezza del libro di Manco: da raffinate nozioni particolari si risale a preziosi principî generali che facilmente si riscontrano nella vita personale e comunitaria. Proprio nella “questione ermeneutica” – se lo si vuole dire con termini formali – ogni lettore della Bibbia, anche se principiante, riconosce un profilo della grandezza di Abramo: non siamo neanche a metà del primo libro della Bibbia e già non ci stiamo capendo niente – non solo a livello letterario, ma soprattutto sul piano dello svolgimento (qual è la volontà di Dio su questo figlio? come deve arrivare? e soprattutto perché dopo vuole riprenderselo, in quel modo poi? E che dire della terra, che non arriva fino alla morte?!) –, noi che leggiamo un racconto ben confezionato e possiamo farlo sulla scorta di esegesi plurisecolari… figuriamoci Abramo, che in quel guazzabuglio di emozioni contraddittorie e di contraddizioni estenuanti ci viveva! E non aveva insomma – in termini sacramentali – una Chiesa alle sue spalle, perché la Chiesa – questa comunità di credenti che condivide l’intelligenza del senso della vita e delle Scritture – doveva nascere dalla/nella sua discendenza! 

Prova e tentazione, due sfumature di un’esperienza

Come faceva Abramo a capire, insomma, se un fatto era un’occasione o una tentazione? Ecco il punto: almeno fino alla scena madre – l’ascesa al monte Moria con Isacco – fatica e stenta moltissimo a capirlo, vivendo continuamente l’ambiguità della prova nella difficoltà di distinguere, tra le voci altre che ogni coscienza umana esperisce, quella del Signore e quella del tentatore. Una difficoltà che Cristo stesso volle segnalare quando insegnò ai suoi discepoli a pregare il Padre, ma che resta così scandalosamente oscura e dura da porre problemi ai credenti di ogni tempo: così i giudei dicono che in punta di grammatica non è detto che Isacco debba essere immolato, ma solo che debba “salire al monte” per il sacrificio; così i cristiani dedicano trattati e conferenze al versetto “ne nos inducas in temptationem”, perlopiù concentrandosi sul verbo “indurre” a discapito del sostantivo “tentazione”. 

Sull’attiguità fra prova e tentazione si leggono invece alcune tra le pagine più belle del libro di Manco: 

Con il sacrificio di Isacco Abramo supera la prova decisiva, dopo averne fallite non poche propedeutiche, e da quel monte discendono misticamente trasformati sia lui, che impara a ricevere il figlio come dono e non come diritto/proprietà, sia il figlio, da quel punto in poi a sua volta protagonista autonomo della propria vicenda, sia lo stesso Dio, che si è rivelato come Colui che “sul monte provvede” e che «provvederà Egli stesso all’agnello per l’olocausto» (Gen 22,8). 

O come poeticamente sintetizza Manco, mentre si avvia all’ultima cinquantina di pagine: 

Leggersi nella vicenda di Abramo

Marco Manco promette al lettore di non perdersi in banali tecnicismi, perché non perde mai di vista a che cosa serva la Scrittura rivelata da Dio e trasmessa dalla Chiesa, e mantiene bene la sua promessa. Quel che chiede in cambio al lettore è di disporsi a un ascolto paziente, bonificato dalle frettolose intemperanze della vita nel/del nostro tempo: la sua prosa è piacevolmente prolissa non solo perché arricchita da una grande quantità di conoscenze, amalgamate in una soluzione cremosa e non farraginosa, ma soprattutto perché tratta di materie delle quali si può parlare soltanto mediante ciclici ricorsi sui tornanti del racconto. Di queste materie il racconto biblico non è in realtà che la miccia: la Parola di Dio detona infatti nella vita di chi legge la Scrittura facendolo crescere al punto da renderlo capace di riconosce sé stesso nella storia narrata.