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I cattolici non siano papofobi né papolatri

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Jean Duchesne - pubblicato il 05/10/21
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Incensare il papa regnante è vano tanto quanto dargli addosso: non è la sua personalità che fa di lui il primo e indispensabile servitore del moto centripeto della fede e dell’unità dei cristiani.

Spesso il Papa – chiunque egli sia – suscita reazioni appassionate. Ogni papa ha i suoi turiferari e i suoi detrattori. La maggior parte delle persone (ivi inclusi anche parecchi non credenti) vorrebbe che egli benedicesse ciò che pensano, desiderano o fanno, e non sempre vengono esauditi. Gli altri (tra cui certi sedicenti cattolici) si dichiarano indifferenti a tutto ciò che egli può dire, ma restano stizziti al constatare la grande attenzione di cui egli gode, soprattutto quando – anche senza attaccare personalmente chicchessia – egli critica le loro idee, i loro progetti o i loro atti. Che lezioni si possono trarre da questi paradossi? 

Anzitutto non deve destare sorpresa che il Papa divida non soltanto il suo gregge, ma anche quanti non riconoscono la sua autorità. La stessa cosa è capitata a Gesù: i suoi discepoli non lo comprendono, talvolta, e non mancano pagani che lo ammirano. Se, come egli stesso ha detto, «il servitore non è più grande del suo padrone» (Gv 13,16), bisogna aspettarsi che il “vicario di Cristo” in questo mondo non riscuota l’unanimità dei consensi né nella Chiesa (in suo favore), né al di fuori di essa (contro di lui). Tutto ciò vale del resto allo stesso modo per qualsivoglia prete di campagna o di quartiere: non tutti i suoi parrocchiani tessono le sue lodi, mentre non mancano miscredenti che volentieri riconoscono il suo contributo positivo alla vita sociale. 

La cosa più sbalorditiva, se si vuole, è che un’istituzione tanto vecchia (ma diciamo pure antica) quanto il papato sia sopravvissuta alle mutazioni civili e sociali che renderebbero spaesati i nostri antenati se tornassero tra noi. Il successore di Pietro non ha più bisogno di essere un sovrano temporale per conservare la propria indipendenza davanti ai governanti, si trova a suo agio con le nuove tecnologie che aboliscono le distanze: l’aereo gli permette di recarsi ovunque nel mondo attirando folle e, dalla stampa ai social network, passando per la radio, le foto, la televisione e l’Internet, i suoi messaggi filtrano da tutti i supporti. 

Questa modernizzazione significa tuttavia che, se il Papa si serve dei media, questi a loro volta lo sfruttano come materiale pregiato e praticamente inesauribile. Una conseguenza di ciò è che lo strumento comunicativo tende a condizionare ciò che veicola e a trasmettere solo l’acqua che va al proprio mulino. Quando il papa raccoglie più di un milione di persone oppure è ben accolto lì dove i cristiani sono assai poco numerosi, o ancora quando una sua dichiarazione risulta sconcertante, l’“informazione” non viene solo rilanciata, ma pure commentata. E nondimeno la macchina che diffonde il sensazionale non si ferma a questo: essa fa del Vescovo di Roma una “celebrità”, una vedette, una star, un “vip”. 

I dettagli sulla sua persona “si vendono” dunque bene: la sua famiglia e le sue origini, la sua giovinezza, il suo percorso, le confidenze di vecchi amici, il carattere per come talvolta emerge da aneddoti, i problemi di salute eccetera. Tutto ciò spinge a inquadrare l’uomo a partire da ciò che egli è stato, a interpretare la sua attività come delle reazioni alle sfide che ha oggigiorno, a descrivere un individuo che non cambierà più. È un approccio non privo di un qualche interesse, quando si tratta di un capo di Stato. Victor Hugo ha così potuto scrivere che alla sua nascita, quando «questo secolo aveva due anni […], già Napoleone spingeva sotto Bonaparte». Non si può però dire che prima del 2013 a Buenos Aires papa Francesco tentasse di emergere da Jorge Bergoglio. 

Un papa non è più il cardinale che era stato. Una ragione di ciò sta nel fatto che non ha fatto campagna elettorale né ha pubblicato un programma, come fanno oggi tutti i presidenti eletti. Se in altri tempi ci sono stati dei candidati, ciò è stato per ragioni politiche che non sarebbero dovute intervenire. Gli uomini portati al pontificato da un partito o dall’altro, tuttavia, per quanto i loro costumi privati siano stati indegni (si penserà ad Alessandro VI Borgia), non sono riusciti ad alterare la missione ricevuta, perché è questa che rimodella colui su cui essa ricade – molto più di quanto egli possa snaturarla. 

Facciamo qualche esempio. Il beato Pio IX era anzitutto etichettato, all’inizio del XIX secolo, come “liberale”, poi come “reazionario”. È cambiato? Si può considerare che l’evoluzione piuttosto radicale del contesto (la minaccia di una subordinazione allo Stato italiano, che stava edificandosi sulle basi di un acre anticlericalismo spirante in Europa) l’abbia condotto a riaffermare la singolarità della propria carica, per la quale egli non poteva infeudarsi nella “modernità” ma doveva attenersi all’antico ordine. In questa prospettiva, la classificazione a “sinistra” o a “destra” torna a ridurre il papato a dimensioni che le sono estranee e che non consentono di comprenderne granché. 

Allo stesso modo, più di presso ai nostri giorni, san Giovanni Paolo II, critico del comunismo e artigiano della sua implosione, è stato salutato come difensore delle libertà, prima di essere tacciato di “conservatorismo”. L’arcivescovo di Cracovia era un pastore filosofo che sviluppava una visione dell’uomo e della sua vocazione che ha moralmente armato la resistenza contro la dittatura ideologica rendendola vittoriosa. Divenuto Papa, e pur restando un intellettuale di primo rilievo, perfettamente informato, nonché un “comunicatore” senza eguali, si è manifestato più teologo, e dunque più manifestamente fedele a tutto ciò che la Tradizione, nella sua coerenza, nella sua continuità e nel suo potere di assimilazione, ha di normativo e recono nella vita della Chiesa, fino a toccare la sua disciplina. 

Alcuni hanno detto che, dopo di lui, Benedetto XVI sarebbe rimasto il cardinal Ratzinger, un accademico portato all’astrazione, promosso a custodia del dogma e poco carismatico. È un’immagine inesatta. Le sue encicliche sulla carità (Deus caritas est) e sulla speranza (Spe salvi) hanno risuonato al di là della Chiesa, e forse ancora di più l’ha fatto quella (Caritas in veritate) in cui, davanti alle crisi della globalizzazione, della finanza e dell’ecologia, egli attualizzava la dottrina sociale dei suoi predecessori. Fino alla sua visita in Francia, nel 2008, ha dimostrato di saper rispondere alle attese delle folle. La sua rinuncia non è stata un mezzo per tornare ai suoi cari studî: egli ha semplicemente constatato di non avere più la forza di assumersi l’incarico che gli era stato affidato. 

Lo stile del suo successore è certamente diverso, ma questo non per via della sua personalità, né perché sarebbe fondamentalmente un gesuita argentino, cosciente che l’avvenire non si giocherà nella vecchia Europa. La sua azione dipende anzitutto non dal suo passato né dal suo temperamento, ma dalle priorità che egli discerne su scala universale, quella che ormai gli compete. Anche se conosce il peso delle proprie idee, egli percepisce che oggi in tutto il mondo la fede e la miscredenza sono vissute, prima di essere pensate. Donde dei messaggi che, nel complesso, cercano di nutrire la spiritualità, la relazione personale con Dio, e offrono mezzi per affrontare nella speranza e senza spavalderie le prove individuali come quelle collettive. 

Se vogliamo essere cattolici, non è meno sbagliato portare il Papa in trionfo perché è d’accordo con noi che torcere il naso perché ci contraria un poco. La sua missione è di aprire e al contempo unificare le nostre prospettive. San Giovanni Paolo II ci ha invitati a non avere paura: noi possiamo e dobbiamo pregare sempre perché nessuno dei suoi successori abbia paura di dispiacerci o ci compiaccia troppo, confortandoci nell’autosoddisfazione. 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]