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Le conseguenze del gran fiasco dell’Occidente in Afghanistan

KABUL
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Frédéric Pons - pubblicato il 23/08/21
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Per difetto di una vera strategia politica, i paesi occidentali impegnati in Afghanistan al seguito degli Stati Uniti d’America subiscono una (prevedibile) disfatta. Buon conoscitore del Paese, dove a partire dal 2002 si è reso più volte al seguito dell’esercito francese, Frédéric Pons mostra come le medesime cause producano i medesimi effetti.

La vittoria totale degli islamisti talebani in Afghanistan, il 15 agosto, e il corrispettivo grande fiasco dell’Occidente, non sono una sorpresa. Era tutto prevedibile fin dal primo annuncio del progressivo ritiro delle forze occidentali, e americane in particolare, nel 2011. Era solo questione di tempo. Il loro successo è stato anzi annunciato, molto più chiaramente, dall’accordo sottoscritto a Doha (Qatar) il 29 febbraio 2020, tra i vertici dei talebani e gli Stati Uniti. 

In preparazione dal 2018, quest’accordo è passato pressoché inavvertito in Francia [come pure in Italia, N.d.R.]. Esso avviava un duplice processo: il ritiro, in 14 mesi, dei 13.000 ultimi soldati occidentali (USA e NATO), e simultaneamente il reinserimento dei talebani nello scacchiere politico. Washington aveva ottenuto da loro la promessa di una relativa moderazione e di non lasciar utilizzare più il territorio afghano contro la sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati. Da parte americana, ci si rallegrava per un «accordo diretto a portare la pace in Afghanistan», e dell’impegno della comunità internazionale a «non accettare la restaurazione dell’Emirato islamico di Afghanistan». Da parte talebana, si applaudiva alla «fine dell’occupazione» con la vaga promessa di rispettare «i diritti acquisiti dal 2001»… 

Chi poteva credere all’improvvisa moderazione dei talebani, tanto abili nella loro comunicazione? Nelle zone da loro riconquistate in questi ultimi anni hanno già proceduto a una severa epurazione, applicando la sharía – questa legge islamica pregna di barbarie che adesso potranno nuovamente estendere a tutto il Paese. Sorte analoga attende Kabul e l’area circostante. Soltanto i presidenti Biden e Macron, coi loro ministri Blinken e Le Drian, hanno creduto alla possibilità di un «governo inclusivo e rappresentativo che risponda alle aspirazioni della popolazione». Quale ingenuità! O piuttosto… che cinismo, per giustificare l’abbandono e temperare la disfatta! 

Nella fretta di partire, gli Americani hanno in realtà mollato da due anni le redini dell’amministrazione pro-occidentale che avevano allestito e, di fatto, hanno consegnato l’Afghanistan ai loro nemici. È esattamente quel che avevano fatto tra il 1973 e il 1975 a Saigon, abbandonando il Vietnam del Sud alla dittatura comunista. Alle medesime cause corrispondono i medesimi effetti. Le incredibili scene di caos osservate a Kabul hanno stranamente ricordato la catastrofica evacuazione americana di Saigon, nell’aprile del 1975. 

L’ambizioso accordo del 2020 non ha retto a lungo, davanti a questo Paese privo di un vero Stato centrale da quel 1973 che ha segnato la caduta della monarchia, il quale fra l’altro non resiste alla consistenza delle forti pressioni etniche e di clan. 

Profondamente corrotto e incapace di suscitare il benché minimo slancio nazionale, il potere afghano è stato rapidissimamente superato e poi asfissiato dalla lenta e costante rimonta dei talebani. Per timore di future rappresaglie, per solidarietà tribale o per puro opportunismo politico o religioso, l’amministrazione in carica e le forze di sicurezza hanno progressivamente abbandonato ogni volontà di resistenza. La disintegrazione si è accelerata all’inizio dell’estate, ma fin dal febbraio 2020, dopo l’accordo di Doha, i giorni del presidente Ashraf Ghani e della sua équipe erano contati: avrebbero passato i loro ultimi mesi di potere a preparare la loro fuga e quella delle loro famiglie. I militari e i poliziotti afghani lo sapevano – si sarebbero dovuti battere, loro, per del vento? 

L’offensiva dei talebani è stata eseguita con precisione notevole. Se i loro combattenti sono ancora “allevatori di capre” in sandali di cuoio, come li hanno spocchiosamente descritti degli “esperti” dalla vista corta, i loro capi sono dei notevoli tattici, esperti nella guerra d’insurrezione e in comunicazione, connessi al mondo. La maggior parte di loro guerreggiava già nel 2001. Soprattutto, da più di trent’anni beneficiano del costante appoggio politico, militare e finanziario, dei loro due padrini – il Pakistan e il Qatar. A dispetto delle loro relazioni privilegiate con gli Stati Uniti, questi due paesi non hanno mai cessato di fare il doppio gioco – in apparenza amici, in realtà risolutamente ostili agli interessi americani. L’implicazione diretta dell’ISI, i potenti servizi segreti pakistani, accanto ai combattenti talebani, e l’importante finanziamento qatariota alla macchina da guerra talebana, non erano un mistero per chicchessia. 

Dopo Barack Obama e Donald Trump, Joe Biden ha continuato la medesima inconseguente politica che ha condotto all’inglorioso abbandono dell’Afghanistan tra le mani dei talebani, dopo 19 anni di impegno diretto (a partire dagli attentati dell’11 settembre 2001). Quei medesimi talebani – allora detti “freedom fighters” – erano stati armati e lanciati contro i Sovietici, fra il 1979 e il 1989, dai loro predecessori (Jimmy Carter e Ronald Reagan), prima di rivoltarsi contro l’America ed aiutare Al Qaeda e Osama Bin Laden. Le spiegazioni imbarazzate di Biden e della sua équipe hanno aggiunto l’onta al ridicolo. 

Cinici e ingenui al contempo, i responsabili occidentali non hanno mai saputo definire una vera strategia politica in quel Paese. Hanno contribuito ad alimentare fandonie ufficiali sulla realtà di questa guerra, indubbiamente perduta in partenza e costantemente attizzata alle loro spalle da “alleati” su cui non si poteva contare. L’impegno coraggioso di decine di migliaia di soldati occidentali per quasi vent’anni non avrà che ritardato lo scacco del 15 agosto e intrattenuto l’illusione di poter esportare la democrazia e i diritti dell’uomo presso popolazioni che non vogliono affatto saperne. Il prezzo pagato per venire in aiuto a questo “regno dell’insolenza” è pesante: circa 2mila miliardi di dollari gettati invano, e quasi 3.500 soldati occidentali uccisi (2.356 Americani, 453 Britannici, 158 Canadesi, 90 Francesi, [53 Italiani, N.d.R.]). 

La storia riterrà indubbiamente che il 15 agosto 2021 segni un rovescio strategico maggiore dell’Occidente nel XXI secolo, specialmente per l’America, una volta di più umiliata sotto lo sguardo impavido e certamente soddisfatto della Cina – la grande rivale. Nessuno dubita che questa sequenza infelice incoraggerà tutte le forze ostili che vogliono assestare colpi all’Occidente, a cominciare dai network islamisti radicali. 

Appiccicata per quasi vent’anni alla strategia americana in questa regione, l’Europa – Francia [e Italia, N.d.R.] in primo piano – è direttamente associata al bilancio di questa guerra perduta. Né l’Europa né la Francia saranno risparmiate, anzi pagheranno un forte scotto: ancora prima del terrorismo islamista, rinvigorito da questo fiasco, dovranno affrontare un enorme problema di rifugiati e di migranti clandestini.

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]