C'è una disciplina molto seria dietro le arti marziali, non è solo lotta ma una filosofia di vita. Tra queste la muay thai o thai boxe è una delle più dure: si possono usare i pugni, i gomiti, le ginocchia, i piedi per colpire ogni punto del corpo dell’avversario. Lo sport di contatto non è per forza sinonimo di violenza bestiale. Ma se fattori esterni come la povertà e il cinismo degli affari cambiano le regole del gioco, chi sale sul ring diventa una vittima.
In Tailandia la thai boxe è un'ossessione, quasi ogni bar ha un ring per i combattimenti. Una leggenda vuole che questa disciplina sia legata alla figura mitica del principe Nay Khanom Thom che impressionò il re birmano che lo aveva imprigionato combattendo a mani nude. Da questa storia dovrebbe emergere il ritratto ideale del lottatore di muay thai: colui che non si arrende davanti alle avversità e che con coraggio e determinazione domina gli eventi.
Quest'eco filosofica permane, ma ha anche un volto degerato nella Tailandia del XX secolo. La pandemia, poi, ha reso più marcato l'abisso che separa la filosofia delle arti marziali dal cinismo degli affari e dal dramma dell'indigenza grave. Fare i conti con le avversità e dominare gli eventi oggi può essere tradotto così: ci sono bambini che si danno al combattimento per procurare alle proprie famiglie i mezzi di sussistenza. Non appare come una costrizione evidente, e i genitori possono essere definiti a loro volta vittime, ma non esenti da colpe.
C'è la povertà vera e c'è l'idolo di un successo a portata di mano: famiglie che dormono per terra e sognano di avere un figlio "campione". Ma in questo quadro complesso ci sono anche elementi chiaramente esecrabili.
In Tailandia fin dall'età di 7 anni i bambini sono regolarmente pagati per i combattimenti. Attorno a questi scontri c'è un grosso giro di scommesse che per molte famiglie in condizioni di estrema povertà diventano il miraggio di fare fortuna. Ogni ombra di filosofia ed educazione scompare, resta solo uno sfruttamento che lascia attoniti.
Questo scambio di battute avviene tra una giornalista di Unreported World e un bimbo tailandese di 9 anni, giovanissima promessa del combattimento. Dalle sue vittorie sul ring dipende il benessere dell'intero villaggio in cui vive. Possibile? Siamo in una delle zone rurali più povere della Tailandia, da cui - guarda caso - escono anche i più precoci "talenti" della thai boxe. Lo scenario tratteggiato in 23 minuti di reportage è allucinante proprio per la patina di normalità con cui si racconta uno sfruttamento che verrebbe da definire quasi preterintenzionale. Il padre del piccolo combattente non è un mostro, eppure non si rende conto fino in fondo della gravità della scelta di cui è responsabile.
La povertà ha spaccato in due questa famiglia (come tantissime in Tailandia). C'è una madre che lavora lontano, nella capitale Bangkok, e manda i pochi soldi guadagnati a casa. C'è un padre senza lavoro che cresce i figli e manda avanti la casa. C'è il figlio di 9 anni che si allena come una bestia - e non è un modo di dire - per mettere ko il prossimo avversario. L'intero villaggio aspetta il combattimento per fare le scommesse sul campione. Sulle spalle di questo bambino grava la consapevolezza che vincere significa garantire al villaggio un ritorno economico atteso come la manna nel deserto, e lo stesso vale per la sua famiglia. Le mance ricevute dal campione dopo un match equivalgono a un anno di stipendio della madre. Ecco. E quale peso portano quelle stesse gracili spalle quando il bambino perde?
Nonostante i tentativi di molte cordate di dottori affinché il governo promulghi una legge che renda illegali i combattimenti dei minori, nessuna tutela è ancora in vigore. E il business delle scommesse è un mostro troppo gigante da estirpare. In un reportage fatto dalla Reuters è protagonista un altro baby lottatore di 9 anni soprannominato Tata, anche lui convinto che il gioco valga la candela. E come non comprendere il cortocircuito dei suoi pensieri? Quando non c'è niente da mettere sotto i denti e quando combattere significa potersi permettere un tetto sopra la testa, s'intuisce con quanto orgoglio questo bambino dica:
Sono fiero di essere un combattente che guadagna soldi per sua madre.
Il consenso dei genitori basta, dunque. Già questo fa venire i brividi, ma non quanto vedere una folla di adulti invasati attorno al ring che incitano e fomentano lo scontro. Fa pensare ai gladiatori, che però erano schiavi. Possibile che non vedano che a sputare sangue e cadere a terra ci siano dei bambini, loro figli?
E la tragedia è dietro l'angolo.
Qui alle nostre latitudini ho memoria di tante battaglie animaliste per impedire i combattimenti tra cani. Sarebbe facile alzare il tono di voce e puntare il dito con molta rabbia verso chi mette i bambini nelle stesse condizioni di povere bestie.
E contro chi lo punterei questo fantomatico dito? - mi sono chiesta. I genitori? Forse, ma la verità è sono ad anni luce di distanza dal sapere cosa significhi non avere nulla da dare da mangiare ai figli e vederli dormire per terra senza neppure un lenzuolo. E non mi consola essere dalla parte dei giornalisti occidentali che vanno a chiedere: perché permette che suo figlio faccia questo?
La madre di Tata ha risposto così all'inviato della Reuters:
Credo alle parole di una madre, anche se sono lontanissime dalla mia sensibilità. Sarei forse io capace solo di scelte moralmente encomiabili se mi trovassi così alle strette? Temo proprio di no.
Sono altrettanto certa che la voce cristiana sarebbe un balsamo in quel groviglio di miseria che soffoca anche i pensieri. Sarebbe lo scudo a cui appoggiarsi per dare credito a ciò che il cuore intuisce: no, i bambini non sono bestie da immolare. A volte è un vero balsamo sentire una voce decisa che pone un limite indiscutibile. Quando si parla di missione, si parla innanzitutto di una compagnia dentro le circostanze e non di un invito forzato a cambiare religione.