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Che cosa avviene al momento della morte?

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P. Nathanaël Pujos - pubblicato il 09/03/21
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Al momento della morte ogni uomo riceve nella propria anima la retribuzione eterna. Ciascuno si vede giudicato in coscienza nella verità del suo cuore, o attraverso una purificazione o entrando direttamente nella beatitudine del cielo… o dannandosi. La Chiesa invita alla conversione e, al tempo stesso, alla fiducia.

Da un punto di vista puramente umano, la morte è incomprensibile e scandalosa. Ecco perché, naturalmente, ne rigettiamo l’idea stessa. Senza una speranza religiosa in un aldilà, la morte non è che un ritorno al nulla donde fummo tratti: essa renderebbe dunque vana e disperata ogni esistenza umana e ogni azione. Perché amare un essere, ad esempio, e impegnarsi per lui se siamo destinati a non vederlo mai più? Tutto sarebbe effimera vanità: le nostre esistenze assurde consisterebbero nell’attendere che la nostra “durata in vita” trascorra più o meno confortevolmente, seduti nel grande teatro del mondo e senza pensare troppo all’ultima scena. 

Il nostro mondo occidentale scristianizzato occulta la realtà della morte. La si nasconde, non se ne parla, non ci si pensa o si prova a non pensarci… e ci si concentra sulla sola terapia del dolore. Eppure la morte è l’unico evento ineluttabile delle nostre vite. Essa si avvicina a noi inesorabilmente, in una spirale via via più stretta: anzitutto è anonima (la morte di “quello”, di un tale), poi più vicina (la morte di un “tu” amato) e infine personale e inevitabile: la mia morte, la morte dell’“io”, nella quale più nessuno può mettersi al mio posto. Stavolta sono io a morire. Solitudine e impotenza assolute. 

Il filosofo Heidegger descrive il momento in cui “la” morte diventa “la mia” morte come un momento profondamente paradossale: questa prossimità della mia morte mi conferisce una straordinaria e unica lucidità sulla mia vita, poiché giunge a concluderla. Un poco come l’ultima pagina di un romanzo illumina tutte le precedenti. Al tempo stesso, però, di questa lucidità estrema – lucidità che nessun altro momento può addurre – non posso fare alcunché, perché non ho più avvenire, non ho più dei possibilia da esplorare. Finalmente ci vedo chiaro, ma è troppo tardi. La morte è paradossale in quanto con una mano mi dà ciò che con l’altra si riprende: i miei occhi si aprono, finalmente, ma non ho più mani (non ho più un domani!). 

La mia corsa è finita e mi ritrovo di fronte al muro della morte: una volta spirato, posso finalmente fermarmi e gettare un’occhiata complessiva alla mia vita, ma al contempo questo muro m’impedisce di avanzare oltre. Il sapere è lì, luminoso, ma privato di tutta la fecondità del fare. Lucidità assoluta ma totale impotenza: ecco il paradosso a cui dobbiamo prepararci con l’approssimarsi della morte. Una chiaroveggenza afona. 

Se la filosofia vuole “insegnarci a morire” (Montaigne), le sue risposte restano incapaci di colmare il cuore dell’uomo, che per sua natura è assetato di eternità. Le mitologie e altre religioni naturali vogliono apportare racconti più convincenti sull’aldilà, ma è la rivelazione cristiana che – in Gesù Cristo – rivela all’uomo il suo destino ultimo e la sua incredibile dignità. 

Lo scrittore Gilbert Cesbron ha questa riflessione notevole: 

Fortunatamente ci pensa la vita, a disturbarci incessantemente: a ricordarci le sue questioni essenziali. Siamo degli esseri di “desiderio”, parola la cui etimologia ci insegna che esso è il portare lo sguardo al di là delle stelle “de-siderare”, misura dell’infinito che nessuna soddisfazione appaga. De-siderati in un mondo disincantato, restiamo più che mai liberi di anticipare in parte la lucidità finale della morte che viene, salendo in corsa – per così dire – sulla corriera dove ci prepariamo a morire. «Pensate alle cose di lassù, e non a quelle della terra», insiste san Paolo (2Cor 3,2). 

Senza Dio l’uomo è un enigma a sé stesso, un “mostro incomprensibile”, diceva Pascale, ed è soltanto nella sua origine che egli può trovare le risposte sul proprio destino. È dunque in Dio nostro creatore che si trovano tali risposte, e Cristo non è venuto in terra per altra ragione che questa: insegnarci chi siamo, donde veniamo, che cosa il peccato ci ha fatto perdere, qual è la nostra dignità e dove andiamo. La sua risposta colma il cuore dell’uomo al di là delle nostre più ardite speranze: egli ci rivela che fummo creati gratuitamente “a Sua immagine” per amore, e che quindi siamo figli adottivi del suo Padre celeste – destinati in lui a un’eternità di gioia. «Il mistero dell’uomo non trova vera luce che nel mistero del Verbo incarnato» – riassume perfettamente il Concilio Vaticano II (Gaudium et spes 22). Rischiarata dalle parole di Cristo, la Chiesa può porre qualche passo – prudente ma sicuro – su quel che accade al momento della nostra morte fisica e dopo. 

Come cristiani, noi sappiamo che la nostra vita eterna è già cominciata e che la morte non è davanti a noi, ma che in un certo senso è “dietro di noi”. I primi cristiani si chiamavano “i viventi” (in greco “hoi zòntes”). La vita eterna ci è stata acquisita a partire dalla Passione e dalla Risurrezione di Cristo, a cui veniamo associati definitivamente per il nostro battesimo. Spetta a noi – mediante una vita di carità e di oblio di sé – anticipare già sulla terra, per quanto possibile, la realtà del cielo, in cui «resta solo l’amore».

Il cristiano è chiamato a credere che la morte non è un evento di là da venire, bensì un evento passato. Noi crediamo che la nostra vita sia una, unificata ed eterna, e che sia cominciata già quaggiù. Mediante il battesimo, seguendo le parole stesse di Cristo, noi entriamo nella vita eterna: il battesimo attualizza per ogni essere umano l’evento definitivo della morte e della risurrezione di Gesù per cui ci viene offerta la vita eterna.

La nostra vita eterna è dunque già cominciata, e la morte è dietro di noi. Certo, la nostra morte fisica (la separazione dell’anima dal corpo) deve ancora venire, ma a questo punto non è che un passaggio verso un “surplus di vita”, la vita in pienezza, in abbondanza, molto più reale di quella che viviamo adesso. 

Per i cristiani, la morte è l’ingresso nella vera vita in Dio e bisogna prepararvisi. Accrescere la nostra speranza e approfondire la nostra fede sono cose che consistono nel meditare sul momento della nostra morte per preparaci ad esso (del resto nella Tradizione della Chiesa è uno degli esercizi spirituali più classici).

Nella fede, noi sappiamo che la morte è il giorno dell’incontro con Dio, la prova decisiva da cui dipende il nostro avvenire, l’ingresso nella vera vita in Dio: i cristiani sanno di essere cittadini del cielo e che, esiliati quaggiù, camminano già fin d’ora verso la patria celeste, il Regno di Dio. Sapete che l’etimologia di “parrocchiano” significa “ramingo pellegrino verso casa”? 

L’elemento comune tra la nostra vita terrena e la vita nell’aldilà è l’amore: nulla resta se non quel che si dona. Ogni volta che non viviamo per noi stessi ma per l’altro, donandoci a lui con fiducia e amore, noi anticipiamo già la realtà del cielo. Lì non resterà che l’amore, il dono totale di noi stessi a Dio Padre, in Cristo, reso possibile dallo Spirito santo nei nostri cuori. Questo dono sarà vissuto in comunione d’amore con tutti i santi.

Fin da quaggiù, abbiamo un assaggio di quella gioia eterna ogni volta che amiamo in spirito e verità, che sia nell’amore coniugale (comprese le sue espressioni fisiche), in quello famigliare (parentale o filiale), o in quello mistico. 

L’esperienza mostra spesso che al momento della morte i fedeli vengono fortificati e colmati di grazia. Non per nulla ogni volta che preghiamo l’Ave Maria chiediamo alla Vergine che ella sia lì «nell’ora della nostra morte». Così la Vergine stessa, rivelandosi a san Giovanni di Dio, diceva: «Non è mio costume abbandonare in quell’ora i miei devoti».

L’età avanzata è spesso sinonimo di solitudine crescente, di isolamento: si perdono gli amici (lutti), ma anche le forze fisiche e la vita sociale. Anche la malattia può isolare enormemente. Infine, l’agonia che precede la morte è l’esperienza di una solitudine irriducibile: «Ci vado da solo». 

La Rivelazione cristiana ci dice che, al contrario, la morte ci immette sulla definitiva cessazione di ogni solitudine: una comunione perfetta con Colui che è Totalmente Altro e che ci ama. Questa comunione non è una fusione perché in questo faccia a faccia con Chi sta per colmarmi totalmente divento pienamente me stesso.

Niente a che vedere con una qualsivoglia reincarnazione, che rinnoverebbe la nostra solitudine esistenziale sotto altra forma: Dio, l’Altro per eccellenza, si dona a noi in piena luce. Questa comunione di amore assoluto segna la fine di ogni solitudine. E così «la mia solitudine non è confermata dalla morte, ma distrutta dalla morte» (E. Levinas, Il tempo e l’altro). 

Ho cercato di descrivere il meraviglioso paradosso della morte in un piccolo saggio (Ce qui nous attend après lamort, Éd. Parole et Silence): vi descrivo come la nostra fede cristiana, ma già la nostra esperienza quotidiana, può aiutarci a non solo a vincere ogni angoscia davanti alla morte, ma anche ad anticiparla per quello che è – pienezza di gioia al di là delle nostre speranze più ardite. 

L’esperienza mostra che al momento della morte i cristiani sono spesso colmati di grazia. Io credo fermamente che per il cristiano fedele il momento del trapasso sia vissuto come una benedizione. “Benedetto” significa “colmato di grazie”, di aiuto divino. La mia convinzione, tratta dalla mia esperienza nell’accompagnamento dei morenti, è che nell’ora della morte Dio, troppo impaziente d’amore, ne approfitta per colmare di grazie il cuore del figlio. Ho anche accompagnato delle persone a cui Dio aveva “mostrato” il Cielo nella loro agonia. Ho visto dei morenti esclamare “Quanto è bello!”, o quell’anziana signora negli USA che se ne stupiva come una bambina: «È tutto vero! Tutto quello che mi hanno insegnato a catechismo è vero!». Dopo tutto, queste grazie sono normali, no? 

Per tutta la nostra vita in ogni Ave Maria abbiamo ripetuto migliaia e migliaia di volte le parole “Adesso e nell’ora della nostra morte”. E allora, chi potrebbe pensare che la Vergine Maria resti passiva o indifferente in un tale momento, senza intercedere presso il Figlio? Sant’Alfonso Maria de’ Liguori riporta questo aneddoto nel suo best-seller Le Glorie di Maria

Spetta a noi però essere pronti. Quando Cristo dice che tornerà presto, anche se parla anzitutto della fine dei tempi, le sue parole possono riferirsi anche all’istante della nostra morte, per il quale bisogna prepararsi a incontrarlo. Anche se ci sono numerose eccezioni dovute alle circostanze, la nostra vita cristiana condiziona fortemente il vissuto personale dell’agonia. 

Ricordiamoci anzitutto che Dio ha esattamente lo stesso amore per ciascuno dei suoi figli, anche se alcuni se ne curano più di altri. Dio si dà a ciascuno, ma siamo stati abituati a vivere alla sua presenza? Perché la nostra fede non è altro che un’amicizia con Dio, e un’amicizia si costruisce passo dopo passo, per tutta la vita. L’agonia manifesta la misura della nostra comunione con Dio. Se durante la mia vita ho vissuto in tenera prossimità col mio Dio, sono più forte al momento di entrare in agonia perché la solitudine è già vinta. So già per esperienza che Dio non mi abbandonerà, che il mio nome sta scritto sul palmo della sua mano (cf. Is 49). Al contrario, se fino a quel momento non ho fortificato la relazione d’amore filiale con Dio durante la mia vita, posso essere assalito da naturalissime angosce, o perfino dalla disperazione. 

Notiamo en passant che fino a un recente passato il cristiano pregava di essere «preservato da una morte improvvisa» proprio per avere il tempo dell’agonia per preparasi all’incontro decisivo e definitivo col suo Creatore. 

Sul piano teologico, il momento della morte fisica corrisponde dunque per l’anima al suo giudizio particolare, in attesa della fine dei tempi. Durante il giudizio particolare, all’istante della morte, si determina il nostro destino eterno. Se Dio, nella sua infinita libertà e misericordia, può fare a chi Egli vuole la grazia di un’ultima decisione di conversione proprio prima della morte, nondimeno la morte mette fine alla vita dell’uomo come tempo aperto all’accoglienza o al rigetto della grazia divina manifestata in Cristo. Essa segna la separazione della nostra anima (il nostro principio immateriale) e del nostro corpo (quello materiale). 

La Commissione Teologica Internazionale (che dipende dalla Congregazione per la Dottrina della Fede) precisa allora il destino dell’anima separata: 

L’anima riceve dunque senza tardare la retribuzione eterna. Così recita il Catechismo: 

E così, «dotato di un’anima immortale, l’uomo può fin dal momento della sua morte incontrare il suo Creatore e Signore» (Catechismo CEF, 658). Già nel 1336, Benedetto XII (nella Benedictus Deus) insisteva sul fato che l’anima del santo non cadeva in un sonno (come avrebbe pensato Lutero) fino alla risurrezione del corpo alla fine dei tempi, ma vede Dio faccia a faccia, senza intermediazioni e senza ritardi. È del resto la promessa di Cristo al buon ladrone: «Oggi sarai con me in Paradiso» (Lc 23,43). 

Durante questo giudizio la coscienza, liberata da tutte le sue ignoranze e da tutte le sue dissimulazioni, rischiarata dall’illuminazione divina propria alla morte, riconosce il proprio stato personale in piena verità. Mettendo termine a quel che sarà stata la nostra vita e la totalità della nostra storia, coi suoi meriti e demeriti, la nostra morte ci ricapitola allora interamente ed esprime quel che sarà stata l’opzione fondamentale della nostra storia (per la salvezza o per la dannazione): questa opzione Dio la discerne con giustizia e misericordia.

San Giovanni Damasceno (ripreso da san Tommaso d’Aquino) spiega che «quanto la morte è per gli uomini è la caduta per gli angeli, perché dopo la caduta non può esserci conversione per loro, né per gli uomini dopo la morte». Ciò non vuol dire necessariamente che l’uomo raggiunge in un istante lo stadio definitivo del suo destino. La Chiesa, nel suo insegnamento sui “fini ultimi” distingue il giudizio individuale (o particolare) dall’ultimo giudizio (cf. infra). 

Notiamo infine che le esperienze di morte imminente (EMI o NDE) vissute da numerose persone su tutti i continenti da quando le tecniche di rianimazione le hanno rese meno infrequenti, corroborano perfettamente gli elementi enunciati dalla dottrina cristiana (uscita dal corpo, piena coscienza, luce e benessere infiniti, incontro personale con un essere d’amore). 

È importante precisare che la Salvezza e la dannazione non sono due vie che si presentano all’uomo in modo indifferente. Siamo stati creati per la vita, e per la vita in abbondanza (Gv 10,10), anche se resta la possibilità della perdizione. La vita eterna ci è già stata meritata da Cristo, unica via verso il Padre: egli ha preparato per ciascuno di noi un posto in cielo, un posto che ci attende. Spetta a noi accettare la sua Salvezza senza tardare. La possibilità dell’inferno esiste, tuttavia, ed è molto importante mantenerla perché è la condizione di una scelta effettivamente libera (cioè realmente effettiva).

La Chiesa prega perché nessuno vada all’inferno (ma gli angeli ribelli contro Dio ci sono già). Del resto, la Vergine Maria lanciò a Fatima un appello pressante a «pregare e fare sacrifici» per le anime che vanno all’inferno. La possibilità dell’inferno è qualcosa di estremamente reale. 

L’anima che ha scelto l’amore di Dio può tuttavia necessitare di una maggiore purificazione. Tale è il purgatorio, che appare come un processo interno e necessario di trasformazione dell’uomo, col quale quest’ultimo viene reso/si rende capace di Dio e della comunione dei santi. Il purgatorio non è una terza via, a metà fra la salvezza e la dannazione: è assolutamente dalla parte della salvezza, ma per l’anima che necessita ancora una purificazione finale per essere capace di Dio. Neppure è una sala d’attesa o 

Il purgatorio è lo stato che vive l’anima ancora imperfetta alla presenza di Dio: 

La dottrina del fuoco si fonda su numerosi versetti biblici, in particolare 1Cor 3,15: «Se la sua opera è consumata, egli ne subirà la perdita; quanto a lui, egli sarà salvato, ma come attraverso il fuoco». È dunque un processo interno e necessario di trasformazione dell’uomo, mediante il quale quest’ultimo diventa capace di Cristo, capace di Dio e a seguire capace di unirsi all’intera comunione dei santi. 

Nell’istante della morte, l’anima (separata dal corpo) compare senza orpelli nella luce piena di Cristo. Le nostre vite vengono allora riferite a Lui, «l’Adamo perfetto» (cf. 2Cor 5,10): è il giudizio particolare. Molti fra noi non saranno sufficientemente pronti a vivere alla sua presenza, perché questa presenza – benché amante – sarà dolorosa. È il fuoco della purificazione di cui parla san Paolo.

Il purgatorio non è dunque una camera d’attesa, una penitenza preliminare alla visione di Dio, ma è quella stessa visione, ancora dolorosa per via di una condizione ancora peccaminosa del salvato. In purgatorio, la visione di Dio è avvertita allo stesso tempo come una pena e come un beneficio, come una violenza fatta alla nostra impurità: tale violenza purifica la persona dalle sue impurità. 

Sono sempre di più i teologi che, fondandosi sulla Tradizione, pensano che sia la presenza stessa del Signore a purificare, e non l’attesa di quella presenza in un “luogo” separato dal cielo. Questa lunga citazione dell’enciclica Spe salvi di Benedetto XVI riassume perfettamente il concetto: 

Due immagini descrivono bene il purgatorio. Una prima immagine, presente nelle parabole del Vangelo, è quella del banchetto nuziale. Siamo invitati, abbiamo un posto ma il nostro vestito è ancora sporco, sozzo. La nostra gioia è dunque divisa: certo, siamo alla presenza dell’Amato, ma questa stessa presenza, con lo suo splendore e col banchetto che la corona, ci fa realizzare che ci saremmo dovuti preparare, lavarci e vestirci adeguatamente.

A immagine del Padre Misericordioso della parabola di Lc 15, Dio ci riveste delle vesti di salvezza e ci esorta a entrare per celebrare; ma non facciamo fatica a immaginarci la gioia mista a contrizione, forse anche a vergogna, che avrà vissuto il figliol prodigo mentre sedeva alla tavola del Padre. 

Una seconda immagine mi è più personalmente cara (Ce qui nous attend après la mort, p. 99): il purgatorio sarebbe come un bagliore doloroso, ma temporaneo. Se restiamo a lungo in totale oscurità e ad un tratto ci si fa giorno, col sole a picco, i nostri occhi patiscono vivamente per il tempo necessario ad adattarsi alla mutata condizione. Questo accecamento può durare anche a lungo, e il dolore può essere pungente, a seconda del grado di oscurità in cui vivevamo prima.

Il purgatorio è questo tempo di doloroso bagliore sul nostro essere all’uscita dalle tenebre del peccato, quando esso viene esposto alla piena luce di Cristo – «Luce da Luce» –, alla quale la nostra vita terrena non è bastata ad abituarci. La presenza di Cristo, che colma di gioia, è ancora in qualche modo dolorosa, non perché Dio la usi come strumento di castigo… piuttosto perché chi vi è esposto non è ancora pienamente preparato a quella luce. 

La questione del trascorrere del tempo in purgatorio è molto complicata: siamo degli esseri temporali e ci è difficile astrarre da ciò per pensarci fuori dal tempo, nell’“Eternità”. Quest’ultima non è certo una infinita successione di anni, di secoli e di millenni… una tale visione dell’eternità sarebbe angosciante. Essa è più da comprendere come un eterno presente, in cui ogni attesa (che quaggiù segna così fortemente il vissuto della nostra temporalità) non esiste più, perché siamo colmati nel più profondo del nostro essere dalla presenza di Dio.

Del resto anche quaggiù facciamo esperienza della soggettività del tempo: i momenti felici, pieni d’amore, passano in fretta perché vi stiamo dentro tutti presi nel presente, gustando ogni istante in sé e per sé. Al contrario i momenti difficili, di solitudine, di malattia, di noia, sembrano non voler mai trascorrere. Affermiamo dunque che c’è una correlazione immediata tra il tempo e l’amore. Il presente si feconda della presenza (amata). Quando la presenza è assoluta, lo è anche il presente: è l’eternità. 

Colmati dalla presenza di Dio, saremo in un presente in cui non avremo più niente da attendere, un presente che ingloba dunque tutto l’avvenire: un eterno presente. Il Nuovo Testamento chiama “kairòs” i momenti favorevoli in cui Dio visita il tempo degli uomini e lo riempie della sua presenza. Gregorio di Nissa ha queste parole magnifiche: «Andremo di inizio in inizio, fino agli inizi che non avranno fine». 

La Chiesa e la Creazione tutte intere attendono il ritorno definitivo di Cristo. Questo ritorno non sarà simile alla prima venuta (l’Incarnazione). Si tratta di un ritorno “nella gloria”, tale che ogni uomo – credente o no – lo riconsolerà. Questo ritorno segnerà la fine dei tempi (vale a dire la fine dell’Universo così come noi lo conosciamo), la manifestazione finale di Dio – «Dio sarà allora tutto in tutti» (1Cor 15,28) – e la sua vittoria definitiva sul peccato e sulla morte: «L’ultimo nemico a essere distrutto sarà la morte» (1Cor 15,26). Nessuno conosce il giorno e l’ora di questo ritorno (Mc 13,35); sappiamo semplicemente che sarà preceduto da numerosi segni sovente apocalittici. 

Per ciascuno di noi quello sarà allora il “Giudizio ultimo” (o universale). I nostri atti e le loro conseguenze dopo la nostra morte compaiono davanti a Dio. Ecco come Joseph Ratzinger spiega il rapporto tra il giudizio individuale di cui abbiamo parlato (quello che avviene al momento della morte) e il giudizio ultimo, o “universale”: 

È soltanto alla fine dei tempi che tutte le conseguenze delle nostre azioni (buone o cattive) avranno finito di portare frutto e potranno essere giudicate. Pensate ad esempio a santa Teresa di Gesù bambino: alla sua morte, a 24 anni, il 30 settembre 1897, non aveva fatto poi “granché”, se non essere una brava piccola carmelitana a Lisieux e scrivere un’autobiografia spirituale. È già qualcosa, si potrebbe dire, ma non è niente in confronto a quel che ha fatto a seguire, con quel libro e con la piccola via di santità che ha aperto e offerto alla Chiesa, la quale da quel momento ha toccato centinaia di milioni di vite cristiane. E non a caso santa Teresa è diventata dottore della Chiesa. È questo che si prenderà in conto per lei nel giudizio universale: «Il mio cielo – profetava – lo passerò a fare del bene sulla terra». 

Sarà pure il momento della risurrezione dei corpi, tanto difficile da comprendere. Come risuscitano i corpi? Di che materialità? 

E già allora il futuro Benedetto XVI chiedeva ai teologi di guardarsi da ogni speculazione azzardata sul tema. Il testo di riferimento più comune è qui 1Cor 15,43, dove san Paolo descrive i nostri corpi risorti come incorruttibili, gloriosi, immortali, animati da Spirito santo e soprattutto resi immagine del Nuovo Adamo, dunque immagine del Corpo glorioso di Cristo. 

Quest’ultimo, Cristo lo conforma poco a poco alla sua Chiesa (suo corpo mistico, la comunione di tutti i santi), nutrita del suo corpo eucaristico: 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]