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In Iraq l’autorità universale di papa Francesco

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Benoist de Sinety - pubblicato il 08/03/21
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In quanto è papa – cioè servo dei servi di Dio – le parole e i gesti di Francesco acquisiscono una rilevanza autenticamente planetaria.

Una chiamata telefonica del presidente iraniano al premier iracheno per discutere di cooperazione tra i due paesi: si parla di geopolitica, di questioni economiche e indubbiamente di tanti altri punti, considerando quanti sono i passi da fare sulla via della pace e dell’amicizia. 

Ma ecco che si aggiunge un argomento inatteso e di cui è poco probabile che i due dirigenti abbiano avuto spesso occasione di discutere insieme: «Mi congratulo per l’organizzazione della visita di papa Francesco», avrebbe detto il successore di Ciro a quello di Nabucodonosor. Per tre giorni le telecamere di tutto il mondo hanno seguito questo evento surreale, benché annunciato da tempo, che risponde a un sogno di Giovanni Paolo II ai tempi del Grande Giubileo del 2000: la prima visita di un Vescovo di Roma alla terra di Abramo e di Sara. 

Per la ripresa dei viaggi pontifici, Francesco ha scelto di restare a Baghdad e di dormirvi, affidandosi quindi alle cure dei suoi ospiti, laddove nessun Capo di Stato da lustri osava fare tanto. In questo Paese, in cui ancora fumano le rovine di una politica internazionale assurda, disonesta e vigliacca, Francesco lancia il suo appello alla fraternità. Appello che è il solo a poter lanciare, da quanto è intrinsecamente legato all’Evangelo del Figlio che ci rivela la paternità di Dio, estesa in Cristo a tutti gli uomini e a tutte le donne di ogni lingua, popolo e nazione. 

Non è venuto a giocare al capotribù, come alcuni l’avrebbero volentieri incoraggiato a fare, né a confortare i soli fratelli nel Battesimo. No, è venuto per lanciare un appello a quanti credono in Dio perché mettano in comune il loro desiderio di pace, di giustizia, di riconciliazione. E perché sulle rovine di questo Paese – dalla storia più antica di quella di molte nazioni oggi ricche – possa svilupparsi una logica diversa da quella, mondana, che ha portato al presente disastro. 

Come non sentire di nuovo l’eco di queste parole del profeta Michea? 

In quanto è papa – cioè servo dei servi di Dio – le parole e i gesti di Francesco acquisiscono una rilevanza autenticamente planetaria: dunque non soltanto per i cattolici praticanti, bensì per tutti. Tutti lo guardano, lo ascoltano, anche quanti fingono di beffarsene. Perché non c’è parola più universale di quella che egli serve, e non c’è Salvatore più universale di quello che egli annuncia. 

Spesso sono stato sconcertato da quanta poca fede le nostre paure – i nostri fossati, le nostre miopie – tradiscano, anche in alcuni fra quanti si presentano come credenti ben saldi in Cristo. Che c’è di terribile nel sedersi a parlare con chi non condivide la nostra fede? Che c’è di pericoloso nel riconoscere un fratello in uno che non è capace di darmi a sua volta questo riconoscimento? 

Sono i medesimi egoismi, le medesime paure che generano le solite follie. E sono – queste paure e questi egoismi – la causa della nostra sterilità spirituale. Finché si ignora o si nega questa dinamica, non si potrà mai ascoltare la Buona Notizia di Gesù Cristo, e crederle. Se noi che ne abbiamo ricevuto il deposito non siamo capaci di esserne profeti… E il profeta è uno che parla, naturalmente, ma pure uno che agisce. 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]