Quella che si compie ipotizzando una trasmigrazione delle anime da un corpo all’altro è una soluzione comoda e semplicistica che misconosce sia la grandezza dell’essere umano – il quale è per sempre corpo e anima, capace di impegnarsi per l’eternità – sia la bellezza del piano di Dio come la sua Rivelazione ce lo mostra.
La credenza nella reincarnazione è un’idea molto antica. Degli studi hanno mostrato che l’idea di reincarnazione si è imposta con forza in un’epoca molto precisa, individuabile nel V secolo prima della nostra era. Si è diffusa rapidamente e ha toccato diversi mondi culturali: è a partire da quel momento che se ne parla nella Grecia antica (Platone, che la riporta con simpatia, la collega a un mito di origine armena), ma anche nell’induismo e nel buddismo, e pure l’antico Egitto all’epoca non era molto distante dalla prospettiva.
L’idea non si è diffusa nel mondo cinese – né nel taoismo né nel confucianesimo – ma ha lambito pure il giudaismo antico (probabilmente negli esseni), e ancora oggi alcuni ebrei la ammettono… L’Antico Testamento infatti non è molto esplicito sulla vita dopo la morte, soprattutto se non si prendono in conto i libri che l’ortodossia giudaica ha scartato – come ad esempio il secondo libro dei Maccabei, nel quale è molto enfatizzata la dottrina della risurrezione della carne.
Pitagora per primo ha parlato di “metempsicosi”, parola greca per dire la “trasmigrazione delle anime”. Nella sua scia, Platone ha sviluppato una concezione dualistica dell’uomo: il corpo è un elemento aggiunto che grava sull’anima. Egli parla dell’anima nel corpo come di un cocchiere sul suo cocchio: il guidatore guida il mezzo dove vuole, ma non deve essere guidato da esso, perché gli resta esterno ed estraneo, e anzi può perfino farne a meno.
Questa riflessione conduce a immaginare la scomparsa del corpo come la liberazione di una prigione. Aristotele, nell’Etica a Nicomaco, ha successivamente riequilibrato le cose, ma l’ha fatto a partire da un’altra astrazione, che è la distinzione tra forma e materia. Strumento utile per dire il sinolo (l’unità) di anima e corpo, meno per parlare dello stato dell’anima separata dopo la morte.
L’anima, principio di animazione del corpo
Aristotele ha definito l’anima come il principio di animazione del corpo, e di conseguenza ogni anima è legata a un corpo particolare. In tal senso, la scienza moderna ha permesso di illustrare questa visione dell’anima, come principio di animazione che resta al di là della materia, perché oggi si sa che nel corpo di un adolescente non sussiste neanche un atomo del corpo del neonato che l’ha preceduto. In circa dieci anni, ogni parte e ogni cellula del corpo viene rinnovata – perfino quelle delle ossa! La materia passa, ma c’è qualcosa di noi che permane continuamente, e quella cosa siamo noi, noi personalmente, una persona particolare, in modo continuo. Questo principio di organizzazione del corpo e di animazione del nostro essere comporta anche una dimensione spirituale, perché abbiamo coscienza di essere la medesima persona, col medesimo pensiero, il medesimo spirito, il quale dunque non dipende dalla materia, e che permane per tutto il corso della nostra vita… però legato solo e soltanto a questa esistenza corporea. Già in tal senso – filosofico e scientifico – la reincarnazione non è possibile, perché l’anima è fondamentalmente legata al corpo.
Aristotele distingueva tra sostanza (anche l’anima umana ne ha una) e accidenti (ciò che affetta soprattutto i corpi materiali), ma l’oggetto è sempre il medesimo: una e medesima è la “sostanza”, mentre solo gli accidenti sono cambiati. Si può dire lo stesso anche per il corpo: quel che conta non è la materialità delle cellule, perché il corpo è un flusso di cellule e di particelle. Alla risurrezione non avremo certo le molecole di carne di cui saremo fatti il giorno della nostra morte: quelle molecole saranno tutte o quasi tutte scomparse, ma il corpo glorioso avrà un rapporto col nostro corpo, nel senso che partirà dalla medesima struttura, dalla medesima organizzazione:
Quel che viene seminato perituro resuscita imperituro; quel che viene seminato senza onore resuscita nella gloria; quel che viene seminato debole risuscita potente; quel che viene seminato corpo fisico risuscita corpo spirituale; perché se esiste un corpo fisico ne esiste anche uno spirituale.
1Cor 15,42-44
Nell’antropologia giudaica
L’antropologia giudaica, da parte sua, distingue abitualmente tre livelli d’anima: il nephesh, la parte bassa e corporea; la ruah, l’alito di vita, e il neshama, la parte spirituale. Queste tre parti sono una più vicina dell’altra a Dio. L’idea è che siano come delle scorze, diciamo come in un carciofo: dietro le foglie, via via più tenere, c’è un cuore. Del cuore effettivamente si parla anche tanto nella Bibbia, che con quella parola designa abitualmente la parte più intima dell’uomo.
Diversi passaggi possono essere ricordati:
Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze.
Dt 6,5 (ripreso da Gesù in Lc 10,26)
O San Paolo:
Lo stesso Dio della pace vi santifichi tutti; e tutto quello che è vostro – spirito, anima e corpo – si conservi irreprensibile per la venuta del Signore Nostro Gesù Cristo.
1Th 5,23
O la Lettera agli Ebrei:
La parola di Dio è viva, attiva e più tagliente di una spada a doppio taglio: essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla; essa giudica le intenzioni e i pensieri del cuore.
Heb 4,12
Due poli
Tutti convengono che sullo sfondo ci sono due poli: il corpo materiale e un’anima che lo vivifica, la quale è di natura spirituale e costituisce l’identità ultima dell’uomo. Quel che san Paolo chiama “spirito” non è il “pneuma” degli gnostici, bensì la persona spirituale, il soggetto della nostra avventura – mentre “l’anima” dev’essere piuttosto presa nel senso di quello che noi chiameremmo “la psiche”, ossia il complesso delle facoltà intermedie, se vogliamo, quelle che possono anche essere studiate dalla psicologia e dalle altre scienze umane, e che tuttavia restano legate al nostro essere più profondo, e dunque che lo traducono in scelte, in eventi…
Tutto dipende dal modo in cui si chiamano le cose. Se si vuole far convergere in quel che chiamiamo “spirito” l’ultima personalità dell’uomo, quella che attraversa le fasi successive – e perché no? – si sarà obbligati a dire che l’anima è più o meno legata al corpo, e che anche essa attenderà la risurrezione per riemergere. Il tutto va inteso secondo il senso che viene dato alle parole, ma ad ogni modo bisogna tener fermo che ci sono due poli: c’è l’identità ultima dell’uomo, che non scompare dal momento in cui siamo stati creati – mai Dio torna sui suoi passi, neanche per i dannati –; e c’è poi questo corpo che è stato creato contestualmente e che è il mezzo e l’espressione del suo inserimento nel mondo, nonché del suo contatto con gli altri.
Molta confusione
Ai nostri giorni molti non distinguono bene la differenza tra risurrezione, reincarnazione, sopravvivenza dell’anima e tutte le questioni connesse… È un po’ tutto uguale, per chi non vuole fare la fatica di andare più a fondo. Alcuni si dicono poi che è bello credere a una vita dopo la morte mentre quasi tutti non ci credono:
Già va bene così, non siamo troppo esigenti e comunque di tutto il resto non è che si sappia poi molto. E allora che sia reincarnazione o altro, dal momento che comunque si afferma una vita dopo la morte basta così, no? Davvero bisogna addentrarsi nei dettagli? La reincarnazione non sarebbe un’ipotesi credibile quanto la risurrezione, per esempio? In fondo la cosa fondamentale è affermare la vita dopo la morte.
Bisogna fare la guerra sulle sfumature? Ma non sono sfumature! Certo che bisogna, visto che si tratta di quanto si riferisce alla nostra eternità e al modo di prepararvisi. Visto che la New Age e altre mode orientali hanno già rimesso l’argomento all’ordine del giorno, tanto vale parlarne.
Quando la gente parla di reincarnazione cerca talvolta di fondarsi su alcuni testi biblici. Tale credenza è però in flagrante contraddizione con la Scrittura e con la Tradizione della Chiesa. Ad esempio, Elia che viene rapito (2Re 2,1-12) e che deve tornare (secondo Mal 3,23 ripreso da Mt 11,14;17,11) o lo Spirito di Elia mandato su Eliseo (2Re 1,15) o Enoc, anch’egli rapito da Dio (Gen 5,24; Heb 11,5) e che certamente tornerà. O ancora nei Vangeli il modo che alcuni hanno di comprendere l’interrogarsi attorno a Gesù:
È uno degli antichi profeti di un tempo tornato…
Mc 6,14-16
O ancora l’episodio dei morti che escono dai sepolcri, nella Passione secondo Matteo… In quest’ultimo caso si tratta di un segno escatologico, cioè che all’atto della morte di Gesù il giudizio si sta compiendo, si anticipano le ultime ore della storia al punto che se ne offre qualche anticipazione. È una sorta di assaggio di quel che sarà la risurrezione generale, niente a che vedere con la reincarnazione. A partire da tutto ciò, alcuni arrivano a pensare che ci fosse una credenza molto diffusa nella reincarnazione, e che soltanto la dogmatica cristiana, a posteriori, vi si sarebbe opposta. Penso che a questo sia il caso di rispondere più chiaramente possibile: non è assolutamente questo il caso, e per molte ragioni che cercheremo di introdurre.
La reincarnazione non è la risurrezione
Gli antichi ebrei avevano in realtà una visione completamente opposta: la vita terrena, sulla terra, con un corpo e un’anima, era anzitutto la sola cosa che si poteva veramente affermare. Nell’Antico Testamento la vita terrena ha grande rilevanza e tutto il resto è meno considerato. Come dice il Salmo: «Non i morti lodano il Signore» (Ps 113,17), vale a dire che la vita dopo la morte è vista in un primo tempo come un pallido oltretomba privo d’interesse.
L’idea essenziale era di riuscire la propria vita quaggiù. I Giudei avevano questa visione delle cose probabilmente perché si opponevano alla visione che sia gli Egizi sia altri popoli avevano dell’aldilà: ossia una visione idealizzata del mondo di quaggiù. Ciò sembrava agli ebrei uno sminuire il potere di Dio, come se egli si accontentasse di finanziare agli uomini il loro sogno di prolungarsi oltre la morte. L’idea biblica è che noi non sappiamo niente di molto chiaro su quanto c’è dopo la morte, e che dobbiamo rimetterci completamente a Dio. Tale è la prima prospettiva, che si trova nei testi più antichi – come ad esempio il salmo citato.
Tuttavia, a partire da un certo momento, sembra che si sia cominciato a sollevare il velo: si parla di “risurrezione”.
I tuoi morti rivivranno, i tuoi cadaveri risusciteranno.
Is 26,19 (ma si trova pure in Daniele)
C’è poi la fantastica visione delle ossa inaridite che tornano a vivere in Ezechiele (Ez 37,9), e poi, molto tempo dopo, arrivano i testi del secondo libro dei Maccabei, in cui si afferma molto chiaramente la credenza nella risurrezione della carne.
L’Antico Testamento si chiude dunque sull’idea che un giorno Dio rimetterà in piedi l’essere umano – col suo corpo e col suo spirito – destinandogli un’eternità di felicità. Gesù s’iscrive ovviamente in questa visione delle cose, quando parla di risurrezione, che per lui non è un ideale ma una palpitante realtà (Lc 20,38). Egli fonda questa affermazione sul passaggio dell’Esodo in cui Dio si presenta come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, dei quali egli afferma che per Dio essi esistono ancora e sempre. Egli dice pure, ad esempio, che dopo la risurrezione non ci sarà più matrimonio umano, nel senso della convivenza aperta alla riproduzione e alla conservazione della specie: si sarà come gli angeli del cielo e si conoscerà in Dio la felicità che ci era stata promessa (Mt 22,30). Anche l’Apocalisse di Giovanni va in questo senso.
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Ogni persona è unica
Per gli uomini è stabilito che muoiano una volta sola, e dopo viene il giudizio.
Heb 9,27
È questa tradizione costante che la Chiesa ha raccolto affermando dunque che l’essere umano non esiste che dal suo concepimento, e che conosce la morte una volta soltanto: seguono poi dapprima un giudizio particolare, che si opera sull’opzione fondamentale tra la volontà di Dio o (al contrario) il rigetto di Dio (e c’è la possibilità, se la vita non è sempre stata conforme all’asse positivo comunque dato, di una purificazione – ciò che si chiama “Purgatorio”); verrà poi il giudizio finale, con la risurrezione dei corpi – «Credo la risurrezione dei morti», diciamo quando professiamo il Simbolo Niceno-Costantinopolitano. È Cristo Salvatore che ci libera, e non una serie di reincarnazioni volte a raggiungere con le nostre forze un’illusoria perfezione.
La Rivelazione insiste sull’idea che ogni persona umana è unica agli occhi di Dio:
Si dimenticherà una donna del proprio figlio, così da non avere più tenerezza per il frutto delle sue viscere? Anche se questa se ne dimenticasse, io non ti scorderò mai.
Is 49,15
Dio ci ama così, personalmente, e non esiste reincarnazione in altri “sé”, in altre persone. È impossibile, illogico, contrario alla fede… e non c’è neppure alcun elemento razionale che suggerisca di crederlo.
L’anima e il corpo sono intrinsecamente legati
L’idea di reincarnazione si oppone frontalmente alla visione dell’anima e del corpo che ci presenta il cristianesimo. Nella prospettiva biblica e in ogni logica filosofica tradizionale, l’anima e il corpo sono intrinsecamente legati, ed è questo insieme a costituire l’essere umano. È dunque proprio questa visione dell’uomo ad essere in gioco, cioè il concetto di questo specifico rapporto tra anima e corpo. Che cos’è che siamo? Un ammasso di carne e spirito? Il corpo è una cosa che si prende e poi si lascia? Sarebbe una forma di platonismo nella quale la corporeità non sarebbe presa sul serio – né tantomeno la nozione di giudizio.
Il composto umano così come Dio lo crea non è un’anima da una parte e un corpo dall’altra: da un punto di vista filosofico, come si è visto, l’anima è profondamente legata al corpo, ma sul piano biblico si possono fondare le cose ancora più solidamente, perché chiaramente il composto umano come Dio lo crea non è un’anima da una parte e un corpo dall’altra. È per questo che la Chiesa afferma che non esiste preesistenza delle anime, malgrado quel che affermava Origene (scrittore ecclesiastico tra i sommi, del resto). La Chiesa rifiuta chiaramente questa dottrina, connessa a quella della reincarnazione, soprattutto nel Concilio Costantinopolitano II, del VI secolo: non esistiamo prima di nascere, non eravamo niente prima di essere concepiti e la nostra natura è quella di un essere composto di anima e corpo. Non siamo angeli per difetto, non siamo “secondi angeli” – secondo l’espressione dei padri conciliari.
La cerniera tra materia e spirito
Quel che invece è proprio all’uomo è di essere la cerniera tra mondo materiale e mondo spirituale. Quel che fa la nostra umanità è ritrovarci alla cerniera, in qualche modo, dei due ordini di creature volute da Dio: la creazione materiale – con tutto il suo splendore, il cosmo con la prodigiosa varietà degli esseri che lo popolano – e dall’altra parte la vita dell’anima, della ragione, del pensiero de dell’amore, che appartiene pure (ma in altra forma) agli angeli, i quali da parte loro sono esseri personali immateriali.
Noi siamo in una situazione che ci permette di far cantare la creazione inanimata (la quale da parte sua sarebbe afona), e far cantare la lode del Creatore dà un senso a questa creazione.
Dio non trova tanta gioia nella regolarità delle orbite celesti quanta ne gode nell’amare questa libertà creata, chiamata a entrare in risonanza con la sua libertà eterna, ed esserne a sua volta riamato. Egli vuole che attraverso le vicissitudini della nostra vita noi perveniamo liberamente a interagire con lui e a dare una coscienza a tutta la creazione.
Ora, tutto ciò non è possibile che in quanto siamo immersi in questa creazione per la nostra corporeità. Dunque la morte, che ovviamente dal peccato di Adamo in qua esiste, è una sorta di rottura della cosa preziosa che Dio aveva voluto. Certamente c’è qualcosa di noi che potrà sopravvivere alla morte del corpo – non andiamo verso un’estinzione totale –: l’anima. Ma lasciamo parlare la Bibbia: “l’uomo interiore”, il “cuore”, e “l’anima”, come dice Gesù quando dichiara:
Non temete quelli che possono uccidere il corpo ma non possono uccidere l’anima.
Mt 10,28
Ciò vuol dire che c’è qualcosa di noi che resta, come il filo che raccoglie le perle del collier: è l’anima che raccoglie così le differenti fasi della nostra esistenza – sulla terra, dopo la morte e per la vita da risorti.
Il nostro soggetto spirituale è portato da qualcosa che non sarà sottomesso alla morte, ma che la morte comunque affetterà profondamente, come una chiocciola senza guscio. Quando Dio pensa all’uomo, Egli pensa a tutto l’essere umano – corpo e anima. Per esempio, un sorriso – quanto è dell’anima? quanto del corpo? – è entrambe le cose insieme, e tutto quanto di intenso e pieno si fa nella nostra vita avviene attraverso l’anima e attraverso il corpo, che ne fa come da cassa di risonanza. È di questa creatura che Dio è innamorato.
La nozione di giudizio
Questa credenza si oppone anche alla nozione di giudizio di Dio, la quale pure è essenziale, e che riceviamo dalla Tradizione biblica, perché un giudizio a ripetizione non è più un giudizio. Spesso sentiamo dire: «Com’è possibile che alla fine di una vita, per giunta breve e priva d’interesse, siamo giudicati per l’eternità?». O ancora: «Quanto si vive in terra? Dieci? Venti, trenta, cinquant’anni…? E che cos’è questo davanti all’eternità? Ci giocheremmo così tanto con così poco? Non è verosimile! Dio non può giudicarci così, non può giudicare dei neonati: che hanno fatto di male?». E via dicendo.
La credenza nella reincarnazione sembra più rassicurante: «D’accordo, i nostri atti hanno conseguenze: se saremo stati crudeli rivivremo in una forma animale e patiremo; ci sarà un castigo immanente, ma non ci sarà un giudizio definitivo e potremo, di vita in vita, purificarci fino a ritrovare la Pienezza (il “Nirvana”), eccetera». Il rifiuto della nozione di giudizio assoluto a partire da una sola vita fa pure parte delle argomentazioni dei sostenitori della reincarnazione.
Perché l’uomo è libero
A fronte di tutto questo, bisogna anzitutto tornare alla nozione biblica di “giudizio”, che non è un giudizio arbitrario. Non c’è un Dio capriccioso che dica senza ragione “Questo va bene all’inferno”, “Quest’altro me lo porto in paradiso”. Al contrario, il giudizio è il mettere in piena luce l’orientamento profondo di una libertà e le singole scelte che è stata condotta a fare. È nell’ultimo confronto tra l’uomo e Dio che si giocherà l’eredità dell’uomo, il quale è chiamato a dare una risposta definitiva a Dio. Se non fossimo mai capaci di dare una vera risposta a Dio, ciò vorrebbe dire che tutto può sempre essere rimesso in discussione, e che non conosceremo mai una felicità stabile. Se le scelte che facciamo in un momento potessero sempre essere revocate, ciò sarebbe triste perché vorrebbe dire che non conosceremo mai una felicità stabile.
Al contrario, se crediamo che Dio ci ha creati per amore perché vuole per noi una gioia eterna, ciò vuol dire che in un dato momento – non proprio adesso, non in questo istante ma il giorno della risurrezione – Dio avrà ottenuto da noi una risposta definitiva e ci darà una gioia anch’essa definitiva: condividere per sempre la sua vita.
Il giudizio non è altro che la capacità dell’uomo di una vera risposta all’amore di Dio. L’essere soggetti a un giudizio ultimo dice la nostra grandezza di esseri umani, ed è questo il giudizio che si farà nella giustizia, nella verità e nell’amore. Nelle testimonianze di premorte si trova pure una fumosa conferma di quanto la dottrina cristiana insegna: è stupefacente constatare che in tutti i continenti e in tutte le culture tutti quanti si sono rianimati dopo uno stato assai prossimo alla morte parlano di un’esperienza suggestivamente simile all’insegnamento cattolico, con l’idea di un giudizio nell’amore e nella luce, in mezzo alla comunione dei santi e vicino alle anime delle persone amate.
Capace di dare una risposta definitiva
Come comprendere e aiutare a progredire quanti preferiscono tenersi una visione delle cose apparentemente più rassicurante, più naturale, più normale, meno stressante dell’idea di un giudizio definitivo? Bisogna insistere sul fatto che la grandezza dell’uomo sta nel poter dare a Dio una risposta definitiva e che senza questo non sarebbe possibile conseguire una felicità perfetta e duratura. Certo, è già bello cercare di superare la scala della vita presente, alzare lo sguardo al di là e avere finalmente coscienza che la nostra esistenza fa parte di un destino globale, e non è un semplice epifenomeno destinato a scomparire. D’altro canto, però, la soluzione proposta dalla reincarnazione – che sembra semplice e facile – ci mantiene in uno stato di minorità infantile e ci impedisce di affrontare la realtà. È l’idea che in fondo si può sempre cestinare la brutta copia, mentre al contrario un adulto sa che nel mondo vero esistono scelte irreversibili, e che anzi ci si struttura affrontandole.
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Un disegno di Dio
La risurrezione della carne, invece, come ce la presenta il Nuovo Testamento, non è affatto l’idea che l’uomo per natura si fa dell’aldilà. Essa non risulta dalla proiezione del nostro desiderio, perché non avremmo né desiderato né immaginato questo: essa non procede dal sogno di un’eternità che compensi le tristezze di questa vita, bensì corrisponde veramente a quel che Dio ci ha rivelato del suo disegno su di noi.
Se non l’avessimo ricevuto, non ci sarebbe neanche venuto in mente – non a caso questa idea si trova unicamente nel cristianesimo.
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[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]