Lei, proprio lei che aveva subito le più atroci torture e le più totali umiliazioni, era figlia del padrone dell’Universo? Questa notizia per Bakhita diventa la cosa più importante di tutte, capisce che è la cosa più preziosa della vita e non la vuole più perdere. Un estratto dal libro “Niente di ciò che soffri andrà perduto” di Costanza Miriano.Bakhita, che poi non si chiamava così, era una bambina nera che viveva in un villaggio africano e che a sei anni venne rapita dai mercanti di schiavi, e portata al mercato. Strappata dalle braccia della mamma e separata dai fratelli e dalle sorelle (aveva anche una gemellina), incatenata e frustata a sangue, è talmente impaurita che dimentica tutto, persino il suo nome e quello della sua mamma.
Assiste a crudeltà inenarrabili, come alla scena di una madre che non riesce a far tacere il suo bambino attaccato al seno svuotato di latte dalla marcia estenuante, e che si vede strappare dalle braccia il piccolo.
Il mercante di schiavi lo prende per i piedi, lo fa roteare in aria e lo lancia contro una roccia, dove la sua testa si sfracella.
La madre, pur stremata, in quel momento diventa una iena e si lancia contro il mercante, che la ammazza a calci, pugni e frustate.
Bakhita, “felice”, un nome assegnato per scherno
Bakhita – che vuol dire “felice”, e che è un nome assegnatole per scherno da un guardiano – ha molte di queste immagini scolpite negli occhi.
Lei stessa subisce percosse di ogni tipo, passando di mano in mano per vari padroni.
La sua pelle viene anche incisa per fare dei disegni decorativi sul corpo che era sempre nudo, come toccava a tutte le schiave, solo per un capriccio della padrona.
Dopo l’incisione, dentro la ferita fatta col rasoio, viene messo e stropicciato del sale, affinché si formino delle cicatrici più grosse e indelebili, poi le schiave vengono buttate sulle stuoie in preda alla febbre per l’infezione, al delirio, sanguinanti.
Molte muoiono. Bakhita si riprende, dopo due mesi, così “decorata”, e si rimette in piedi a servire, subendo molto altro nella casa di un generale turco dove è finita a servizio.
Infine viene comprata dal console italiano: è finalmente in una vera famiglia, le danno per la prima volta in vita sua, a diciotto anni, una tunica per coprirsi (fino ad allora aveva vissuto nuda).
Riceve per la prima volta gesti umani, non viene più picchiata. Non è certo trattata da donna libera, ma almeno da persona, conosce per la prima volta una sorta di dignità.
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Così, quando il console rientra nel suo paese, chiede di partire con lui e la moglie e, arrivata in Italia, viene “regalata” a una famiglia di amici.
I nuovi padroni hanno una bambina piccola, la quale si affeziona moltissimo a Bakhita, che dorme con lei nella stessa cameretta, e le fa da mamma.
Dopo tre anni la famiglia decide di trasferirsi in Africa, ma prima sono necessari dei preparativi, e diversi sopralluoghi: per molti mesi Bakhita e la bambina vengono lasciate da alcune suore a Venezia.
La prima volta che sente parlare di Dio
E qui succede il miracolo: per la prima volta sente parlare di Dio, e quando le dicono che attraverso il battesimo anche lei può diventare figlia di Dio, «anche mi, povera negra!», impazzisce di gioia.
Lei, proprio lei che aveva subito le più atroci torture e le più totali umiliazioni, era figlia del padrone dell’Universo?
Se quello era suo padre, lei era dunque una principessa?
Questa notizia per Bakhita diventa la cosa più importante di tutte, capisce che è la cosa più preziosa della vita e non la vuole più perdere.
Quando i suoi padroni tornano in Italia dall’Africa, dove avevano aperto un albergo, per portarci lei e la bambina e assegnarle il ruolo di barista, lei, che pure in qualche modo sarebbe stata “promossa” e avrebbe finalmente avuto un lavoro retribuito, dignitoso, non vuole lasciare le suore che per prime le hanno parlato di suo Padre, il Re dei re, e di sua madre, la Madonna, versione celeste e potenziata di quella mamma per cui aveva tanta nostalgia, pur non ricordando nulla di lei.
Lo stupore e l’umiltà di Bakhita
Il resto della sua vita – ottiene di rimanere in Italia, dove la schiavitù non esiste, e trova il coraggio di chiedere di essere ammessa tra le suore – trascorrerà nello stupore e nella riconoscenza, rinnovata ogni giorno per cinquant’anni, di essere considerata degna non solo di essere trattata come un essere umano, ma addirittura dell’amore di Dio, morto per lei.
Come le invidio questo stupore, io che mi addormento alle messe (ho sviluppato una tecnica mimetica ma, se mi vedete con la testa fra le mani, voi ormai lo sapete, non sto riflettendo), e come le invidio l’umiltà con cui diceva dei suoi aguzzini che «non erano cattivi, solo che non conoscevano Dio», io che mentre prego in macchina e mi sento al massimo dell’ascesi, se solo uno non fa lo stop, desidero profondamente inchiodargli davanti e scendere a picchiarlo con il cric.
Bakhita è finalmente felice e piena di gratitudine, anche se per lei continuano le umiliazioni: era raro ai primi del Novecento vedere in Italia una donna di colore. I suoi piccoli allievi dell’asilo la schifavano, all’inizio, e se lei li toccava correvano a lavarsi. Una volta una donna in treno le chiese se i palmi delle mani le si fossero schiariti a forza di lavarle, e lei rispose che sì, e che comunque le si sarebbero schiariti anche i dorsi, col tempo. Era una donna veramente libera, libera da tutti i condizionamenti e dagli sguardi degli altri, perché le interessava uno sguardo solo.
Dimenticavo di dire che con il battesimo ha preso il nome di Giuseppina, ed è diventata santa Giuseppina Bakhita.
Siamo tutti schiavi prima che la relazione con Dio diventi la più importante
Apparentemente questa storia non c’entra molto con quella di una donna cresciuta in una famiglia bene, eppure anche Elena come Bakhita era schiava ed è stata liberata.
In realtà siamo tutti schiavi, prima che la nostra relazione con Dio diventi la più importante di tutte.
Innanzitutto siamo schiavi del peccato che è in noi, e salvarci da quello è un’impresa così seria che Gesù è morto per questo.
Sennò sarebbe venuto con un libro di consigli, delle brochure di self help. Invece non ha scritto nulla ed è morto in croce per salvarci dalla morte e dal peccato, cioè dal rischio che sbagliamo mira nella nostra vita.
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Era schiava, Elena, non solo del peccato come tutti, ma anche della sua efficienza e dell’imperativo di essere brava per meritarsi le cose, della sua nascita alto-borghese, del suo desiderio di farcela sempre da sola e di risolvere i problemi a tutti.
Elena come Bakhita era schiava ed è stata liberata
Era schiava della ricchezza con cui era nata, che non è una cosa brutta, ma comporta un rischio: che tu finisca per pensare di essere autosufficiente, di non essere una creatura piccola, impotente, bisognosa (basta un virus…). A forza di farcela da sola, e di spendersi senza sosta per i suoi genitori, anche nel matrimonio si era trovata a vivere sostanzialmente separata dal marito, benché apparentemente insieme.
Luca si sentiva sempre meno necessario, sempre meno in relazione con lei, la miss punti perfetti presa dai suoi genitori, dal lavoro, dai figli, dalle cose da fare.
Il tempo per loro due non c’era più.
Ovviamente, come accade ogni volta che si creano queste fenditure, ci si insinua dentro il nemico, e così guarda caso si erano presentati, quasi contemporaneamente, una donna che finalmente faceva sentire Luca indispensabile a qualcuno, e un uomo capace di far divertire Elena, di farla distrarre e prendere una vacanza da tutti i suoi grovigli (Luca ha il senso dell’umorismo di un cacciavite a stella)…
Estratto dal libro Niente di ciò che soffri andrà perduto.