Antonio Gallea, già mandante dell’omicidio del giudice beato, in regime di semilibertà stava ricostruendo la mafia agrigentina. Don Raffaele Grimaldi, suo direttore spirituale: gli avevo dato fiducia, veniva a messa e aiutava i poveri
La riabilitazione in carcere era servita a poco. Arrestato nuovamente per mafia Antonio Gallea, uno dei mandanti dell’omicidio del giudice Rosario Livatino.
Dopo aver scontato 25 anni per l’assassinio del giovane magistrato, trucidato il 21 settembre del 1990 e da poco proclamato Beato da Papa Francesco, il boss, già condannato all’ergastolo, era stato ammesso alla semiliberta’ dal tribunale di sorveglianza di Napoli il 21 gennaio del 2015. Gallea aveva mostrato la volontà di collaborare con la giustizia (Grande Angolo Agrigento.iit, 2 febbraio).
“Prego per lui”
In realtà è stato un bluff. «È una grande delusione, gli avevo dato tutta la mia fiducia. Ma prego per lui», dice ad Avvenire (6 febbraio) don Raffaele Grimaldi, il sacerdote che aveva accolto Gallea, accusato di essere tornato a guidare la “stidda” agrigentina malgrado l’ergastolo.
“Dai permessi alla semilibertà”
Don Raffaele, per 23 anni cappellano nel carcere di Secondigliano, lo conosce da 11 anni. «Abbiamo iniziato un percorso in carcere, poi diedi la mia disponibilità all’accoglienza nel Centro Regina Pacis della Caritas a Giugliano. Cominciò ad avere permessi di uno o due giorni. Poi 5 anni fa ha ottenuto la semilibertà. Stava nel nostro centro e, le assicuro, era un volontario modello».
Il duro decreto della Dda di Palermo
Nel decreto di fermo della Dda di Palermo si legge, citando proprio «l’attività di volontariato» con la Caritas, che «la lunga carcerazione per l’omicidio del giudice Rosario Livatino non ha avuto alcun effetto di resipiscenza nel Gallea che, anzi, ha sfruttato la normativa premiale, prevista anche per i detenuti ergastolani, al fine di reinserirsi nel contesto criminale di appartenenza e tentare di ri-affermarsi, sotto il profilo mafioso/stiddaro, con i metodi che caratterizzano le associazioni mafiose».
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Il cammino spirituale
Don Raffaele gli aveva affidato l’orto dietro al centro che ha accolto molti detenuti in permesso, «frutto dell’attività pastorale a Secondigliano. Si occupava di distribuire i pasti alla mensa dei poveri, anche durante il lockdown. Mi fidavo di lui. Apriva e chiudeva il centro».
Il mandante dell’omicidio Livatino «veniva a Messa e agli incontri di preghiera. Si confrontava con me e io come padre spirituale ho fatto di tutto per lui. Sono sacerdote, devo dare la forza per riprendere il cammino».
Cosa pensava l’assassino del giudice Livatino
Il sacerdote rivela cosa gli aveva detto Gallea sull’omicidio di Livatino. «Ne abbiamo parlato tante volte. Ma faceva parte del suo passato, ammetteva l’errore. Diceva sempre “Don Raffae’, peccato che avevo solo vent’anni”. Mi spiegò che lo avevano ucciso perché era integerrimo, non si faceva corrompere, anche grazie alla sua fede. E per questo è stato molto contento per la beatificazione, anche perché aveva testimoniato al processo canonico».
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