La Banda del cocomero, un gruppo di volontari e ragazzi disabili della parrocchia San Giovanni Leonardi di Roma, ha realizzato un murales raffigurante la Natività per Damiano – un amico morto lo scorso anno – proprio sotto casa sua.Domenica 20 dicembre, ho avuto il piacere di essere presente alla benedizione di un bellissimo e significativo murales raffigurante la Natività realizzato dalla Banda del cocomero.
La Banda del cocomero è un gruppo di amici formato da volontari e ragazzi disabili della parrocchia San Giovanni Leonardi del quartiere romano Torre Maura che proprio quest’anno festeggia il 25esimo dalla fondazione.
Un presepe dedicato a Damiano, un ragazzo del loro gruppo morto lo scorso anno (il 10 novembre 2019) e disegnato proprio sulla parete attigua a casa sua.
Presenti al momento della benedizione, presieduta dal parroco padre Cesar, Rita, la mamma di Damiano, Pierina che ha fondato la banda 25 anni fa insieme a Sergio, attualmente in missione in Angola, alcuni degli animatori – Manuela, Rita, Antonietta, Alessia e Nello – e dei “ragazzi”, così li continuano a chiamare anche se quelli storici ormai sono uomini adulti: Alex, Settimio, Walter.
Conosco personalmente un’animatrice del gruppo: Antonietta. Per me da sempre Anto. Anto ha iniziato a offrire amicizia e servizio come volontaria nella Banda del cocomero 15 anni fa, e al telefono la mattina, poche ore prima della benedizione del parroco, mi racconta con la sua solita allegria le origini del gruppo e le esperienze belle vissute negli anni.
Mi nomina: Fabietto (il capitano della Banda), Walter, Alex, Settimio, Francesca, Maria. E mi spiega come la pandemia abbia purtroppo reso più difficili gli incontri, anche perché molti dei “ragazzi” hanno situazioni di salute precarie e perciò devono fare molta attenzione.
Alle 12 e qualche minuto, mentre il Santo Padre recita l’Angelus, Padre Cesar benedice il presepe murario che guardiamo tutti in silenzio. Il sole riflette l’ombra del tetto della casa di fronte e illumina solo una parte del presepio: il cammello posto sopra i Re Magi.
È un murales semplice e bello, con la natività dipinta di bianco sul fondo blu.
È commovente vederlo ritratto su un muro di periferia, mi fa pensare a quanto sia bello vivere anche questo Natale che a tratti ci può sembrare scombinato e assurdo.
Per me poi assume anche un significato personale: si trova nella via dove hanno abitato per una vita i miei nonni fin da quando sono arrivati in Italia dall’Eritrea, insieme a mia mamma e ai miei zii.
E così sono tornata a passare, dopo tanto tempo, di fronte a quella che è stata per decenni la loro casa: il cancello verde, il grande terrazzo, l’intonaco scrostato come sempre di quel rosa inconfondibile. La palazzina più sgarrupata di tutta la via, ma quanta vita!
Mentre distratta sono immersa nei ricordi della mia bella infanzia, Pierina, la fondatrice della mitica Banda, prende la parola e dice:
Questo presepio è segno di amicizia nei confronti di Damiano ma soprattutto di fede. Abbiamo deciso di imprimerla su un muro, abbiamo il coraggio di mostrarla. Chi passerà di qua penserà: “qui abita qualcuno che ci crede proprio”.
Alla fine della breve cerimonia mi fermo a parlare con lei, una donna tenace e appassionata, per tanti anni volontaria in missione all’estero: nella Repubblica Centrafricana 9 e 3 in Brasile.
E così mi racconta le origini della Banda e questi 25 anni di avventure.
Ciao Pierina, come è nata la banda del cocomero?
Io sono fisioterapista e ho conosciuto i primi bambini grazie al mio lavoro negli anni 90, erano 5-6, tutti di Torre Maura. Avevano terminato il progetto riabilitativo alla ASL e non avevano diritto a nient’altro. Perciò dovevano cercarsi da soli un inserimento sociale nel quartiere e per molti genitori non era facile. Così proposi al mio amico Sergio, che faceva il catechista e seguiva i ragazzi del dopo cresima nella parrocchia San Giovanni Leonardi, di fare un piccolo gruppo di accoglienza. Lui mi disse: “pensi che loro che sono tutti giovani tra i 16 e i 18 anni possono essere in grado di aiutarci?” Io risposi: “sì, non ci vogliono né esperienza né chissà quali capacità”.
E così cominciammo: il primo anno facemmo soltanto dei giochi insieme, ci incontravamo un paio di giorni a settimana in parrocchia, venivano 6-7 ragazzi. Ma poi rimasi incinta, una gravidanza a rischio e perciò fui costretta a stare a letto, fu una separazione forzata.
Erano tutti preoccupati di non essere all’altezza e invece hanno fatto un lavoro migliore di quello che proponevo io. Perché da terapista offrivo la mia amicizia al paziente in quanto è insita in quel tipo di relazione, basata sul fatto che se non c’è empatia non ottengo risultati.
Loro invece, non avendo un retroterra scientifico, avevano un rapporto più pulito: mi ricordo gli abbracci, gli sguardi, i regalini che si facevano. Erano più puliti, anche io ovviamente gli volevo bene ma loro erano liberi, senza la costruzione mentale del lavoro. C’era Sergio con gli animatori, e poi subentrò Manuela con altri giovani. Manuela, una ragazza bella e affettuosa dai modi decisi, diventò in poco tempo la leader del gruppo e lo è tutt’oggi. Nel frattempo partorii e poi rimasi nuovamente in attesa, sempre gravidanza a rischio, perciò stessa situazione della prima volta. Alla banda le cose andavano molto bene, erano improntate in un maniera meno professionale: condivisione, giochi, amicizia. La fede in quella fase non era molto presente. Si incontravano il sabato perché gli animatori avevano impegni di studio e lavoro.
E poi che strada ha preso la banda?
Al mio rientro – una quindicina di anni dopo – abbiamo maturato che fosse importante la preghiera, molti ragazzi che frequentavano la banda dovevano fare la Comunione, altri la Cresima.
Pensa che nel gruppo degli animatori ci sono stati 4 matrimoni, perciò a un certo punto mi chiesero di rientrare. Io accettai ma specificai subito che volevo recuperare l’aspetto della spiritualità.
Così ho scoperto una cosa incredibile: i ragazzi hanno una spiritualità profonda, fanno delle preghiere che mi lasciano sconvolta. Ti faccio un esempio. Ad Alex – sono 8 anni che fa parte della banda – io gli dico: “Alex tu devi dire qualcosa a Gesù?”, lui mi risponde: “sì”. E io continuo: “e allora andiamo davanti al Tabernacolo e tu glielo dici”. E lui è andato e ha cominciato a parlare con passione e forza, ha tirato fuori tutto il suo dolore.
La preghiera è cominciata grazie alla Vergine Maria: quando c’erano ricorrenze mariane importanti io proponevo ai ragazzi di pregare, di ringraziare la Madonna e di chiedere a lei quello che serviva. Loro mi ascoltavano e pregavano.
Durante il primo lockdown abbiamo cercato di restare in comunicazione tra noi su WhatsApp, oltre ai giochi, ho proposto una novena alla Madonna, nel mese di maggio: in ognuno dei 30 giorni ciascuno ha detto un’Ave Maria, doveva scrivere la preghiera sulla chat e mettere l’emoticon della rosa. Io ho sistemato una fascia intorno alla statua della Madonna in chiesa e ogni giorno andavo e spillavo i petali di carta corrispondenti al numero di Ave Maria recitate da ragazzi e animatori: a volte le rose erano formate da venti petali, altri da quaranta. È stato bellissimo. Sul petalo scrivevo il nome della persona che aveva pregato.
Come mai vi chiamate la Banda del cocomero?
Quando all’inizio facevamo i giochi insegnavo ai bambini delle canzoncine perché per memorizzare hanno bisogno di fare anche dei gesti. Allora cantavamo e ballavamo la canzoncina “Un cocomero tondo tondo”, e a loro piaceva tantissimo. Avevano 10-12 anni ma un livello mentale di 5-6. Erano ragazzini con disabilità psichiche, tranne due che avevano disabilità fisiche.
Quando ho chiesto: “come ci vogliamo chiamare? il gruppo? la banda?”, un ragazzo ha detto: “la Banda del cocomero”. E io risposi sorpresa: “perché il cocomero?” E lui disse: “perché a noi ci piace il cocomero tondo tondo”.
Dopodiché abbiamo cominciato a fare i ritiri, 5-6 giorni di convivenza insieme. C’era sempre qualche mamma che si prestava per cucinare. Per i ritiri agli inizi avevamo optato per la casa al mare delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù, che sorgeva proprio sulla spiaggia, con un ampio giardino e varie sale, per cui era molto accogliente. Ancora oggi i ragazzi ci chiedono di andare lì a Lavinio.
Successivamente abbiamo trovato altre strutture di accoglienza. Tutti i ragazzi sono parzialmente autosufficienti e hanno bisogno di assistenza nella pulizia personale. Abbiamo dormito con loro nelle stanze e coccolato quanti avevano nostalgia della mamma. Le giornate erano organizzate secondo i loro ritmi: giochi, relax, spazi di confronto e preghiera.
Ecco, questi ultimi sono i momenti belli, quelli della riflessione e delle piccole preghiere. Ho trascritto le loro riflessioni, davvero profonde. Molte sono state le manifestazioni alle quali i ragazzi hanno partecipato a volte invitati dalla comunità di S. Egidio: ai 100 pittori di via Margutta, ai numerosi concerti di artisti noti, alle partite del cuore. E poi abbiamo organizzato visite presso fattorie didattiche, giornate al mare, gite coi genitori, ecc… E poi abbiamo i compleanni, il Carnevale, le feste patronali, appuntamenti attesissimi, oltre al famoso ritiro, “pizzate” e raduni mangerecci.
La domenica mattina, fino allo scoppio della pandemia, con altri volontari portavamo i ragazzi a messa. Uno di noi andava prima per occupare i posti e permettere che tutti sedessimo vicini. Nel periodo del lockdown tutte le attività sono state sospese, ed ora i genitori hanno paura a far uscire i figli di casa.
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Com’era Damiano?
Rita sua madre è stata esemplare con Damiano che aveva un’epilessia farmaco resistente. Era un ragazzo appassionato di lettura, di Star Wars. Un giorno mi fa: “Pierina ti posso parlare?”, “certo, dimmi Damiano”. “Ma io mi posso sposare?”, “sì, però sai che per sposarsi occorrono delle condizioni: bisogna avere un lavoro”, e lui tutto felice “io un lavoro buono ce l’ho” – perché Damiano lavorava all’Atac – “poi bisogna avere una casa”, e lui contento “io una casa ce l’ho”, “poi bisogna trovare una brava ragazza”, e lui mi risponde: “questo è un problema, perché deve andare d’accordo con mia madre”. (Pierina ride NdR.). Lui sognava una famiglia… l’ho raccontato anche nell’elogio funebre.
Come è nata l’idea del murales?
Volevamo festeggiare i nostri 25 anni chiamando una banda musicale e facendo festa insieme, poi a causa della pandemia abbiamo rimandato e alla fine abbiamo lasciato perdere. Allora ho pensato ad una cosa significativa che restasse nel tempo e così mi è venuto in mente che qui non dovevamo chiedere il permesso a nessuno, visto che il muro è nostro. Io e la mamma di Damiano siamo vicine di casa e abitiamo proprio qui. Ho detto a Rita: “che dici se facciamo un presepio sotto Natale dedicato a Damiano?” lei si è messa a piangere. I ragazzi della banda felicissimi, hanno collaborato tutti, siamo stati una mattina insieme per realizzarlo.
Abbiamo voluto rappresentare la Natività proprio per mostrare la fede, il coraggio di esserci, di lasciare un segno. Damiano non si vergognava, faceva spesso le preghiere spontanee. Lui era serio, come è seria sua mamma Rita (sorride NdR). Damiano si impegnava, se faceva uno sport vinceva, la sua camera è piena di coppe e medaglie. Rita è stata una mamma bravissima, si è fatta aiutare per supportare Damiano, lo ha fatto sempre seguire. La fede l’ha sostenuta. Quando la domenica facevamo i giochi a quiz lui sapeva tutto, vinceva. Eppure tra i volontari ci sono ingegneri, professori, tutti laureati, ma certe cose non le sapevamo neppure noi. Damiano sì. Conosceva benissimo la storia, a volte mi faceva delle domande così sottili. Aveva fede e credeva in Dio. Apriva il cuore nella preghiera, pregava spontaneamente per la sua famiglia, gli amici, il suo mondo.
Continueremmo a parlare per ore ma i ragazzi reclamano giustamente la sua attenzione e perciò colgo l’occasione per conoscere Rita, la mamma di Damiano, una signora molto gentile, che con generosità e simpatia mi ha raccontato di suo figlio e mi ha anche mostrato la sua camera.
Come ha reagito di fronte all’idea che la Banda del cocomero volesse ricordare Damiano con un presepe?
È stato bellissimo e inaspettato. È un documento che resta, mi dimostra l’affetto che il gruppo prova per Damiano. Sono contenta che mio figlio sia riuscito a farsi apprezzare e amare da tutti in maniera incondizionata. Perché dopo un anno che è morto, per carità, il ricordo sì, però questo è veramente la dimostrazione che anche lui deve aver fatto qualcosa che resta.
Che ragazzo era Damiano?
Era un ragazzo solare, molto aperto, rompiscatole e preciso. Lui aveva un’epilessia farmaco resistente ed è morto perché nessuna terapia ha potuto più curarlo. Ha cominciato ad assumerli all’età di tre anni e mezzo, e poi con grosse difficoltà intorno ai 10 anni sono stati introdotti quelli che miracolosamente lo hanno aiutato.
Però i medici mi dissero subito che al massimo avrebbero avuto effetto terapeutico per dieci anni. Sono invece stati efficaci per 24 anni, i neurologi mi hanno detto: “signora è un miracolo, non esiste che durino tutto questo tempo”.
L’ultimo anno di vita è stato duro: a settembre 2018 ha avuto una crisi violenta dopo 19 anni che non l’aveva. E lì ho detto subito: “Damiano sta morendo”. I medici mi dicevano: “non è possibile”. Quelli che lo avevano curato da piccolo erano andati in pensione ma erano stati di una chiarezza incredibile con me. D’altronde se Damiano è riuscito nella vita a fare tante cose è perché loro sono stati estremamente chiari con me. Non sapevo quanto Damiano potesse vivere perché quando mangiava poteva soffocare. Non aveva grosse crisi convulsive perché i farmaci le controllavano, ma praticamente soffriva solo di “assenze”.
Lui ha frequentato il liceo classico, era un lettore appassionato. Adorava i fumetti, la storia che conosceva in maniera incredibile, Star Wars. E poi ha fatto tanto sport: arrampicata su pietra verticale, canoa, fit box. Nella sua stanza ci sono le medaglie e le coppe vinte. Ha fatto anche teatro.
E voi che rapporto avevate?
Uh, mamma mia! Delle liti furibonde: su tutto, qualunque cosa (sorride NdR). Del tipo: lui ha lavorato 10 anni all’Atac e un litigio classico era:
“Damiano, metti in ordine la scrivania”. E lui: “Ahhh!!! A lavoro non mi dicono mai queste cose, io sono preciso! Non si lamenta nessuno, tu ti lamenti sempre, non è possibile!”.
Damiano è stato anche quello che nel 2000, l’Anno Santo, aveva 15 anni e mi disse che lui era grande e usciva da solo. Ovviamente non poteva e perciò all’inizio ho concordato: usciamo insieme e io non ti conosco, e davvero stavo a distanza e lui chiedeva indicazioni ecc…
Ma ad un certo punto non gli è andato più bene e perciò ho dovuto trovare dei ragazzi che pagavo e che lui non conosceva, dovevano essere 4 – 5, per non farlo insospettire.
Ricordo che una volta ad agosto, avrà avuto 17 anni, faceva caldo, non ne poteva più e mi disse: “bastaaa! Voglio uscire da solo”. Gli risposi: “vai! Esci da solo”.
Ancora adesso se ci penso sento un dolore dentro al petto. Comunque è partito, era tanto tempo che non andavamo in una libreria che stava all’epoca a via del Corso. Aveva deciso che proprio quella mattina doveva andare lì. Quindi si è recato alla stazione Termini, ha preso il 64 è sceso a Largo Argentina ed è andato a piedi, da lì se l’è cavata. Il problema è stato il ritorno: mi telefona e mi dice “Mamma ho perso la strada”. Ero a casa e gli dico: “aspetta che ti vengo a prendere”. E lui: “nooo!”. Perciò mi son messa seduta con lo stradario davanti e l’ho guidato così. Ad un certo punto mi fa: “ho visto l’autobus” e mette giù.
In ufficio protestava se non gli davano da fare ma poi ovviamente il lavoro era faticoso e perciò si lamentava, perché magari doveva mettere a posto dei fogli mentre leggeva Star Wars… Però i colleghi sono rimasti legatissimi, mi mandano messaggi in continuazione.
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Come è stato essere la mamma di Damiano?
Io Damiano l’ho voluto con tutte le mie forze, ho avuto sempre la mia famiglia accanto, mia madre e mio fratello, sempre vicinissimi. Mia madre poi mi ripeteva che il Signore manda il freddo secondo i panni e io le corazze ce le avevo. Quando Damiano ha cominciato a star male grazie al Cielo non mi sono abbattuta. Ho combattuto finché ho potuto. Ti racconto la mattina in cui si è sentito male, era il 19 ottobre 2019, l’ultima volta che è stato a casa, perché poi è stato fino alla morte in ospedale, intubato e in coma per 20 giorni.
Faceva colazione e non riusciva ad ingoiare, aveva “assenze” una dietro l’altra, e perciò davanti a lui battevo i pugni sul tavolo per attirare l’attenzione. A un certo punto mi dice: “mamma ma quando tu muori io come faccio a fare colazione?”. E io seria: “non ti preoccupare che giriamo un video, così vedono quello che faccio, stai tranquillo”. Poi dovevamo andare a pranzo da un’amica e lui: “ma tu mi chiedi di fare le cose e io non ce la faccio!”. Risposi: “Senti Damia’, tu non ce la fai per stare su internet a casa, allora ci sono due possibilità: o muori e non ci pensi più o aspetti che muoia io per fare quello che ti pare”. “No vabbè, d’accordo mi preparo andiamo” rispose.
Poco dopo vado in camera sua per cambiare la lampadina, stava seduto sotto la plafoniera a leggere e gli faccio: “ti sposti amore che devo mettere la scala?” e mi accorgo che Damiano “non c’era”, perché lui non cadeva. Mi ha aiutato a stenderlo la vicina di casa e poi ho chiamato l’ambulanza ma mio figlio non si è più ripreso.
È stata l’ultima colazione insieme. Quel giorno ha avuto le convulsioni dalle 10.30 fino alle 18.30, senza smettere mai con tutto quello che gli hanno fatto. Avrebbe compiuto 35 anni a febbraio.
Come forse ogni madre ho tanti rimpianti però mi ricordo le parole di mio fratello quando arrivarono tutti in ospedale, disse: “la vita di Damiano è stata dolce, grazie alla madre perché ha fatto tutto lei, la vita di Damiano è stata dolce”.