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L’individualismo figlio del cristianesimo? Galimberti, permetta una parola…

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 17/11/20
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Dialogando con Walter Veltroni sul Corsera di oggi, Umberto Galimberti si è diffuso in una serie di (anche interessanti) considerazioni. Tra queste spiccano però diverse sconclusionate affermazioni sui contenuti della dottrina cristiana e su certi suoi pretesi effetti. Qui le nostre chiose.

Oggi abbiamo letto, sul Corriere della Sera, un’intervista impegnata e impegnativa fin dalle premesse: Walter Veltroni pone domande sulla vita al tempo del Covid a Umberto Galimberti. La differenza tra la prima stretta, quella di marzo, e quella attuale – ad esempio – apre l’intervista con tutti i crismi per tenerci incollati alle valutazioni dei due intellettuali fino alla fine: 

Nella prima parte, con il lockdown di marzo, quella che si era verificata era una sorta di angoscia. Che non è la paura, perché la paura è un ottimo meccanismo di difesa. Vedo un incendio, scappo. Ha come oggetto qualcosa di determinato. Mentre l’angoscia non ha qualcosa di nitido davanti a sé. È quello che provano i bambini quando si spegne la luce nella loro stanzetta e loro non sono ancora addormentati. La sensazione spiacevole di non avere più punti di riferimento. Sia Heidegger, sia Freud che neanche si conoscevano, o quantomeno non si erano reciprocamente letti, definiscono l’angoscia il nulla a cui agganciarsi. Durante la prima crisi l’angoscia per la minaccia costituita dal rischio del contagio — chiunque poteva infettare chiunque — ha generato angoscia e consentito, per reazione, una disciplina generalizzata. Oggi invece, dopo il rilassamento estivo, la stanchezza di essere confinati e una imprevedibile sorta di superficialità nel considerare il pericolo ci hanno fatto ripiombare nell’incubo. E la condizione allora è quella di spaesamento, non più di angoscia. Cosa dobbiamo fare, come ci dobbiamo comportare… Sabbie mobili. È un sentimento che oscilla tra il ribellismo, la rassegnazione e la disperazione non solo dei parenti di coloro che muoiono, ma anche di quelli che perdono il lavoro o chiudono il negozio o l’impresa. Ci si muove in un clima di assoluto spaesamento. Non abbiamo più il paesaggio in cui abitare la nostra vita quotidiana con una certa quiete. Abbiamo perduto la normalità del nostro vivere.

Difficile non condividere queste prime considerazioni di Galimberti: l’angoscia e lo spaesamento, la resilienza e l’anarchia, l’ammirevole disciplina di allora e l’odierno “sentimento che oscilla tra il ribellismo, la rassegnazione e la disperazione”, con i relativi nessi al dramma delle piccole imprese falcidiate. E l’intervista procede scorrevole fino alle considerazioni finali sulle “praterie di ore” repentinamente e inopinatamente offerte all’uomo moderno. 

Due affermazioni imbarazzanti

Nella prima metà dell’intervista, però, per due volte Galimberti si lascia (inspiegabilmente) andare a valutazioni fantasiose sul contributo (ovviamente negativo) del cristianesimo alla presente situazione. 

A proposito del distanziamento sociale, laddove Veltroni chiedeva al filosofo se esso sia «sopportabile come condizione esistenziale», l’intervistato risponde: 

Io lo chiamerei distanziamento virale più che sociale, perché se cominciamo a mettere in gioco la società di relazione finisce che ci abituiamo a considerare la società come un’appendice dell’individuo. Questo è tipico della cultura cristiana, lo devo dire con chiarezza. I Greci per esempio: Aristotele diceva “Se uno entra in una comunità e pensa di poter fare a meno degli altri o è bestia o è Dio”. E di Dio dice “Forse Dio non è felice perché è monakos”. Perché è solo. Invece il cristiano ha messo in circolazione il concetto di individuo, “L’anima la si salva a livello individuale”. Ad un certo punto la società è stata percepita semplicemente come qualcosa che non deve costruire il bene comune ma, lo dice sant’Agostino, è incaricata di togliere gli impedimenti che si frappongono alla salvezza dell’anima. Quindi un lavoro solamente negativo. Nel Contratto sociale Rousseau dice che il cristiano non è un buon cittadino, lo può essere di fatto ma non di principio, perché il suo scopo è la salvezza dell’anima. Ora questa cultura dell’individuo, che non era greca ma propriamente cristiana, ha fatto sì che oggi ci si lamenti dell’individualismo, dell’egoismo, del narcisismo. In sostanza del fatto che ciascuno pensi solo a se stesso.

Per duemila anni l’Italia è stata governata da una popolazione straniera. Per questo si è introiettato e diffuso il concetto che lo Stato è il nemico, il nemico da contrastare, il nemico da far fuori. Questa cultura che permane anche dopo centocinquanta anni di unità d’Italia ha generato forme macroscopiche di individualismo. Questo spiega comportamenti non frequenti in altre democrazie: evadere le tasse, la corruzione, accedere al lavoro, dal più umile a quello più importante, attraverso le raccomandazioni.

Il secondo passaggio è dato in merito a una domanda su «le tre dimensioni “passato, presente e futuro”», le quali – osserva Veltroni – si sarebbero «appiattite in una sola», facendo perdere un po’ «la tridimensionalità della vita». E anche qui Galimberti incalza: 

Anche qui la cultura cristiana ha stabilito che il passato è male, il peccato originale, il presente è redenzione e il futuro è salvezza. Questa cultura è diventata universale in Occidente soprattutto perché il cristianesimo ha immesso una sorta di indotto ottimismo nella nostra cultura. Senza nasconderci in maniera ipocrita dietro un dito va detto che l’Occidente ha fatto un grosso passo avanti, per se stesso, con questo ottimismo. Ha stabilito che il futuro è sempre positivo. Anche la scienza, che si tende a contrapporre alla religione, pensa che il passato sia male, ignoranza, il presente ricerca e il futuro progresso. Cristianesimo puro. Sotto questo profilo può essere considerato cristiano anche Marx: il passato è negativo, ingiustizia sociale, il presente è far esplodere le contraddizioni del capitalismo e il futuro è giustizia sulla terra. Anche Freud scrive un libro contro la religione: la nevrosi si colloca nel passato, il presente è terapia e il futuro è guarigione. Non è vero che il futuro è, per definizione, un tempo positivo. Il futuro è positivo se ci si attiva, non certamente per il fatto che sia futuro automaticamente è un rimedio ai mali del passato.

«Un parlare avventato che non dovrebbe ripetere»

Leggo e rileggo questi inspiegabili passaggi e mi domando come sia possibile che una persona con la caratura culturale di Umberto Galimberti si lanci in tanto spericolate affermazioni, che sarebbero a malapena tollerabili in un fante di quelle famose “legioni” di cui parlò Umberto Eco ricevendo nel 2015 la laurea h.c. in Comunicazione e cultura dei media. 

Lo “sforzo del concetto” nel conio dell’antropologia personalistica

Che il cristianesimo abbia «messo in circolazione il concetto di individuo» è un’enormità imbarazzante, laddove è certissimo che i titanici sforzi della dogmatica patristica furono indirizzati per almeno mezzo millennio a declinare l’antropologia classica secondo le esigenze della rivelazione di Gesù, che implicava una pluralità di persone nell’unicità di Dio. A differenza dell’ignaro dio aristotelico, che tutto «muove in quanto oggetto d’amore» ma non ama se non soltanto sé stesso, il Dio dei cristiani fin da subito fu detto “monos”, cioè unico, ma non “monakos”, cioè non solitario: gli fu predicata da sempre compresente la sua parola/intelligenza (logos), anche prima della creazione del mondo, onde già gli apologisti greci del II secolo poterono affermare che «Dio non è alogos», cioè non manca di una parola/intelligenza così speciale da poter essere ben altro e ben più che un mero “attributo divino” – essa era intesa come una persona, quella del Figlio, che dall’eternità era generata dal Padre condividendone (perfino in modo assai controverso) la stessa sostanza!, e che per l’eternità vive nella comunione dell’unico Spirito Santo.


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Né queste furono pure speculazioni ellenistiche, come a certi filosofi ancora piace pensare, quasi che fossero delle sovrastrutture prodotte dalla fermentazione ellenistica nella putrescenza della morta missione gesuana: fu proprio Gesù, infatti, il rabbi di Galilea, a insegnare a pregare Dio come “Padre nostro” – “nostro” sempre, anche quando si prega «nel segreto della propria stanza», e a predicare che «dove due o tre sono uniti nel mio nome, lì io sono in mezzo a loro». 

Lo stesso giudaismo rabbinico, che traghettò come potè l’ebraismo del I secolo oltre il naufragio delle guerre giudaiche e dell’ultima diaspora, ha stabilito un limite fisso – un minyan (numero) perfino più alto di “due o tre”, essendo costituito nella decade – sotto al quale non si ritiene valida l’assemblea sinagogale. 

Rivoluzionarie fondamenta della teologia politica cattolica

Galimberti farebbe bene a ricordare, in aggiunta a tutto questo, che se Costantino proibì di sfregiare il volto degli schiavi fuggitivi lo fece in considerazione del fatto che «sul volto dell’uomo c’è l’immagine di Dio». Del Dio-persone, e in ogni uomo, anche in quelli che il divino aristotele considerava “schiavi per natura”.



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L’anima si salva per i meriti individuali, certo, però non «fuori dalla Chiesa» (ma come? a targhe alterne si rimprovera alla Chiesa l’extra Ecclesiam nulla salus – già attestato in Cipriano! – e poi si ricade in questa fantagenealogia dell’individualismo?), e Agostino l’africano non disse le cose malamente rabberciate da Galimberti per teorizzare una società dell’individuo – lui che predicando urlava “non voglio salvarmi senza di voi!” –, bensì per indicare che allo Stato non competeva porre i mezzi positivi per la salvezza degli uomini, cioè i divini misteri, che non gli competono, bensì rimuovere gli impedimenti ostativi (diremmo oggi “le strutture di peccato”) che possono incidere negativamente sulla santificazione degli individui. Una lezione di laicità, quella di Agostino. Di vera laicità. 

Giusnaturalismo, moralismo e “oblio della grazia” nella modernità

Niente a che vedere con gli arrovellamenti illuministico-romantici di Rousseau a cui – saltando di palo in frasca – Galimberti si ricollega: la grande questione della moderna filosofia della religione era nello stabilire i contenuti della morale universale, e il contesto in cui il Francese interveniva era quello in cui si ammetteva facilmente che le virtù cristiane (così eccessive e così capaci di superare nella carità perfino il principio di autoconservazione) non coincidevano con le virtù auspicabili nel buon cittadino moderno. Non per nulla gli ospedali – con quell’irragionevole e ostinata attenzione agli ultimi, «contro ogni speranza» – erano stati un’invenzione medievale, non moderna.



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Si resta poi interdetti quanto al passaggio sulla “popolazione straniera” che per duemila anni avrebbe dominato l’Italia: evidentemente non sarà quella a cui si riferiva il risorgimentale Manzoni in Marzo 1821, ché il suo dominio era di pochi secoli, ma sarebbe insostenibile l’ipotesi che Galimberti alluda ai cattolici (come si collocano i visigoti e i longobardi, i quali furono ariani?)… eppure dal contesto non si evincerebbe altro… Forse un D’Azeglio sarebbe d’accordo con lui, ma neanche tra i padri del Risorgimento italiano si troverebbe unanime consenso sulla tesi che l’Italia sia mai stata, prima dell’unificazione, altro che una nozione geografica (forse il primo a sospirare l’unità politica per la “donna di province” fu Dante – anch’egli cattolico). Sarebbe però il cattolicesimo la radice dell’individualismo contemporaneo… letteralmente pazzesco. 

La rivelazione giudaico-cristiana, l’essere e il tempo

Nel secondo passaggio si compie un estroso mix di cristianesimo e positivismo, e anche qui torna il pensiero delle targhe alterne: ma come? Si sta sempre a dire che la dottrina del peccato originale avrebbe introdotto nel mondo il veleno del pessimismo… e all’improvviso invece quella stessa dottrina avrebbe implicato nientemeno che «un indotto ottimismo»? E sarebbe “cristianesimo puro” ritenere che «il passato sia male, ignoranza, il presente ricerca e il futuro progresso»? Rinunciamo a parlare di cristianesimo, dato il livello, e chiediamo invece più sommessamente: ma che gente sarebbe questa che ragionerebbe in siffatto modo? A tutte le latitudini culturali note, invece, perfino negli scritti religiosi di Cicerone e/o di Plutarco, lo spirito religioso tenderebbe a lamentare il declino delle ætates sæculi (e l’età dell’oro – strano che al Professore non sovvenga – non è certo un’invenzione giudaico-cristiana). Anzi, nelle scritture di ebrei e cristiani si rinviene invece un duro monito sapienziale che diffida dall’abbandonarsi al malpancismo di vecchi nostalgici facili a pontificare: 

Non domandare: «Come mai i tempi antichi erano migliori del presente?», poiché una tale domanda non è ispirata da saggezza.

Qo 7,10

Donde l’efficace sintesi pastorale del solito Agostino, che ai fedeli della sua Ippona disse: 

«Sono tempi cattivi, tempi penosi!» si dice. Ma cerchiamo di vivere bene e i tempi saranno buoni. l tempi siamo noi; come siamo noi così sono i tempi. Ma che facciamo? Non siamo capaci di convertire una moltitudine di persone alla retta via? Ebbene, i pochi che mi ascoltano, vivano bene; i pochi che vivono bene sopportino i molti che vivono male.

Chi avrebbe mai detto, dunque, che «il futuro è per definizione positivo», così che Galimberti giunga a porre il suo autorevole correttivo? Qualche papa? Forse quello (l’unico) della chiesupola di Auguste Comte… 

Il “tampone sospeso”, guarda caso espressione di un tessuto cattolico

Una cosa vera del tempo – ma questa è sapienza popolare, non specificamente cristiana – è che è galantuomo: difatti proprio ieri (ma Galimberti stava distillando le perle che abbiamo letto oggi, non avrà avuto tempo di rifletterci) ci è giunta da Napoli la notizia dell’istituzione del tampone sospeso. «Il caffè è un diritto di tutti, anche dei poveri» – il fondamento teoretico del più celebre “caffè sospeso” – è la versione secolarizzata de “la bellezza è un diritto di tutti, anche dei poveri”, che nel XVIII il celeberrimo vescovo napoletano, mons. Alfonso Maria De’ Liguori, adduceva a ragione dei copiosi investimenti nella costruzione e nel restauro di chiese, superati solo da quelli per le mense e per gli ospedali. Barocco napoletano, caffè sospeso e tampone per tutti sono invece genuine espressioni di quel cattolicesimo schietto, integrale e sostanzioso che di questo Paese rappresenta la vera spina dorsale (checché se ne dica, il primo Presidente della Camera dell’aspirante Regno d’Italia fu il prete Vincenzo Gioberti, e perfino lo scomunicato Cavour chiamò sul letto di morte frate Giacomo da Poirino dicendo “muoio da buon cristiano”): anche stavolta, la benefica idea, che declina sussidiarietà e attenzione ai poveri, nasce nel contesto della Fondazione Comunità di San Gennaro (che ha attivato una farmacia e la municipalità locali) e si svolge fisicamente negli spazi della Basilica di San Severo a Capodimonte. Oggi la si ammira nel pittoresco rione Sanità, ma nel XVI secolo (benedetta “Controriforma”!) la chiesa attuale fu fondata su antiche memorie cristiane in contesto di necropoli pagane – un’area in cui venivano confinati gli appestati della città. E lì – con gli ultimi del secolo – paziente e compassionevole, ottima cittadina, c’era la Chiesa. C’erano i cristiani. Come volevasi dimostrare.



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«Di fronte a questo – verrebbe infine da parafrasare in riferimento a Galimberti la famosa lettera di Benedetto XVI a Odifreddi – quanto lei dice del cristianesimo è un parlare avventato che non dovrebbe ripetere». Nessuno deve sentirsi spinto alla fede da quanto abbiamo esposto – rilievi che hanno soprattutto carattere storico, non teologico –, ma resta a stento tollerabile la mistificazione operata da intellettuali pregiudizialmente ostili al fatto cristiano: certo, possono confidare su un panorama di ignoranza così diffusa e solida da non dover temere, in genere, pubbliche smentite; eppure dovrebbero avere un momento di remora, prima di lanciarsi in codeste sgangherate invettive, al ricordo di quando erano giovani docenti e, a uno studente che avesse profferito loro certe corbellerie, non avrebbero regalato neanche il tanto sbandierato (e sciagurato) 6 politico.

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