I bambini non sono spaventati dalla morte e dalle tombe, io non lo ero quando mia nonna mi faceva lucidare la foto del nonno mentre lei cambiava l’acqua ai fiori.Sono stata abituata a visitare i cimiteri fin da piccola e fin da piccoli ci ho portato i miei figli. Per mia nonna era un dovere immancabile andare a salutare tutti i parenti sepolti nei vari campi santi della pianura padana, ci mettevamo in auto di mattina presto e rientravamo a casa che era buio. Mia madre guidava, mia nonna parlava e a me toccava scrivere i biglietti da mettere sulle tombe. Imparavo così i nomi di cugini di secondo grado e bisnonne. Imparavo che zia Ferdina in realtà era Ermelinda.
I miei preferiti erano i cimiteri di campagna, grandi anche meno di un campo da calcio e circondati da distese di alberi da frutto o filari di vigne. Avvolte nei cappotti e nella nebbia di novembre, mettevamo fiori e biglietto e recitavamo un rechiameterna. Così mia nonna, che aveva finito a stento le elementari, aveva addomesticato il latino del Requiem aeternam.
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Di passaggio
Ieri sulla tomba di mia nonna ci siamo andati tutti insieme, anche se uno solo dei miei tre figli l’ha conosciuta da viva. È grazie a lei se per me la morte ha un volto quasi domestico e non terribile, se il cimitero è il luogo dove c’è chi abbiamo amato e possiamo ricordarlo curando un piccolo giardino accanto alla lapide. I bambini non sono spaventati dalla morte e dalle tombe, io non lo ero quando mia nonna mi faceva lucidare la foto del nonno mentre lei cambiava l’acqua ai fiori. Altrove, dove la vita è celebrata come un idolo che esclude ogni fragilità, mi viene paura della fine; ma nel luogo che ha come pietra angolare la morte tutto si mette a fuoco senza disperazione, anzi con rinnovata fede in un destino eterno.
Siamo di passaggio non è una brutta frase. Siamo passati a pregare sulla tomba di una mia cara amica, che persi in prima liceo; poi di un’amica che ho perso 4 anni fa. Il fratello di mio padre morì che non aveva neanche 30 anni, quando andiamo davanti alla sua lapide i miei figli vogliono sentire sempre da capo la storia del suo incidente in auto. Lo guardano e vedono le somiglianze con il loro nonno. Immaginano che tipo fosse dal modo strano in cui si pettinava i capelli. Apparteniamo a una famiglia umana, fatta di uomini e donne da cui siamo stati generati. Siamo di passaggio, ma siamo legati gli uni agli altri da una storia che ci precede e che porteremo avanti per un altro piccolo tratto.
Il poveretto
Non so se sia tipico solo da noi in Emilia-Romagna, ma qui quando uno muore si guadagna il titolo onorifico di povero. Così se in un discorso senti parlare del «povero Giuseppe», sai che si sta parlando di un defunto. Se qualcuno non si ricorda di lei, mia madre si fa riconoscere dicendo che è la figlia del «povero Luigi». Col tempo ho imparato a guardare con grande tenerezza e ammirazione questo aggettivo che solo apparentemente è svilente.
Finito il giro dei parenti, ieri – come d’abitudine – ho portato i figli nella zona monumentale del nostro cimitero, dove ci sono tombe di famiglia con imponenti sculture e cipressi vecchissimi. Siamo entrati, e non l’avevamo mai fatto prima, nel piccolo mausoleo dedicato ai soldati della prima guerra mondiale. Per vedere le lapidi, raccolte in un’unica piccola stanza, abbiamo sceso una scala stretta. Ci siamo ritrovati a tu per tu con due muri pieni di volti in bianco e nero, anche le scarne informazioni scolpite lasciavano presagire storie preziose, nella loro invisibile semplicità. Ad esempio, ci siamo fermati a pensare chi fosse questo Luigi che morì a 22 anni, in guerra, avendo come mansione quella della distribuzione viveri. Ha qualcosa di sacro l’immagine di un ragazzo che si spegne in mezzo alle bombe col compito di distribuire il cibo ai compagni.
Che significa povero? Che genere di povertà è quella che si impara al cimitero? Credo sia quel genere di spoliazione per cui ci ritroviamo nudi davanti a Dio e pronti a nascere di nuovo. Lasciamo quaggiù i vestiti del nostro vissuto, le nostre tracce buone o indecenti sono un dono a chi resta. Andiamo in Cielo da chi ci conosce da sempre, non abbiamo bisogno di alcun outfit.
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Polvere celeste
Mio figlio di 10 anni, è andato dritto al punto quando abbiamo attraversato il campo dei defunti sepolti in terra. «Perché siamo polvere e torneremo polvere?». Aveva lo stesso tono con cui mi chiede perché c’è gente che sorpassa in modo spericolato o perché a volte mi scappano le parolacce. Insomma era curiosità sincera, non terrore.
Abbiamo parlato della fragilità, lui si è ricordato della volta che si è fatto un taglio profondo in testa. Siamo polvere perché basta davvero poco per rendersi conto che il nostro corpo è un guscio sottile, che non vuol dire miserabile o trascurabile. Ci si scopre molto più amabili nei confronti di queste nostra ossa sapendo che deperiranno, la nostra piccolezza si fa misteriosamente preziosa considerando che è stata scelta per custodire il transito terreno di un’anima forgiata immortale.
Di recente mi è capitata sotto gli occhi la poesia di Nazim Hikmet intitolata Il mio funerale. E’ un testo ricolmo di meraviglia e pure di quella baldanzosa ironia che sgorga dall’umiltà, ecco la prima strofa:
Il mio funerale partirà dal nostro cortile?
Come mi farete scendere giù dal terzo piano?
La bara nell’ascensore non c’entra
e la scala è tanto stretta.
Vorrei sapermi guardare così, senza essere lugubre e seriosa pensando alla mia fine. La morte lascia in dote il dono dell’umiltà, a chi non la esclude dall’orizzonte della vita. Tutte le ideologie che escludono l’eternità di Dio, escludono anche il pensiero della morte e diventano deliri da superuomini angosciati. L’uomo consapevole della sua mortalità cammina col sorriso di un bambino sulle labbra, può ironizzare persino sul suo cadavere che non passa dalle scale. L’uomo consapevole del suo destino di Resurrezione si gode in pienezza di tremore e stupore il paradosso di sapere che basta un soffio per andare al Creatore.