Mindfulness e preghiera cristiana: perché infilarsi in un tale ginepraio? Questo avrei voluto come titolo. Una domanda che, se appena diventiamo consapevoli della ricchezza infinita del patrimonio della nostra spiritualità, dovrebbe sorgere in noi spontanea. Attenzione però: la tradizione buddista merita tutto il nostro deferente rispetto e un sincero amore fraterno. E’ la sua indebita riduzione a pratica consumistica, sebbene spirituale, che dobbiamo respingere, proprio per il rispetto che abbiamo per la loro millenaria tradizione e per quello che dobbiamo alla nostra fede.Mi è arrivato nella cassetta della posta poche settimane fa un piccolo libro dall’elevato peso specifico: agile, fruibile, ma denso e robustamente argomentato. Il tema è proprio il possibile legame benefico o deleterio tra la mindfulness e la vita di fede dei cristiani. L’autore, un monaco carmelitano da poco ordinato sacerdote che già è comparso con pezzi anche inediti sulle nostre pagine, è Padre Iacopo Iadarola.
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La sua conversione meriterebbe, anzi, meriterà un articolo dedicato. Intanto possiamo essergli grati per aver messo a servizio della Chiesa e della verità la sua intelligenza e e le sue conoscenze. Lo sforzo di comprendere nel profondo potenzialità e rischi della diffusione della mindfulness nella cultura occidentale è un atto di vera carità. Quanti, forse per incolpevole ingenuità o frettolosa considerazione, si sono fatti prendere da facili entusiasmi e hanno sdoganato come catholic-friendly pratiche che invece possono essere insidiose per la nostra vita spirituale?
Questa piccola opera edita da Ares, Mindfulness, un’opportunità per i cristiani? può essere un’eccellente occasione di presa di coscienza e di inversione a u, se necessario, in merito al fascino che queste pratiche e il mondo che esse sottendono esercitano su tanti cattolici e cristiani in genere.
Intendersi sui termini
Come facevano gli Scolastici prima di intraprendere ogni disputa e come bisognerebbe fare ancora (soprattutto ora che la discussione accesa sembra lo sport internazionale sul campo senza righe delle piattaforme social), Iadarola inizia con una salutare explicatio terminorum: cosa si intende quando si dice mindfullness?
Facoltà umana
Esistono tre significati, vediamoli: il primo è semplicemente un lemma del dizionario inglese di Oxford e significa piena attenzione, consapevolezza. Ci si riferisce con questo termine ad una facoltà della natura umana.
Traduzione del termine sati
Il secondo modo di intendere mindfullness è come traduzione di un termine in lingua pāli (lingua indiana, ceppo indoeuropeo, usata come lingua liturgica del buddhismo Theravāda, cfr Wikipedia) dove indica la settima dell’Ottuplice via secondo la disciplina buddista e significa attenzione piena, non giudicante e non riflessiva al momento presente.
L’inizio della fortuna della mindfulness in Occidente parte da questa considerazione del monaco vietnamita Thìch Nhat Hanh: con l’intento di rendere accessibili i tesori della propria tradizione religiosa al nostro mondo ha individuato proprio nella sati, tradotta con mindfulness, “l’essenza del buddhismo”. Poiché è la sati, e quindi la mindfulness così intesa, a permettere il risveglio, l’essere coscienti e consapevoli della circostanza presente…
Essa non è una semplice tecnica meditativa, ma “un mezzo e un fine”, “il seme e il frutto”.
Prestiamo attenzione all’immagine che utilizza per esemplificare la pratica perché ci tornerà utile considerando le istruzioni per la vita di preghiera che ci vengono da S.Teresa d’Avila.
Mentre lavi i piatti, potresti pensare al the che berrai dopo, o così proverai a finire il prima possibile così da sederti e berti il the. Ma questo significa che non sei capace di vivere nel tempo in cui stai lavando i piatti. Quando stai lavando i piatti, lavare i piatti dev’essere la cosa più importante della tua vita. (…) La nostra vera casa è il momento presente. Vivere nel momento presente è il miracolo. Il miracolo non è camminare sull’acqua (e qua, sinceramente, come seguaci di Cristo avremmo qualcosa da eccepire!NdR). Il miracolo è camminare sulla terra verde, nel momento presente, apprezzando la pace e la bellezza che sono a disposizione ora. (Mindfullness, un’opportunità per i Cristiani? Ares, I. Iadarola, Pag 21 dove cita da T. Nhat Hanh, The Miracle of Minfulness. An introduction to the practice of meditation)
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Attenzione piena e non giudicante fino alla consapevolezza dell’inconsistenza dell’io. Un esito tutt’altro che neutro
L’obiettivo della sati non è eliminare i pensieri ma non identificarsi con essi, considerandoli come fossero eventi impersonali o meglio “impermanenti”. Attenzione a questo snodo: per mezzo di questa pratica si potrà giungere all’anatta ovvero al “non sè”. Noi cristiani a questo punto dobbiamo comprendere con chiarezza cosa questo implichi e quanto sia radicalmente in contrasto con ciò che sappiamo dell’uomo e della sua natura per mezzo della rivelazione e confortati anche dall’esperienza personale e dalle indagini psicologiche.
L’antropologia buddhista sottesa alla pratica: in aperta collisione con quella cristiana
Come possiamo considerare innocua una pratica che presuppone una precisa antropologia che nega l’esistenza dell’io, della sua consistenza psicologica e somatica e a maggior ragione di un’anima sostanziale e immortale?
Se i pensieri sono inconsistenti, se non posso identificarmi con essi, se nemmeno esiste un’identità che ci si è abituati a desumere dalla propria corporeità e dalla propria vita di pensiero, allora, nel distaccarsi dai propri pensieri e sensazioni somatiche, si prende il largo dalla propria persona e si liquida come fallace l’esperienza diretta. Quella immediata, intera e in un certo senso assiomatica che mi fa affermare che esisto come un io unico e indistruttibile.
Questo è un punto fondamentale per comprendere come la sati non descriva soltanto una pratica (…) ma bensì presupponga un’antropologia ben precisa e doviziosamente argomentata dal Buddha-dharma, dalla dottrina buddhista. (Ibidem, p. 22)
Da un’antropologia, un’etica
C’è un altro frutto che matura da questa concezione dell’uomo e che dobbiamo saper riconoscere per poterlo seriamente paragonare alla visione della creatura umana che emerge dalla fede cristiana: l’etica coerente con la visione buddista, per cui l’io di fatto non esiste e liberarsi della sua illusione è un vantaggio, implica che la compassione sia un radicale distacco, una separazione non solo da sé ma tra sé e l’altro. Siamo all’opposto estremo della carità cristiana che piange con chi piange, gioisce con chi gioisce, dà la vita per l’altro fino all’estremo sacrificio.
Intendiamoci, la tradizione buddista ha un’enorme dignità; la spiritualità orientale in senso lato ha tanto da offrire all’uomo tutto, anche l’occidentale naturalmente; ma attenzione a non infilarci senza alcuna protezione in intricati gineprai lasciandoci così strappare dai rami più spinosi ciò che di più caro abbiamo nel nostro patrimonio di fede.
Di fatto non si può contestare ad una tradizione che non ha conosciuto la catastrofe dell’incarnazione di credere che tutto sia caduco e finito. E’ solo con Cristo che la corsa folle della corruzione viene interrotta e invertita. E il distacco dalle cose che ci chiede la nostra fede non è per amara disillusione, ma è per lo svelamento sulle realtà ancora più vere cui esse alludono, da cui sono sorrette.
Il fenomeno della mindfulness risponde, in modo inadeguato, ad un bisogno reale
La mia personale domanda, da quando mi sono imbattuta nel tema “pratiche meditative orientali” e relativa moda è: a che pro fare tanta strada quando non facciamo quella di scendere nelle nostre “cantine” a recuperare inestimabili tesori che la storia della Chiesa e dei suoi santi ci sta conservando integri da secoli?
Ma poiché questa tendenza è tanto diffusa abbiamo il dovere di misurarci con intelligenza e disponibilità, in un atteggiamento di vero dialogo: quello che non svende la propria identità al prezzo di una malintesa accoglienza. Ed è soprattutto la Chiesa stessa, con il suo ricco magistero (soprattutto nel documento Orationis formas), ad offrirci luce supplementare per comprendere sia i benefici apporti che possono venirci dalla spiritualità buddhista, sia soprattutto la profondità e la ricchezza dell’orazione cristiana. Come spesso accade, anche questa provocazione è per noi, popolo di credenti, occasione per riscoprire di quali gioielli preziosi sia composto il nostro tesoro spirituale.
La terza accezione: mindfulness come protocollo terapeutico
E’ la terza versione con la quale si intende la mindfulness quella che ci interroga di più poiché si è sviluppata proprio a contatto della e per adattarsi alla cultura occidentale, ma nella sua versione scristianizzata e secolarizzata. L’uomo che si è fatto carico per primo di adattare questa pratica (che solo pratica non è!) al mondo occidentale è stato Jon Kabat-Zinn, biologo americano di origini ebraiche per anni discepolo di Thich Nhat Hanh.
Il protocollo MSBSR, Mindfullness-Based Stress Reduction
Si tratta di un laboratorio di otto settimane, con lezioni settimanali di due ore, giornate di ritiro, esercitazioni a casa (almeno 45 minuti di meditazione quotidiana è la dose consigliata per sei giorni la settimana) e addestramento su tre tecniche: meditazione mindfulness, body scanning (ovvero passare in rassegna con la concentrazione ogni singolo membro del nostro corpo) e posizioni yogiche basilari. Lo scopo della formalizzazione di questo protocollo è di riproporre gli ingredienti della meditazione buddhista in una forma che sembri neutrale, senza che si intuisca la ricetta finale.
Così presentata, la mindfulness, mostra già la sua metamorfosi alla occidentale, divenendo almeno nella sua proposta più superficiale, un prodotto-servizio che ha lo scopo di perseguire benessere piscofisico. Siamo di fatto sul piano della customer experience: metti in atto questo sistema e ti sentirai meglio. Lo stress si abbasserà, le difese immunitarie si alzeranno, l’ansia scenderà a livelli normali, etc…
Spiritualità senza religione?
La religione sembra sparita da questo orizzonte. Ma se invece si fosse semplicemente adattata al nostro orizzonte dominante, quello per cui è oggetto di credo diffuso il ritenerci materiali, finiti, senza nessun rimando al trascendente? La dittatura del relativisimo e della reificazione dell’uomo stesso ha in sé una grande forza religiosa, pur nella sua perversione. Ma questa è una mia considerazione, anche un po’ frettolosa.
Lost in traslation?
Iadarola procede con estrema cautela e con grande rispetto in questo confronto con il buddhismo: e dalla sua analisi emerge che è proprio la sua profonda spiritualità ad essere offesa e deformata in questa non innocua traduzione. Passare la mindfulness nella cultura occidentale, consumistica, produttiva, concentrata sulla performance, workaholic, significa intossicarla degli stessi veleni o meglio asservirla agli scopi di questa mentalità: se sei meno stressato, se non hai attese circa il senso ultimo della vita, se vivi ogni inciampo o sofferenza con serafico disincanto, se non hai legami e affetti, allora sei più libero per la grande, continua produzione, alternata al consumo.
Un lasciapassare insidioso
Munita di questa sorta di badge la mindfullness riesce ad entrare in moltissime istituzioni, scuole, aziende, ospedali dove rientra nel novero delle medicine integrative, per esempio. Se si fosse presentata come meditazione anziché come “clinica per la riduzione dello stress”, secondo lo stesso Jon Kabat-Zinn, non avrebbe fatto molta strada.
Ma questa veste è quasi un capospalla, che si lascia in custodia alla guardarobiera una volta entrati. Sotto questo cappotto, resta l’abito che è squisitamente religioso e specificamente buddista.
Così fa notare l’autore a pagina 29, ragionando sull’andamento del fenomeno anche in Italia:
Se da una parte, nelle presentazioni del testo e del suo contenuto quali è possibile riscontrare nei numerosi eventi e conferenze che ormai si dedicano al tema, la mindfulness continua a essere presentata come una forma di meditazione “laica”, secolarizzata e non-religiosa, dall’altra i riferimenti al buddhismo al suo interno sono evidenti e numerosi (…).
E come si giustifica il principale “importatore” della pratica? Come accetta questa spoliazione anche solo apparente delle radici buddhiste della mindfulness?
Con l’assunto che nemmeno il Buddha era buddista.
La mindfulness non è da dirsi buddhista non perché non sia espressione della dottrina e della pratica buddhista ma perché lo stesso “Buddha non è buddhista”. Il Buddha storico infatti, viene paragonato a uno scienziato che ha scoperto leggi fondamentali della realtà e ha costruito delle tecniche a partire da queste leggi: “le conoscenze che raggiunse hanno col tempo dimostrato di essere universali, come lo possono essere le grandi scoperte scientifiche, come le leggi della termodinamica e quella della gravità”. (Ibidem, p. 30)
Mindfulness cristiana: è possibile e, soprattutto, ci serve davvero?
E’ l’essenza stessa della nostra fede e della Chiesa ad aprirci a tutte le culture e a tutti i popoli: esser cattolici è essere universali, interi, compiuti. E ovunque c’è traccia di verità la Chiesa, con il suo magistero materno, ci aiuta a riconoscerla e ad apprezzarla.
Il cristianesimo ha da sempre colto la sfida di “conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che ci si trovano nascosti”, secondo l’esortazione dell’Apostolo:
“Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono (1 Ts 5,21).
Il senso del vaglio è non solo in ciò che si tiene ma anche in ciò che si lascia, che si scarta.
La Chiesa e il giudizio su queste pratiche: Orationis formas
Il setaccio con il quale la Chiesa ci aiuta a separare i semi buoni da parti non nutritive è un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, pubblicato nel 1989. La Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana (nota come Orationis formas), intende fornirci gli strumenti per riconoscere una preghiera genuinamente cristiana e quindi per diffidare di ciò che può deviarla o impoverirla.
Rischi da evitare: pseudognosi e messalianismo
Da subito la riflessione si concentra sui metodi di meditazione orientale e sulla tendenza sempre più diffusa a rivolgersi ad essi per una giusta sete di silenzio, quiete, raccoglimento o per ritrovare profondità e senso di efficacia nella nostra preghiera di cristiani che forse è andata impoverendosi. Ma proprio come cristiani dobbiamo sapere che con le tecniche di meditazione orientale si corrono due rischi: quello della pseudognosi e quello del messalianismo: il primo che sacrifica la fede a favore di una supposta conoscenza superiore, il secondo che identifica l’esperienza religiosa con la percezione psicologica della presenza del divino.
L’Incarnazione deve restare il centro
Entrambe le tendenze sacrificano l’aspetto fondante della nostra fede: l’incarnazione di Cristo e la relazione con Lui presente, qui e ora, misteriosamente e soprattutto sacramentalmente. Non appena subodoriamo che il fatto dell’Incarnazione possa venire ridotto a esempio, fase, metafora, conviene rizzare le antenne e girare i tacchi.
La radicale, irriducibile differenza tra la preghiera cristiana e altre forme di meditazione è che lo scopo e la dimensione della prima sono di mettersi e stare alla Sua presenza, mentre quelli delle seconde sono per un’esperienza di quiete fine a sè stessa. Attingiamo ai grandi mistici che il Carmelo ha partorito alla Chiesa. Così S. Giovanni della Croce:
Infatti conviene ricordare che scopo della meditazione e del discorso sulle verità divine è quello di ricavare una qualche notizia e un po’ d’amore di Dio. Ogni volta che l’anima, meditando, ricava tale frutto, si compie un atto. Come in ogni altro campo, molti atti vengono a generare nell’anima un abito, così come atti di notizie amorose(…) fanno sì che in lei (nell’anima) si generi un abito (…). E’ necessaria al contemplativo questa notizia e avvertenza amorosa in generale di Dio, qualora egli debba abbandonare la via della meditazione e del discorso. Lasciando la meditazione, mediante la quale opera discorrendo con le potenze sensitive, ed essendo priva della contemplazione, cioè della notizia generale di cui sopra (…) ella resterebbe priva di qualsiasi atto nei confronti di Dio. (Salita al Monte Carmelo II 14, 4-6)
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I pensieri e i sentimenti non sono inutili
Ci sta dicendo che pensieri e sentimenti nella loro concreta passionalità, arricchiti dalla nostra immaginazione sono preziosi.
Ci dà persino un suggerimento tattico: vuoi parlare col Signore? Allora per aiutarti procurati un’immagine sacra “che vi faccia devozione”. Riabituiamoci a parlare, a conversare col Signore. Recuperiamo con l’abitudine e l’attenzione la confidenza persa in mille distrazioni.
La cosa che trovo esaltante nella sua chiarezza e commovente nella sua verità unica nel mondo e nella storia è che grazie ai misteri della Redenzione è proprio in noi che possiamo trovare l’Altro, il Signore e conversare con lui. Ciò che ci fa vivere come vagabondi, dispersi in occupazioni fiaccanti è che non torniamo a casa e non ritroviamo l’Ospite. Così ammonisce S. Teresa d’Avila nel suo Cammino di Perfezione:
Sì, dovete convincervi che nel nostro interno abbiamo veramente qualche cosa (alla lettera: “non immaginiamoci vuote“). E piaccia a Dio che siano soltanto le donne a ignorarlo. Se procurassimo di ricordarci spesso dell’Ospite che abbiamo in noi, sarebbe impossibile, secondo me, abbandonarci con tanta passione alle cose del mondo, perché, paragonate a quelle che portiamo in noi, apparirebbero in tutta la loro spregevolezza. (C 28,19)
Orazione cristiana vs minduflness: la somiglianza è solo superficiale
Solo quando si sarà interiorizzato fin nelle più intime fibre del proprio cuore e della proprio mente, con la grazia di Dio, lo sguardo su Cristo, ci si potrà permettere – affermano Teresa e Giovanni – di cominciare a tralasciare la meditazione discorsiva, a non badare più ai pensieri (senza mai pretendere di eliminarli) in una maniera analoga a quella descritta nella mindfulness. Ma ciò non implicherà in alcun modo che non si abbia più un oggetto fisso cui relazionarsi; ciò significherà che – per grazia e non per impegno umano – si è giunti a un livello tale di unione spirituale in cui il colloqui0 amoroso con Gesù è talmente interiorizzato e vivo da non necessitare più di essere alimentato da pie meditazioni. (Mindfulness. Un’opportunità per i cristiani? p.57)
Il silenzio e il distacco non sono per il vuoto ma per fare più spazio a Lui
Poiché l’orazione, in qualsiasi punto del cammino ci troviamo, è sempre “un intimo rapporto di amicizia, nel quale ci si intrattiene spesso da solo a solo con quel Dio da cui ci si sa amati” (S. Teresa d’Avila, citata nel CCC come definizione di preghiera contemplativa).
Il silenzio, il distacco che si possono raggiungere nella preghiera cristiana è dovuto ad un aumento di potenza attrattiva del nostro Oggetto e non alla deriva da noi stessi ottenuta a suon di presenza e attenzione non giudicante e distacco da sè fine a sè stesso. Noi siamo chiamati ad addentrarci non a disintegrare o rinnegare la percezione di unità del nostro io che sussiste, certo, perché lo vuole il Signore, ma Egli lo vuole e ci mantiene nell’essere, non gioca con noi i nostri sensi e le nostre facoltà come fossero elementi decorativi di sgargiante vacuità.
E’ come nell’amore umano, in grado minore. Quanto più ci si fa intimi, tanto meno serve parlare, spiegare, raccontare.
Orazione contemplativa e mindfulness, una finta parentela
Nella mindfulness avviene l’opposto: che l’oggetto di meditazione si fa sempre più evanescente e con esso persino il meditante. E si percepisce la vacuità e la corruttibilità del tutto.
Nella mindfulness, invece, più si procede nella pratica più l’oggetto della meditazione, qualsiasi esso sia, deve perdere importanza, deve essere riconosciuto “vuoto” (Ibidem)
Ciò che conta è la sola attenzione, la percezione, e nemmeno chi percepisce. Anzi, si sa come queste pratiche siano orientate alla dottrina dell’anattā, la illusorietà del tutto. Non c’è un io che percepisce ma un non-io.
Dio si aggira tra le pentole
Quella preziosa e tanto cara libertà di spirito che si riscontra nei perfetti, nella quale, veramente, si gode tutta la felicità che si può desiderare in questa vita. Chi ne é favorito non vuole nulla, e possiede tutto; (…). la (sua) pace dipende solo da Dio, da cui nessuno riuscirà a separarlo. (…) Oh, benedetta obbedienza! Felici le sue distrazioni, se così vantaggioso è quello che ne viene!(…) Coraggio quindi, figliole mie! Non affliggetevi se l’obbedienza v’impiegherà in opere esteriori! Anche se siete in cucina, il Signore si aggira tra le pentole per aiutarvi interiormente ed esteriormente: siatene persuase! (Fondazioni 5, 7-8) (Ibidem, p. 106)
E’ questa la pace di cui possiamo godere, quella che nasce dal raccogliersi in sé stessi e ritrovare Dio e, imparato a riconoscere il Suo timbro di voce, a rintracciarlo in ogni occupazione, persino i famosi piatti da lavare che al tempo dei conventi carmelitani di Teresa d’Avila erano anche pentole. Non importa quello che stiamo facendo perché ogni occupazione può essere il crocicchio al quale, miracolo!, incontreremo il Signore. E per questo incontro non esiste tecnica che possa supplire alla sovrabbondanza della Grazia. Il cristiano che medita e si raccoglie in sé stesso per contemplare Dio è semplicemente uno che va a passo svelto e senza troppe cianfrusaglie in tasca, ad un Appuntamento. Al buon Dio la cortesia di presentarsi.
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Da profana mi chiedo: ma come si può mai dimostrare ragionevolmente l’esistenza del non io? Forse, oltre all’ancoraggio empirico e alla prosaicità della vita, ci salva anche l’impianto di pensiero logico-razionale che ereditiamo dalla cultura greca, non lo so. Fatto sta che anche solo arrivati fino a qui sembra evidente che spendere tanta energia in un tentativo di conciliazione tra queste pratiche e la vita di fede di un cristiano sia un’impresa improba e con un rapporto costo benefici davvero scoraggiante.
A che pro gettarsi nell’elaborazione di una mindfulness cristiana, dovendosi invischiare nel ginepraio della McMindfulness, quando queste energie potrebbero essere molto più opportunamente spese per rivalorizzare e rendersi consapevoli dei tesori dimenticati della nostra tradizione? (Ibidem, p 107)
E per scoprire cosa si intenda per McMindfulness e approfondire la riflessione pacata ma serrata di Iadarola sui rischi di un’importazione acritica di queste tecniche non posso che invitarvi all’acquisto e alla lettura del libro.