Dignità della persona, pace, accoglienza e lavoro i temi ricorrenti nel documento emanato da FrancescoA lungo si parlerà di questa terza enciclica di Papa Francesco che è un po’ la summa del suo pensiero e del suo pontificato specialmente nel suo voler essere “costruttore di ponti”. Papa Francesco fin dall’inizio del suo ministero ha sempre cercato di essere pontiere nelle crisi, e ha sempre individuato nell’egoismo – personale e nazionale – il male da combattere. Per Francesco la conversione più importante è quella del cuore, che sappia aprirsi alla relazione con l’altro, immagine della disponibilità ad una relazione con l’Altro per eccellenza, Dio.
In questo documento sono numerosi i riferimenti “politici“, quelli che nel tempo egli ha rivolto nelle occasioni pubbliche, nei discorsi ai diplomatici, ai capi di Stato e di governo, ai rappresentati del popolo nelle loro assemblee. Il richiamo è sempre quello di sviluppare i rapporti di amicizia tra le nazioni. Ma in cosa consiste questa amicizia?
Francesco in “Fratelli tutti” indica alcune sfide essenziali. I rapporti di apertura verso il mondo da parte dei popoli e delle nazioni, l’amore per il proprio paese e la propria cultura, il primato della politica sull’economia come unico mezzo per il bene comune, il rifiuto della cultura della guerra e della morte. Questa enciclica ha il cuore cristiano, si fonda sulla parabola del Buon Samaritano, e sull’esempio eccelso di San Francesco d’Assisi a cui non è solo dedicata, ma da cui promana, ma ha una destinazione realmente universale. Questa enciclica non è (solo) per i cristiani, non è (solo) per i credenti in generale (citati leader religiosi come il Patriarca Bartolomeo o il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb), ma per tutti gli uomini di buona volontà.
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Date queste coordinate andiamo a vedere nel concreto cosa dice su questi argomenti così essenziali, specie alla luce di una progressiva crisi della democrazia laddove è nata, in Occidente, così mortificato proprio dai mali quali l’utilitarismo, l’economicismo, l’egoismo e la paura.
La centralità della politica
Se l’oggetto dell’enciclica è la fraternità, essa – per il cristiano e per i volenterosi – non può che avere due assi principali, che si tengono tra loro ma hanno magnitudine e obbiettivi diversi: l’amore gli uni per gli altri, la solidarietà e l’accoglienza da un lato e la politica dall’altro. Se una ha una dimensione morale inerente il comportamento personale (il Buon Samaritano), l’altra ha come focus l’impegno nella società e nelle istituzioni per assumere sulle proprie spalle l’onere del buon funzionamento e della buona organizzazione della società nel suo complesso,
Ne consegue che è «un atto di carità altrettanto indispensabile l’impegno finalizzato ad organizzare e strutturare la società in modo che il prossimo non abbia a trovarsi nella miseria» (186).
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Nel capitolo quinto dell’enciclica il Papa ribadisce e rende ancora più chiaro un aspetto centrale della sua “teologia politica”, un pensiero che tra l’altro andrà recepito come bene comune della Chiesa, a proposito della centralità del popolo nella definizione del bene comune, distinguendolo dal populismo – sinonimo di demagogia – e parandolo contro l’opposto di quest’ultimo, il (neo)liberalismo. Se il populismo è una deformazione della parola “popolo”, che suggerisce identità chiuse, in cui si risponde alle esigenze vere e reali del popolo con interventi spot che pensano solo agli interessi immediati e al consenso, il liberalismo è qui quella tendenza al pensare alla società esclusivamente come una “somma di interessi che coesistono”, il cui unico interesse è l’individuo deprivato del suo contesto (di famiglia, lingua, abitudini e soprattutto storia).
La pretesa di porre il populismo come chiave di lettura della realtà sociale contiene un altro punto debole: il fatto che ignora la legittimità della nozione di popolo. Il tentativo di far sparire dal linguaggio tale categoria potrebbe portare a eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”). Ciò nonostante, per affermare che la società è più della mera somma degli individui, è necessario il termine “popolo”. La realtà è che ci sono fenomeni sociali che strutturano le maggioranze, ci sono mega-tendenze e aspirazioni comunitarie; inoltre, si può pensare a obiettivi comuni, al di là delle differenze, per attuare insieme un progetto condiviso; infine, è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo. Tutto ciò trova espressione nel sostantivo “popolo” e nell’aggettivo “popolare”. Se non li si includesse – insieme ad una solida critica della demagogia – si rinuncerebbe a un aspetto fondamentale della realtà sociale.
Esiste infatti un malinteso. «Popolo non è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono, o nel senso che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica […] Quando spieghi che cos’è un popolo usi categorie logiche perché lo devi spiegare: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile… verso un progetto comune» (157-158)
i liberali invece
Parlano di rispetto per le libertà, ma senza la radice di una narrativa comune. In certi contesti, è frequente l’accusa di populismo verso tutti coloro che difendono i diritti dei più deboli della società. Per queste visioni, la categoria di popolo è una mitizzazione di qualcosa che in realtà non esiste. Tuttavia, qui si crea una polarizzazione non necessaria, poiché né quella di popolo né quella di prossimo sono categorie puramente mitiche o romantiche, tali da escludere o disprezzare l’organizzazione sociale, la scienza e le istituzioni della società civile (163).
La soluzione per una società libera, che dà veri frutti e che è capace di armonizzare tutte le sue componenti è ridare centralità al lavoro e alla dignità che esso rappresenta. Il lavoro per Francesco non è solo un mezzo per ottenere il pane, ma una via per lo sviluppo della persona e il mezzo con cui sviluppare sani rapporti interpersonali. La società si nutre di relazioni. Non l’assistenzialismo dunque, ma la piena realizzazione di sè. Ma questo è un compito che non può essere affidato al mercato che ha altre logiche,
Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti. Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del “traboccamento” o del “gocciolamento” – senza nominarla – come unica via per risolvere i problemi sociali. Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’inequità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale. Da una parte è indispensabile una politica economica attiva, orientata a «promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale», perché sia possibile aumentare i posti di lavoro invece di ridurli. La speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fare strage. D’altra parte, «senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare».141 La fine della storia non è stata tale, e le ricette dogmatiche della teoria economica imperante hanno dimostrato di non essere infallibili (168).
Per il Papa questo è un punto dirimente: «la politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia», il mondo ha visto come la crisi del 2007-8 causata da una economia rapace e senza regole, non ha prodotto nuove regole, nuovi limiti e un coordinamento delle nazioni perché questo non accada più, come purtroppo non stiamo assistendo a nuovi slanci di cooperazione e amicizia in questa nuova crisi causata dal Covid, che ha mostrato in modo lampante che la società nel suo complesso non sta funzionando nel modo migliore, se non per una manciata di privilegiati. Da un lato la crisi economica provocata dal virus ha mostrato lo smantellamento del welfare in molti paesi (in primis quello sanitario), dall’altro la corsa al vaccino (per produrlo o accaparrarselo) non si è svolta come una cooperazione, ma come una competizione.
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La riforma dell’ONU
Da qui la richiesta, la profezia quasi, di una revisione del funzionamento degli organismi internazionali a cui sono dedicati cinque paragrafi ed in particolare il numero 173
In questa prospettiva, ricordo che è necessaria una riforma «sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni». Senza dubbio ciò presuppone limiti giuridici precisi, per evitare che si tratti di un’autorità cooptata solo da alcuni Paesi e, nello stesso tempo, impedire imposizioni culturali o la riduzione delle libertà essenziali delle nazioni più deboli a causa di differenze ideologiche. Infatti, «quella internazionale è una comunità giuridica fondata sulla sovranità di ogni Stato membro, senza vincoli di subordinazione che ne neghino o ne limitino l’indipendenza». Ma «il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. […] Bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale». Occorre evitare che questa Organizzazione sia delegittimata, perché i suoi problemi e le sue carenze possono essere affrontati e risolti congiuntamente.
Il Papa non evoca alcun governo mondiale, ma un luogo in cui gli interessi e le aspirazioni delle nazioni si raccolgano e si armonizzino. Un luogo in cui parlare invece di farsi le guerre, in cui comporre i contrasti e lanciare iniziative comuni per la lotta alle epidemie, alla povertà, alla tratta degli esseri umani. E’ questo che si evince dal contesto dell’intero documento, c’è una urgenza nelle parole di Francesco che davvero evocano la profezia. Del resto da anni il Papa parla di “terza guerra mondiale a pezzi”, fatta sia con le armi che con l’economia. L’instabilità e la sofferenza sono aumentate in questi ultimi venti-trent’anni, ed è un fatto che non va sottovalutato, anche perché il Papa è l’unica autorità mondiale a richiamare l’attenzione con costanza la comunità internazionale circa questi pericoli.
Siamo ancora lontani da una globalizzazione dei diritti umani più essenziali. Perciò la politica mondiale non può tralasciare di porre tra i suoi obiettivi principali e irrinunciabili quello di eliminare effettivamente la fame. Infatti, «quando la speculazione finanziaria condiziona il prezzo degli alimenti trattandoli come una merce qualsiasi, milioni di persone soffrono e muoiono di fame. Dall’altra parte si scartano tonnellate di alimenti. Ciò costituisce un vero scandalo. La fame è criminale, l’alimentazione è un diritto inalienabile (188)
La globalizzazione dei diritti umani sono un richiamo forte nell’enciclica.
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Contro la cultura della vendetta
Ne consegue che il diritto più importante non può che essere quello alla vita: la soluzione ad un torto non può essere la morte. Il Papa indica nella guerra e nella pena di morte due (false) soluzioni che mai più, nell’epoca di oggi, possono essere considerate lecite per l’umanità
Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male. Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come “danni collaterali”. Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi, a quanti hanno subito le radiazioni atomiche o gli attacchi chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o privati della loro infanzia. Consideriamo la verità di queste vittime della violenza, guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace (261)
e – dopo aver cambiato in questo senso il Catechismo della Chiesa cattolica – il Papa ribadisce quello che gli viene consegnato dai suoi predecessori nell’ambito sia della pena di morte
C’è un altro modo di eliminare l’altro, non destinato ai Paesi ma alle persone. È la pena di morte. San Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera chiara e ferma che essa è inadeguata sul piano morale e non è più necessaria sul piano penale. Non è possibile pensare a fare passi indietro rispetto a questa posizione. Oggi affermiamo con chiarezza che «la pena di morte è inammissibile» e la Chiesa si impegna con determinazione a proporre che sia abolita in tutto il mondo (263)
Fin dai primi secoli della Chiesa, alcuni si mostrarono chiaramente contrari alla pena capitale. Ad esempio, Lattanzio sosteneva che «non va fatta alcuna distinzione: sempre sarà un crimine uccidere un uomo». Papa Nicola I esortava: «Sforzatevi di liberare dalla pena di morte non solo ciascuno degli innocenti, ma anche tutti i colpevoli». In occasione del giudizio contro alcuni omicidi che avevano assassinato dei sacerdoti, Sant’Agostino chiese al giudice di non togliere la vita agli assassini, e lo giustificava in questo modo: «Non che vogliamo con ciò impedire che si tolga a individui scellerati la libertà di commettere delitti, ma desideriamo che allo scopo basti che, lasciandoli in vita e senza mutilarli in alcuna parte del corpo, applicando le leggi repressive siano distolti dalla loro insana agitazione per esser ricondotti a una vita sana e, tranquilla, o che, sottratti alle loro opere malvage, siano occupati in qualche lavoro utile. Anche questa è bensì una condanna, ma chi non capirebbe che si tratta più di un benefizio che di un supplizio, dal momento che non è lasciato campo libero all’audacia della ferocia né si sottrae la medicina del pentimento? […] Sdegnati contro l’iniquità in modo però da non dimenticare l’umanità; non sfogare la voluttà della vendetta contro le atrocità dei peccatori, ma rivolgi la volontà a curarne le ferite» (265).
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che in quello della guerra, non più definibile come giusta
Come diceva San Giovanni XXIII, «riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia» (260)
E mette in guardia la società dal cedere a “paure e i rancori [che] facilmente portano a intendere le pene in modo vendicativo, quando non crudele, invece di considerarle come parte di un processo di guarigione e di reinserimento sociale”.
Oggi, «tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incita talvolta alla violenza e alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge. […] C’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose (266).
Chi ha in se stesso piena coscienza della propria identità e della propria fede non può avere mai timore del confronto, chi è radicato nella storia del proprio popolo e della propria cultura non ha da temere nell’incontro con l’altro, chiunque esso sia, qualunque storia si porti alle spalle. Superare il timore dello straniero, del diverso, del nemico e riscoprire in esso il fratello, che ha la stessa nostra dignità in quanto figlio di Dio è l’appello che il Papa lancia a tutta la comunità: cattolica, cristiana, dei credenti, dei pensanti…