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I nostri figli, la scuola e il problema (sbagliato) dell’autostima

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Paola Belletti - pubblicato il 21/09/20
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Una riflessione tutt’altro che scontata sull’azione educativa e sul valore dell’amore. Che supera di molte lunghezze il problema dell’autostima; i nostri figli (come anche noi) diventano sempre più capaci e intelligenti se ciò che prevale è la gratitudine per il loro esserci e per il loro esserci così come sono. Dentro questo orizzonte si può educare davvero.

Sguardi dall’ultimo banco

Era qualche tempo che non lo facevo, e facevo male. Ho letto questa mattina sulle pagine del CorSera Alessandro D’Avenia che risponde ad una mamma e riflette su un tema che tocca da vicino, anzi direi visceralmente, me e credo tanti genitori. Mamme soprattutto, che “di lavoro” sentono le cose direttamente nelle proprie viscere, quando si tratti dei loro propri figli. E fino ad età da definirsi.

Soffriamo, spesso, per gli sguardi: i nostri sul figlio, quelli degli insegnanti, quelli dei coetanei, il loro sguardo su loro stessi.

Ma dovremmo aggiungerne altri, invece, e sarebbe come accendere il sole in un labirinto di stanze per le quali ci si era mossi solo con delle torce tremolanti in mano.

Che sguardo ho io, mamma, su me stessa? Come guardo alla mia vita, prima che a quella di mio figlio? E quali occhi si posano davvero su di lui, su di lei, amandolo radicalmente, dal profondo e in via definitiva?

Il vero pericolo per un figlio e per un genitore non è sbagliare

Ora vi racconto però che cosa ho letto e che cosa ho preso a mio beneficio e spero anche a quello dei miei figli scorrendo con gli occhi il testo di D’Avenia: che guarda, come mi pare faccia spesso, con tre differenti sguardi: da studente (ricordando la propria esperienza), da scrittore e da insegnante. Ma presume anche un altro punto di osservazione e un altro paio d’occhi, credo. Ora che ho fatto girare la testa anche a voi con questo gioco di specchi vi riporto alle sue parole (grassetti nostri, Ndr):

Qualche giorno fa ho ricevuto queste righe amare: «Sono continuamente in autoanalisi del mio probabile “fallimento di madre” ma voglio aggiungere che se un figlio non ha un’intelligenza superiore a cui si aggiunge l’irrequietezza adolescenziale o di indole, viene classificato come “pecora nera” e il favore più grande che può fare alla scuola è ritirarsi. Risultato: l’autostima, nascosta dall’atteggiamento “niente mi tocca”, se ne va, lasciando spazio a “a scuola non vado più”. Spero che qualcuno possa aiutarlo e dirgli “bravo, dai che ce la puoi fare”, una piccola frase che ti fa sentire qualcuno e ti porta ad avere interesse verso qualcosa, a incanalare un talento (tutti lo abbiamo). Vorrei urlare: “Anche mio figlio è meraviglioso, ma non ha più voglia”, perché scoraggiato e forse umiliato. Avrei bisogno di una parola di incoraggiamento». (Ultimo banco, lunedì 21 settembre 2020)



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Oppresse dalla paura di fallire come madri. Ma chi ha parlato di una “riuscita”?

Leggendo le parole di questa mamma mi sono sentita profondamente dalla sua parte, ho percepito anche il suo combattimento. Quello per cui a lei per prima viene voglia di dire “a scuola – o alla gare di bravura come madre! –  non vado più”. Ma anche quella per cui sente che il suo dire “sei bravo, dai che ce la puoi fare” non arriva al cuore del suo ragazzo: proprio perché lo dice lei, che è solo la mamma.

E’ tutta protesa al figlio e al desiderio che non soffra troppo, e alla sete che gli altri, la scuola in particolare (ma basterebbero un paio di insegnanti, forse anche uno solo) portino a quel figlio adolescente e ribelle il messaggio che lui, proprio lui, è una persona meravigliosa.

Persino se lo pensa la sua mamma. Per questo l’inizio della risposta di D’Avenia mi ha spiazzato. E bene così; poiché è un uomo, un insegnante e i ragazzi li vede e li osserva da attore impegnato con la stessa opera e non da spettatore, e proprio nell’ambiente in cui sono spesso radicalmente diversi da come li vediamo noi genitori a casa.

Non dobbiamo temere il fallimento. Dobbiamo esserne certi!

E la prima cosa che dice è una critica o meglio la segnalazione di un rischio che riscontra proprio nei papà e nelle mamme:

Dal mio osservatorio professionale, posso dire che, influenzati da un’idea di felicità come successo e assenza di cadute, tanti padri e tante madri faticano a capire che «fallire», o più semplicemente fare errori, non solo è normale ma è persino auspicabile.

Sto pensando che la prima a parlare di possibile fallimento in quell’accorato messaggio è proprio la mamma e parla di sé, del suo proprio fallimento, non di quello del figlio. Per cui quel tipo di sguardo, fossi in lei, una volta letta la risposta di D’Avenia, lo eserciterei su me stessa: non avere paura di fallire, cara mamma, o meglio: sii certa dell’eventualità delle tue cadute, tante, diverse o sempre quelle. Non è quello il fatto centrale che ti definisce come mamma. O meglio ancora: non hai bisogno di passare l’esame di “brava madre”, di “madre riuscita” per sentirti nel giusto; non applicare a te ciò che temi venga applicato a tuo figlio: una perenne valutazione di prestazioni. Siamo uomini, donne, figli, padri, qua poco importa: e non ci si misura a punteggi da test con le crocette.

Fallire libera: i figli e noi genitori

Ecco subito la declinazione del tema fallimento non solo come elemento presente nella vita dei figli, ma addirittura come enzima indispensabile perché determinate reazioni vitali avvengano:

I figli, disattendendo aspettative e desideri dei genitori: da un lato diventano liberi, cioè imparano che le loro scelte hanno conseguenze reali; dall’altro ci rendono liberi, perché solo così possiamo amarli veramente, cioè non per quello che hanno e fanno (per noi), ma perché ci sono.

Più autocompassione che autostima

Ecco un passaggio fondamentale e solo apparentemente paradossale: per aumentare l’autostima di una persona, di un ragazzo soprattutto, occorre che dell’autostima, cioè di quanto lui si valuti capace, non ci importi pressoché nulla. Non serve più autostima, serve vera inossidabile autocompassione, amore di sé per il semplice e inaudito fatto che ci siamo e siamo fatti in questo modo. Così almeno la definisce la psicologia in uno dei suoi risultati più significativi sul tema:

Ancora una volta nelle pagine del Vangelo possiamo trovare lo sguardo che davvero ci fa sentire bene. Dentro il comando del Signore che dice «Ama il prossimo tuo come te stesso». Dice ama, non stima.

I più recenti e validi avanzamenti in ambito psicologico (vedi Baker e McNulty, 2011; Neff e Vonk 2009, citati da Emiliano Lambiase in Autostima e auto-compassione. Due modi diversi di relazionarsi con se stessi ) convalidano anche dal punto di vista teorico e clinico proprio questo sguardo. Non dobbiamo in realtà stupircene troppo, ma piuttosto essere grati di queste conferme all’antropologia cristiana guadagnate dall’intelligenza umana e dalla ricerca scientifica.

Alcuni studiosi stanno proponendo come costrutto alternativo verso il quale orientarsi per promuovere il benessere vero delle persone non più l’autostima ma piuttosto l’auto-compassione.

Perché tu vali, sempre

Ed eccolo il segreto. Per una crescita armoniosa, per una vita adulta soddisfacente, sia che siamo genitori, insegnanti, presidi, persone che si occupano delle pulizie o di fissione nucleare: sapersi amati e avere di questo sguardo una percezione pressoché costante e inattaccabile dagli eventi esterni.

Niente porta un ragazzo a migliorarsi più di sentirsi amato per come è e niente lo spinge a scoraggiarsi più di sentirsi amato per quello che dovrebbe essere. Non sto parlando di un amore che smette di educare, quello non è amore ma un comodo tradimento, parlo di una chiara presa di posizione: uno sguardo che diventa profetico perché, anche se sente le spine, sa che «oltre» c’è la rosa.

Vuoi aiutare tuo figlio? Coltiva la speranza per la tua vita

I genitori possono scoprire risorse creative sorprendenti se coltivano la speranza innanzitutto in se stessi e poi si concentrano sulle qualità dei figli più che sui loro problemi. Così si spezza il circolo vizioso del senso di fallimento che viene poi proiettato sugli altri, spesso gli insegnanti, ritenuti «colpevoli» dell’insuccesso. Solo se un genitore coltiva uno sguardo pieno di fiducia e di futuro vedrà i punti di forza del figlio, fosse anche solo un aspetto molto piccolo su cui far leva. (Ibidem)

Più dei “Patti di corresponsabilità” può una consegna carica di fiducia

Ciò che D’Avenia reclama come insegnante è quell’atto di consegna fiducioso che deve esserci tra famiglia e scuola, meglio tra lo sguardo di un papà e di una mamma e quello di un professore, almeno. Non c’entra quasi nulla con le risme di patti di corresponsabilità che ci dobbiamo leggere, completare e firmare da metà settembre per ogni figlio che rimetta piede fuori casa in un contesto educativo o comunque comunitario; quello assomiglia di più a liberarsi di un peso, questo chiede di condividere un orizzonte e attendersi che sotto questo cielo che ha ancora dell’ignoto si srotoli l’avventura dei nostri figli. Della quale né i più amorevoli dei genitori né i più carismatici degli insegnanti sono padroni o artefici. Ringraziamo di potervi assistere con stupore.

A quel punto potrà affidarlo agli insegnanti, indicando loro il punto archimedeo di crescita e l’insegnante si sentirà spinto a guardare allo stesso modo, «personale» e non solo «prestazionale». (Ibidem)

Però così significa che ci risiamo, care madri perennemente in ansia (presente!), cari padri che lo siete meno e dissimulate molto meglio: tanto –  non tutto però!- dipende da come guardiamo i nostri figli. La luce che proietteremo su di loro avrà un effetto alone sugli altri, sugli insegnanti per primi. E se così non fosse avremo almeno consegnato loro una specie di gemma elfica, un Elendilmir  che gli brillerà tra le mani nei momenti di maggiore oscurità.


DON ELIO CESARI
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Educare è avere cura della vita intera

Ciò che segue è un canto all’alto e grave compito degli insegnanti, dei maestri veri. Ognuno di noi conta decine di eccezioni nella propria esperienza, ma si mentirebbe a non riconoscere nella scuola statale soprattutto una tendenza a parcellizzare lo studente, a schiacciarlo proprio sulle prestazioni misurate con scale rigide. A staccarsi dalla sua interezza come persona.

Fare l’insegnante richiede infatti, per professione (è un requisito imprescindibile), prendersi cura della vita integrale, conoscere il punto di accensione dei ragazzi, perché anche il cervello, altrimenti, rimane spento.

L’inefficacia e i danni di una visione che fa coincidere l’intelligenza con gli standard del quoziente intellettivo, per fortuna, sta diventando sempre più evidente. L’intelligenza non è una prigione biologica, ma qualcosa che si fa, un’interazione di genoma, Dna, ed epigenoma, la plasticità del cervello attivata dall’ambiente (le relazioni con persone e cose). L’epigenoma agisce sul genoma in modo sistemico sin dal grembo materno e questo rende unico, in ciascuno, il modo di incontrare la realtà. E ci sono tappe in cui questo è essenziale per il futuro: prima infanzia e adolescenza. (Ibidem)

Né barattoli da riempire, né macchine da cronometrare

Non è una malattia l’adolescenza ma è un’eruzione vulcanica in grado di creare nuove isole, laghi, alture. Niente è così innovativo come una persona che diventi sé stessa, che conquisti la propria identità e che decida di spendere i propri talenti per il bene del mondo. Niente di meno.

 

Che cos’è allora l’educazione? Se non è riversare contenuti in contenitori pressoché vuoti e se non è nemmeno ottenere performance da poter misurare e premiare da un motore di un’auto standard? Che cos’è davvero l’educazione? Domanda sbagliata: chi sono, piuttosto, ci si dovrebbe domandare, l’educazione.

È inefficace infatti una didattica che riduce l’apprendimento alla somma di istruzione (ciò che da fuori il maestro mette dentro lo studente) e prestazione (ciò che da dentro lo studente tira fuori perché la verifica). Questa è solo una parte, e non la più importante, dell’intelligenza. Ciò che più conta, la biologia integrata di genoma ed epigenoma lo dimostra, è il movimento «da dentro a dentro» (come lo studente riesce a far suo ciò che il maestro ha già fatto suo). Questo passaggio richiede un canale relazionale aperto in cui ciascuno fa la sua parte, come la striscia abrasiva con il fiammifero: il maestro innesca e lo studente si accende. (Ibidem)


Alessandro D'Avenia
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Lasciamoci fallire, ma senza pensarci troppo

Quando il mio insegnante delle superiori mi diede un libro, dicendomi: «È il mio libro di poesie preferito, fra due settimane lo rivoglio indietro», diventai più intelligente in 14 giorni. Un ragazzo non è intelligente una volta per tutte, ma lo diventa grazie ad attivazioni relazionali e di senso. Altrimenti il suo cervello rimane spento: non è «scemo» o «limitato», semplicemente non è stato «contattato». (Ibidem)

Un pensiero va a tutti i genitori dei cosiddetti (ma perché poi li “diciamo” così? Già questo è così tanto riduttivo, Ndr) BES, bisogni educativi speciali, DSA, Disturbi Specifici dell’Apprendimento, H, handicap. Ho in mente il dolore caratteristico che proviamo in sala d’attesa mentre ai nostri bambini o ragazzi vengono somministrati i test.

Per quanto sia utile circoscrivere un certo disturbo, dare un nome alla difficoltà, ciò che opprime non è tanto la nostra resistenza psicologica. Non è il non voler accettare diversità che – diciamolo – spessissimo siamo i primi a riconoscere. E’ vederli misurati, è saperli giudicati in base a delle griglie, filtrati da prospettive standardizzate.

I professionisti in gamba in questo ambito si distinguono proprio perché guardano ciascuno per quello che è, diverso dalle centinaia di casi già visti e valutati. Questi, di solito, sono i veri esperti: abituati alla continua novità e alla irriducibile diversità di ognuno. E alla sua libertà di cambiare, crescere, stupire.

Il privilegio degli educatori

Per questo immagino che pur nelle condizioni più ardue e scoraggianti i veri insegnanti siano degli avventurieri, degli audaci esploratori. Cosa c’è di più esaltante che inoltrarsi in un territorio che sfugge ancora a tutti gli aggiornamenti Google Maps e affini? Cosa c’è di più premiante che assistere alla formazione, alla fioritura, all’esplosione a volte, di persone nuove? Dei privilegiati, sono. Misconosciuti, poco premiati, demotivati in tante maniere. Eppure hanno a che fare con nuclei di materiale incandescente. Non c’è niente di più nuovo di una persona, di un ragazzo, una ragazza, persino il più dimesso e accartocciato su se stesso; niente è più originale del suo modo di abitare e guardare il mondo.

Lo racconta benissimo, in «A mente accesa», Daniela Lucangeli che, proprio aiutando sul campo i ragazzi in difficoltà, è diventata un punto di riferimento della comunità scientifica: raramente trovo testa e cuore così uniti e sono le persone da cui imparo di più. Non serve sentirsi falliti e in colpa, perché ci toglie energie da impegnare creativamente. Ogni bambino o ragazzo, anche il più fragile, ha un modo unico di «accendersi». Sta a noi trovarlo e innescarlo, lui farà il resto. (Ibidem)