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Brucia l’idolo della madre perfetta e della ribelle solitaria, resta una scintilla nelle anime

LITTLE FIRES EVERYWHERE
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Annalisa Teggi - pubblicato il 05/08/20
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L’incendio al centro della serie Little Fires Everywhere fa piazza pulita di una vita fondata sull’apparenza. Due madri, due vite opposte, nessuna anima candida e lo struggente bisogno che le nostre colpe non ci riducano in cenere.

Si può avere un grande incendio nella propria anima, eppure nessuno è mai venuto a scaldarsi. I passanti vedono solo un filo di fumo dal camino e continuano sulla loro strada. – Vincent Van Gogh

«Abbiamo sbagliato, ma non siamo sbagliati» curioso e interessante che la verità di una storia sia pronunciata dal personaggio meno probabile, nel caso specifico un adolescente belloccio e impegnato a collezionare più ragazze possibili da portarsi a letto. Ma chi di noi potrebbe mai sentirsi adeguato a esprimere della verità? Accadono invece momenti di fulminea consapevolezza in cui l’anima più sbandata urla un bisogno sincero, anche se non sa a chi rivolgere quel grido. Appicchiamo fuochi come messaggi di salvataggio e finiamo per essere vittime di quell’incendio.

Ho finito di vedere la prima stagione della serie Little Fires Everywhere (Piccoli fuochi ovunque) e ne applaudo l’onestà narrativa, l’intensità di proporre punti di vista opposti e irrisolti senza ridurli, la brutale amarezza di dipingere un deserto umano che reclama l’acqua della misericordia, senza saperlo.


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Tutto è incentrato sulla maternità, dalla sua apparenza più rassicurante fino ai drammi più sconcertanti. A visione ultimata restano addosso tante domande. Quanto siamo schiave della nevrosi di essere madri perfette? Resta madre chi abbandona un figlio? I figli sono un possesso? Siamo davvero sicure che fare tutto da sole sia una forza?

Tutto è lecito, niente soddisfa

Una bellissima casa va a fuoco, in un quartiere impeccabile in cui se l’erba del giardino supera il limite di 15 cm arriva subito una multa. Così comincia Little Fires Everywhere, con un incendio che distrugge tutta l’apparente perfezione della famiglia Richardson, due genitori ricchi e belli con 4 figli. Scoprire l’innesco di quel fuoco è il percorso che si dipana di puntata in puntata.

Siamo in America, ma siamo anche a casa nosta: una comunità apparentemente libera, ma schiava di mille demoni interiori. Sarebbe più giusto dire che, fieri di esserci liberati dal vincolo con l’Assoluto, ci siamo chiusi da soli nelle prigioni dei nostri drammi. Il magma più incandescente è quello delle relazioni, stabili o occasionali patiscono tutte uno sguardo egocentrico che il ribelle chiama «faccio quello che voglio» e il superuomo osanna come «posso avere il controllo di tutto».

La città di Shaker, dove si svolge la vicenda, doveva essere un esperimento sociale all’avanguardia nella convivenza civile ma è un gran impasto di solitudine, disperazione, borghesia bigotta, emarginazione. La spazzattura non deve essere messa di fronte alle case, ma salta fuori lo stesso che la famiglia è un casino e non si regge sulle sole regole del bon ton. Con altrettanta onestà salta fuori che anche la donna più ribelle agli schemi è vittima della sua volontà orgogliosa. Tra quali misere certezze di orienta la vita, dunque? La famiglia tradizionale è applaudita dai benpensanti come un vecchio rudere; la sessualità è guidata da istinti momentanei e volubili eppure non è il regno spensierato che si vorrebbe. Di sicuro nessuno è felice in questa città-mondo.

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Va dato atto a chi ha scritto questa storia che sia riuscito, senza nessun moralismo, a far esplodere tante contraddizioni che ci toccano da vicino. Si sbatte a muso duro contro il paradosso per cui le donne che hanno lottato per la libertà di scelta restano fierissime di averlo fatto, eppure la telecamera non censura che se una ragazza minorenne va ad abortire vive un’esperienza di sofferenza solitaria che la traumatizza per sempre. Non meno forte è assistere alla consapevolezza di una donna che, portando una vita in grembo per nove mesi, si sente madre nonostante abbia firmato un contratto per vendere quel figlio ad altri.

Accanto ad adulti tanto volitivi quanto intimamente sbandati, crescono figli nelle cui tasche ci sarà sempre un preservativo ma angosciati perché non trovano nessuno a cui affidare il tormento e gli slanci del cuore. I legami diventano ancora più stringenti e forti lì dove manca la linfa di un amore capace di implorare perdono. Se l’uomo appartiene solo a se stesso, alle proprie paure o ai propri idoli cocciuti, impazzisce e riversa su chi gli sta attorno il peso che lo opprime. Senza una voce che ci libera, il fardello sulle spalle è solo nostro, confessa una delle protagoniste:

Il più delle volte, ciascuno merita più di una possibilità. Tutti facciamo cose di cui ci pentiamo di tanto in tanto. Dobbiamo semplicemente tenercele addosso.

Ecco il dramma: essere tutti insieme a vomitarci addosso il nostro male, perché abbiamo perso la via che porta al perdono … a quella che è ben più di una seconda chance, ma una vita nuova. Non potendo autoassolverci ci teniamo nascosto e incandescente il peso dei rimorsi.

Elena e Mia, così vicine così lontane

Ti dico un segreto. Molte volte i genitori non sono le persone migliori per vedere i figli chiaramente.

Helena Richardson – interpretata da una stratosferica Reese Whiterspoon – sarebbe pronta a uccidersi piuttosto che ammettere che una madre impegnata, impeccabile, sempre pronta a fare del suo meglio e inossidabilmente aggrappata «a ciò che è buono e giusto» possa crescere dei figli infelici. Bionda, energica, nevrotica, dolce, vendicativa, infelice, Elena domina la scena ed è l’idolo della madre perfetta con cui ciascuna di noi combatte. La si odia, la si compatisce e io l’ho amata molto. Perché non c’è cosa più sincera da ammettere: noi madri siamo vittime del nostro zelante bisogno di essere il bene incarnato per i nostri figli. Ma è la zattera di un’illusione che naufraga miserabilmente e finisce per tuffarsi nella furia della vendetta, e nell’autodistruzione.

Helena è bianca, bionda, ricca, sposata e con 4 figli; il suo esatto opposto è Mia Warren: madre single e nomade da una vita, ribelle artista afroamericana. Ma neppure l’icona della donna dalla volontà indomita che sfida il bigottismo è un’isola felice: la figlia Pearl chiederà conto alla madre Mia di una vita libertina condotta senza appartenere a niente e nessuno.

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Nessuna delle due donne al centro della serie è un’anima candida, e chi mai lo è? Proprio questo può essere il punto d’incontro tra noi, il ritrovarci simili nelle cadute e nelle lacrime. Attorno a Elena e Mia ruotano altre donne altrettanto vulnerabili e complesse: c’è Linda che è divorata dal dolore di non poter generare figli e di sentirsi accusata di non essere una madre completa quando adotta una bambina; c’è la giovane Bebe che non smette di sentirsi madre proprio perché per salvare la sua neonata l’ha abbandonata davanti a una caserma dei pompieri. Di puntanta in puntata cresce in chi guarda, o almeno in me, la struggente mancanza di questo incontro di fragilità così opposte e così vicine; basterebbe un passo oltre il proprio recinto di ira e orgoglio, ma non accade.

L’incendio dell’anima

«Abbiamo sbagliato, ma non siamo sbagliati». Ha ragione Trip Richardson, l’adolescente belloccio e impegnato a collezionare fidanzate occasionali. Non a caso lo dice di fronte alla prima ragazza verso cui sente un affetto più profondo del solito. Siamo fatti per mettere in mano a qualcun altro ciò che brucia dentro di noi. Possiamo riconoscere da soli di aver sbagliato, ma solo una voce più grande della nostra può dirci che non siamo sbagliati. Se manca un interlocutore al di fuori del nostro povero giudizio emotivo o raziocinante, facciamo del male a noi stessi e siamo incapaci di incontrare gli altri.

Possiamo girarci attorno con mille perifrasi, ma se manca un nesso vivo con un Dio che possiamo chiamare Padre, e può sciogliere i nodi delle nostre colpe e miserie, ogni nostra intenzione brucia senza scaldare nulla e finendo in cenere. Il nostro ardore è sempre un misto di grandi slanci buoni e tentazioni malvagie, l’anima è una fucina sempre a rischio di esplosione. Ho visto questo nell’orizzonte complessivo di Little Fires Everywhere: il nostro povero mondo che patisce l’assenza di un dialogo con l’Origine di tutto, e si spegne in un deserto di mille brucianti solitudini.