Stati Uniti, Francia e Italia presentano al momento, nel mondo atlantico, altrettanti focolai di ribollenti tendenze libertarie ed eversive miranti all’esplicito e ideologico revisionismo storico, alla sfrenata manipolazione della vita umana e infine (conseguentemente) alla pretesa della sua totale disponibilità, fin nella morte. Il magistero sociale di Papa Francesco, soprattutto nell’enciclica “Laudato si’”, riassume e offre ai cattolici e al mondo gli strumenti per non perdere la visione d’insieme delle/nelle sfide proposte, nonché una via d’uscita dallo stallo. Stretta, ma praticabile.
Mentre ancora dovevano finire di spegnersi i fuochi della Seconda Guerra Mondiale, Karl Popper pubblicava in Inghilterra il primo volume de La società aperta e i suoi nemici. Facendo l’esegesi dell’“incantesimo di Platone”, allora, il noto epistemologo novecentesco scandiva tre declinazioni di un unico paradosso:
- Il cosiddetto paradosso della libertà è l’argomento per cui la libertà, nel senso dell’assenza di qualsiasi controllo restrittivo, deve portare a un’enorme restrizione, perché rende i prepotenti liberi di schiavizzare i mansueti. Questa idea, in una forma un po’ diversa e con una tendenza del tutto diversa, è chiaramente espressa da Platone.
- Meno noto è invece il paradosso della tolleranza: la tolleranza illimitata deve portare alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi. […]
- Un altro paradosso poco preso in considerazione è il paradosso della democrazia o, più precisamente, del governo maggioritario, cioè la possibilità che la maggioranza decida che il governo venga affidato a un tiranno.
Gli intolleranti vanno tollerati solo “fino a un certo punto”
Il “mondo libero” non aveva ancora finito di fare i conti col nazismo (col comunismo non ha terminato neppure oggi) e Popper già riconosceva che non sarebbe stato lo spodestamento di Hitler e di Stalin, o il loro eventuale tirannicidio, a porre la parola “fine” al grande dilemma che, pur percorrendo tutta la storia umana nota, diventa endemico durante l’epoca moderna, che nell’apoteosi delle democrazie aveva avuto uno dei suoi fuochi teorici:
In questa formulazione, io non implico, per esempio, che si debbano sempre sopprimere le manifestazioni delle filosofie intolleranti; finché possiamo contrastarle con argomentazioni razionali e farle tenere sotto controllo dall’opinione pubblica, la soppressione sarebbe certamente la meno saggia delle decisioni. Ma dobbiamo proclamare il diritto di sopprimerle, se necessario, anche con la forza; perché può facilmente avvenire che esse non siano disposte a incontrarci a livello dell’argomentazione razionale, ma pretendano di ripudiare ogni argomentazione; esse possono vietare ai loro seguaci di prestare ascolto all’argomentazione razionale, perché considerata ingannevole, e invitarli a rispondere agli argomenti con l’uso dei pugni o delle pistole. Noi dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti. Dovremmo insomma proclamare che ogni movimento che predica l’intolleranza si pone fuori legge e dovremmo considerare come crimini l’incitamento all’intolleranza e alla persecuzione, allo stesso modo che consideriamo un crimine l’incitamento all’assassinio, al ratto o al ripristino del commercio degli schiavi.
Ben lungi dall’essere relegate nel 1945, queste considerazioni sono il sottotesto di vivacissimi dibattiti sociali dei nostri giorni: quanti ad esempio in Italia invocano a gran voce il ddl Zan lo fanno proprio col pretesto che le posizioni degli “omofobi” (e qui il problema è che in questa vaporosa definizione rientra tutto e niente) non debbano essere tollerate nel consesso civile. Allo stesso modo, gli oppositori del ddl Zan (tra cui spiccano il presidente della Cei Gualtiero Bassetti e il direttore emerito de La Civiltà Cattolica, Bartolomeo Sorge) ritengono che siano i primi, cioè i promotori e i partigiani della proposta di legge, ad essere degli intolleranti e quindi a doversi veder revocato il diritto di parola nella agorà democratica. “Liberticida” è l’epiteto che viene forsennatamente rimbalzato da una parte all’altra del campo, e ognuna delle due fazioni (certo non con egual diritto) riesce a produrre una certa mole di evidenze e di argomentazioni a suffragio della propria posizione.
Leggi anche:
Legge contro l’omofobia, i vescovi: non serve, esistono già adeguate normative
Questa temperie non sembra episodica o estemporanea, cioè non pare legata in esclusiva a un dato contesto sociopolitico o a una particolare congiuntura istituzionale: negli Stati Uniti infuria la campagna elettorale che ha per posta la rielezione di Donald Trump, e la “cancel culture” mette a ferro e fuoco (non solo metaforicamente) il Paese al grido di Black Lives Matter; in Francia l’esecutivo macroniano ha subito pesanti rimpasti e tuttavia s’intensifica la volontà di accelerare sulla nuova Loi Bioéthique che dovrebbe attribuire a tutte le donne (e poi a tutti gli uomini), in nome dell’“uguaglianza” repubblicana, il “diritto” ad avere bambini. In particolare la nostra redazione d’Oltralpe, ancora di più quanto quella Oltreoceano faccia su BLM, sta profondendo molte energie per illustrare le ragioni della contrarietà di uomini liberi e non intolleranti alla nuova Legge Bioetica. Lo stesso arcivescovo di Parigi, mons. Michel Aupetit, ha dedicato e più volte rilanciato una fiammeggiante tribuna su Le Figaro di carica frontale al governo. Fatica sprecata, sembrerebbe: per quante siano le ragioni di chi si oppone al Mainstream, per quanto esse siano ficcanti una ad una e nell’insieme, nessuno sembra interessato a prenderle in esame. In Italia abbiamo assistito lunedì pomeriggio alla doppiamente surreale scena di un Pubblico Ministero solidale con gli imputati e che, purtuttavia, non sente di potersi esimere dal chiedere l’applicazione della legge; e di una Corte di giustizia che fa spallucce al PM affermando: «Il fatto non sussiste» – dunque di che parlava la pur riluttante accusa?
L’ecologismo fallace dei misantropi sorridenti
Il caso di Marco Cappato e di Mina Welby sembra ancora più paradigmatico della crisi di civiltà di fronte ai paradossi elencati da Popper in quanto mentre negli Usa si vagheggia di un titanico revisionismo storico e in Francia di un titanico delirio d’onnipotenza sulla vita, in Italia si brancola pervicacemente verso un utopico controllo della morte. Questi tre casi sono altrettanti esempi di un malsano rapporto con il limite, rapporto del quale con sagacia profetica Chesterton scrisse quasi un secolo fa*:
Gli uomini del nostro tempo si sono completamente sbagliati sulla vita umana: sembrano aspettarsi quel che la natura non ha mai promesso e cercano di rovinare tutto quel che la natura ha effettivamente dato.
Il 2 novembre 2016 l’eurodeputato francese Yannick Jadot (verde ed europeista) parlava al network dell’Association pour le Droit de Morir dans la Dignité (l’omologa dell’italiana Luca Coscioni: si copiano anche le grafiche), e teneva un discorso in cui balzavano all’occhio le tragiche fallacie di certo ecologismo:
Sei giorni dopo Gaultier Bes, il vice-direttore della rivista francese Limite, aveva commentato quasi parola per parola quell’intervento:
Subito dopo [aver ricordato che “ecologismo” significa riconciliazione con la natura e con sé stessi, N.d.R.], Jadot invoca effettivamente l’autonomia, la responsabilità individuale e collettiva, e tutt’a un tratto parla di «ritrovare il dominio sulla propria vita». Il vocabolario del “dominio” [maîtrise, N.d.T.], ricordiamolo, è precisamente quello del sistema di sfruttamento industriale sulla natura e sulla vita. A tal proposito, l’eutanasia è certamente una maniera di «estendere l’impero degli uomini su tutta la natura», per riprendere l’espressione del filosofo e scienziato inglese Francis Bacon, nel XVII secolo. Una maniera di addomesticare le forze della vita, della quali non si accetta più che essa sfugga al nostro controllo, alla nostra manomissione. Niente di meno ecologico di siffatto vocabolario, che giustifica ogni manipolazione e ogni depredazione in nome d’un fantasma di onnipotenza umana. Da questo punto di vista, il postumanismo californiano che vuole “uccidere la morte” e l’eutanasia europea che vuole “dominarla” sono cugini carnali: ciascuno partecipa a proprio modo di una volontà di dominio sulla vita, di rifiutarne i limiti intrinseci, per farsene come «dominatori e possessori».
Ma la cosa più strana viene dopo. Jadot prosegue: «Il diritto a morire nella dignità non è mai riconciliazione con la morte, è al contrario riconciliazione con la vita…». Eutanasizzare qualcuno sarebbe dunque riconciliarlo con la vita. Ma che visione della vita si sta offrendo? La vita non sarebbe dunque altro che la giovinezza e la salute? Una volta diminuito, divenuto dipendente, l’essere umano non varrebbe più nulla? Questo tipo di discorso non è che la variante libertaria dello struggle for life liberale. Cammina o crepa! Sii autonomo o sparisci! Morte ai deboli, agli anormali! Largo ai possenti! È una forma di “distruzione creatrice”, dopotutto in questo sistema non c’è posto per le oche zoppe. Si eutanasizzano i morenti come si licenziano i dipendenti cinquantenni. Senza colpo ferire. La persona handicappata, quella che non si sia riusciti a eliminare prima della nascita, dovrà dunque essere eutanasizzata appena possibile. Nei Paesi Bassi si cominciano già a eutanasizzare i minori e i depressi. È vero, costa meno che prendersene cura, e poi c’è la crisi!
Jadot conclude: «Quando non si ha più questo diritto, bisogna essere capaci di scegliere il modo in cui la propria vita termina. È la lotta della vita contro tutte le viltà […] per avere il dominio di quest’ultimo momento della vita».
Dominare: questo è il verbo di tutti i totalitarismi, che nulla detestano quanto i misteri di una vita che resiste a tutte le loro censure e a tutti i loro controlli. È dichiarato “vile” colui che non muore al culmine della propria gloria ma tra rantoli e flatulenze. “Vile” chi accetta la senescenza e la fragilità non come una umiliazione ma come la marca stessa della propria carnalità.
Le osservazioni di Bes proseguono con altri passaggi molto interessanti, ma meno rispondenti al filo del nostro discorso, che mi rimanda invece alle parole con cui il dottor Clémence Joly – responsabile del reparto di Cure Palliative dell’ospedale di Pont-Audemer (Eure) – quasi due anni dopo e forse inconsapevolmente spiegò dall’alto della sua esperienza personale e professionale i fondamenti delle osservazioni del giovane saggista:
Dopo aver reclamato il diritto a una morte “degna”, “compassionevole”, si è parlato di “ultima libertà” e ora di “morte scelta”. I militanti pro-eutanasia, però, che generalmente godono di buona salute, non prendono in conto la complessità delle situazioni e delle relazioni. Essi la presentano come una scelta, una proposta supplementare, complementare rispetto alle cure palliative, come se invece non ne fosse l’antitesi. | Anzi, peggio: sprezzante del fatto che stava torcendo il significato delle parole, il CESE [Consiglio Economico, Sociale e Ambientale, N.d.T.] l’ha recentemente amalgamata a una cura medica!
[…] L’esperienza dei pazienti e del personale medico e paramedico è tutt’altra. I pazienti colpiti da una malattia grave o che sono in fin di vita domandano raramente l’eutanasia. Essi desiderano essere accompagnati, ascoltati, desiderano sollievo e desiderano che siano sostenuti i loro cari, anche dopo il decesso. I rari pazienti che chiedono di morire non lo desiderano più, di solito, quando vengono si offrono loro i debiti sollievi. Quelli che persistono nella loro richiesta sono paradossalmente abitati dal desiderio ambivalente di “vivere ancora un po’”.
Di fatto, i pazienti accettano degli handicap che da più giovani avrebbero rifiutato: si tratta di vivere ancora, per i figli, per i nipoti, per un coniuge o anche per sé. La sofferenza può essere forte, perfino sfiancante, ma può anche essere l’occasione per ricentrarsi sull’essenziale. Bisogna saper individuare quei momenti. Il tempo dell’agonia, che fa tanta paura e non ha più senso nella nostra società secolarizzata, può essere anche un tempo di vita, di accompagnamento, di condivisione famigliare. È frequente che i pazienti per i quali l’agonia si prolunga stiano attendendo qualcuno: dopo l’arrivo del parente o dell’amico atteso, dopo aver sentito la sua voce al telefono, la morte giunge. Questi scambi profondi possono avere conseguenze positive sul lutto di quanti restano, laddove una morte per eutanasia comporta un grande senso di colpa.
Clémence Joly, L’euthanasie est le signe d’une incompétence médicale, in Limite 11 (luglio 2018), 78-79
Leggi anche:
«Se resto a letto immobile…» e sul web impazzano le “DAT cattoliche”
Il contributo (esaltato ma disatteso) della Laudato si’
Il fatto che la nostra sedicente “società aperta” sia da decenni giunta a un sordo scontro di muri opposti, su questi temi essenziali, dice forse della malafede di qualcuno (in almeno una delle due parti, però forse anche in entrambe), ma certamente anche di una endemica e gravissima insufficienza di pensiero. Ecco perché non ha senso prendersela con questo o quel governo, focalizzarsi sul ’68 o sul Vaticano II: fu proprio Paolo VI, tra i massimi attori del XX secolo, che proprio in quegli anni ammonì su come «il mondo soffra per mancanza di pensiero». Segno principe della globalizzazione moderna è la progressiva alfabetizzazione della famiglia umana, che mai nel corso della storia era arrivata a percentuali paragonabili a quelle odierne: insegnare però agli uomini a leggere e a scrivere senza insegnare loro a pensare si rivela sempre più un aiuto poco più lungimirante del dare una pistola (o uno smartphone) in mano a un bambino.
Quando l’interesse e la necessità prevalgono sulle verità oggettive e su stabili princìpi etici, a poco servono i programmi politici e la stessa legge, «perché quando è la cultura che ci corrompe […], le leggi verranno intese solo come imposizioni arbitrarie e come osta|coli da evitare». E, «ugualmente, quando la tecnica non riconosce i grandi princìpi etici, finisce per considerare legittima qualsiasi pratica». Superfluo portare esempi.
Giandomenico Mucci, Papa Francesco e l’idea di progresso, in La Civiltà Cattolica 4083/4084, 309-310
Chi scrive queste parole è un anziano redattore de La Civiltà Cattolica sul numero in uscita dopodomani, mentre le due citazioni virgolettate sono entrambe dall’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco (rispettivamente numeri 123 e 136). Le numerose citazioni dall’enciclica del Santo Padre (tanto universalmente acclamata quanto platealmente disattesa – e chissà quanto letta!) sostengono nel padre Mucci la tesi che,
a livello di Magistero, sia la prima volta nell’enciclica Laudato si’ di papa Bergoglio che compaiono, e sono esplicitamente e chiaramente citati e discussi, l’idea, il significato, il mito del progresso indefinito.
Ivi, 308
Di nient’altro si tratta, infatti:
È un mito che, nonostante le smentite dell’esperienza e del pensiero critico, conserva ed esercita la sua potenza di suggestione sentimentale ed è destinato a risorgere in tutte le utopie.
Ivi, 307
Si afferma e si dimostra per tabulas che posizioni come quella dei Jadot e dei Cappato (e dei Romero e degli Zan) sono parziali e viziate – ché «il degrado sociale e ambientale, […] lo sfruttamento sessuale dei bambini, l’abbandono dei vecchi, la tratta degli esseri umani, […] il commercio insanguinato dei diamanti e delle pelli degli animali in via d’estinzione» (ivi, 309) sono parti di un unico dramma eco-logico –, ma nessuno dei due gesuiti si fa illusioni:
A una situazione tanto complessa non possono recare rimedio i singoli, i quali «possono perdere la capacità e la libertà di vincere la logica della ragione strumentale e finiscono per soccombere a un consumismo senza etica e senza senso sociale e ambientale» [Laudato si’, 219]. Occorre una conversione comunitaria che risponda, in tutti i settori, dalla scuola alla parrocchia e alla politica, alla sfida educativa e promuova comportamenti corrispondenti alla volontà comune di «uscire dal pragmatismo utilitaristico» [Laudato si’, 215].
Ivi, 310
Insomma, può davvero accadere che intere popolazioni si abituino a lasciar uccidere i nascituri e i morituri con la stessa indolente (e pur colpevole) noncuranza con cui al mare o in montagna disperdono plastica o cicche nell’ambiente. Veramente il mondo può far finta di niente, senza neppure più la cauta ipocrisia di voltarsi dall’altra parte, mentre da una parte del mondo coppie egoiste e prepotenti producono una riedizione dello schiavismo moderno col sussidio di apprendisti stregoni in camice… e dall’altra si scaricano scorie radioattive negli oceani, si cacciano irresponsabilmente specie in via d’estinzione e all’estinzione vengono avviati perfino grandi pilastri dell’ecosistema (uno fra tutti, le api).
Leggi anche:
La scomparsa delle api: il segno di una crisi ecologica globale
Per colmo di sventura, gli uomini che hanno a cuore i primi gruppi di problemi si disinteressano generalmente degli altri, e viceversa: al Magistero cattolico nessuno potrà contestare (per quel che vale) il merito di aver fornito gli strumenti concettuali per tenere insieme ogni ecologia in un’unica e indivisibile visione, che si vuole ancora capace di mantenere gli equilibri del creato perché nel creato sa lasciare uno spazio al Mistero. Al Limite.
*: Chesterton parecchi decenni fa o qualche suo bravo imitatore ai nostri giorni: non mi è riuscito di ritrovare la fonte di questa citazione, che ho trovato a galleggiare in un tweet nel mare magnum dell’Internet.