Elena Maria Canavese è una giovane artista di Milano. La sua fotografia è una sguardo che coglie l’immenso nel domestico: bucce di cipolla, scope usate e fornelli sporchi. Perché noi stessi desideriamo essere guardati come qualcosa di più grande dei nostri limiti. Oggi chi non fa almeno dieci foto al giorno? La telecamera del nostro cellulare è diventata quasi un’appendice corporea. Siamo l’esercito del selfie, ci suggerisce la voce di Arisa. Sì, siamo un esercito di fotografi con così tanti occhi virtuali attorno da non saper più guardare. A inquadrare perfettamente la nostra condizione resta inarrivabile l’aforisma di Chesterton:
Se guardi una cosa per 99 volte puoi stare perfettamente tranquillo. Se la guardi per la centesima volta corri il rischio di vederla per la prima volta.
E come si fa a trovare un modo di guardare che sia come il fuoco d’artificio di questa centesima volta che illumina davvero tutto, senza bisogno di Photoshop? Con questa domanda ho bussato alla porta di una giovane artista che si chiama Elena Maria Canavese: le sue fotografie mi hanno folgorato da subito, appaiono dei paesaggi meravigliosi eppure a ben vedere sono oggetti domestici semplici e anche logori. Il mio scatto preferito è quello in copertina: una semplice buccia di cipolla che sembra una farfalla candida e leggerissima. L’obiettivo, e lo sguardo vivo che c’è dietro, sono capaci di compiere quel miracolo che ci riguarda nel profondo: vedere oltre le apparenze della banalità, scorgere un immenso di bellezza anche in ciò che è misero.
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Cara Elena, sono felice di intervistarti per i nostri lettori di Aleteia For Her. Tu sei un’artista il cui strumento privilegiato di espressione è la fotografia e questo nostro tempo è proprio incentrato sulla potenza e la centralità delle immagini. Noi che di mestiere scriviamo sappiamo bene che anche le nostre parole più pirotecniche perdono a tavolino di fronte a un’immagine che cattura subito l’attenzione di chi legge. Allora vorrei parlare con te del verbo guardare, di come sia così centrale eppure spesso incanalato su puri stereotipi superficiali. Era il tuo sogno diventare una fotografa?
Non avevo previsto di fare questo lavoro, è nato dalla mia passione per la scultura e per uno studio approfondito di storia della fotografia e questi due elementi nella mia storia si sono incontrati. Ho fatto l’Accademia di Belle Arti a Milano e lì ho studiato scultura, proprio perché mi interessava creare la forma in tre dimensioni, poi è stato decisivo l’incontro con una professoressa di Storia della fotografia che ha avuto su di me una forte influenza. Lo studio della storia della fotografia mi ha colpito perché fin dalla nascita di quest’arte i fotografi lavoravano sulle immagini usando tanti strumenti di illusione: la fotografia dagli albori e fino a metà del ‘900 è stata un’arte di interpretazione del reale, più vicina alla pittura che alla fotografia-documento come la intendiamo noi. Mi sono lasciata influenzare da questo pensiero, cioè che la fotografia non riproducesse la realtà, ma fosse un mezzo di espressione. Le ricerche storiche che ho fatto si sono concentrate su questo tema. Non ho uno studio, lavoro a casa e sono anche insegnante alle scuole medie.
Tu dici illusione e a me banalmente vengono in mente i filtri di Instagram, cioé qualcosa che altera il dato originario ed è quasi una presa in giro: la realtà com’è non è abbastanza bella, allora la alteriamo. L’illusione di cui parli tu è proprio l’opposto, è uno sguardo che sprofonda nel reale così a fondo da non lasciarsi intrappolare dalla consuetudine. Facciamo subito un esempio: una scopa usata, grazie al tuo obiettivo fotografico, è diventata un campo di grano. Mi racconti come è nato questo tuo «paesaggio»?
Era il periodo in cui studiavo e avevo proprio un esame di paesaggio. Ero in difficoltà a uscire e scattare una fotografia perché tutti gli scorci che vedevo mi sembravano banali. Mi era già capitato di riuscire a creare dei paesaggi con le cose a disposizione in casa mia, con del sale e del cartonicino ero riuscita a dare l’idea del cielo. Ho provato a scommettere su questa ipotesi e da una scopa è saltato fuori un campo di grano. Ho fatto tante prove, con tante scope e mi sono accorta in quell’occasione quanti milioni di tipologie di scope esistono! Oltre a scegliere la scopa giusta, l’ho anche modellata e usata per darle una forma che mi pareva giusta; l’ho consumata perché potesse dare l’idea del grano.
La scopa è proprio l’inizio perfetto per cominciare a dire che l’arte non è qualcosa per eletti che vivono in un mondo tra le nuvole e lontano dalle urgenze della vita. Sbaglio?
La scoperta dell’arte per me è stata precoce; in seconda media avevo capito che era una passione che andava al di là dell’hobby. Ho chiesto ai miei genitori di fare il liceo artistico e dopo il liceo artistico mi sono iscritta all’Accademia di Belle Arti. In Accademia ho avuto tantissimi momenti di sconforto perché quello che ci era chiesto era di avere ciascuno una sua poetica e io non sapevo da dove pescare questa poetica. M’inventavo delle poetiche, che non erano mie perché il mio desiderio era ancora quello di imparare tecnicamente. Mi sono lasciata trasportare da ciò che accadeva, ho incontrato una professoressa di Fotografia e lo studio mi sembrava qualcosa di più adatto a me. Ho cominciato a dedicarmi di più allo studio storico, ma l’esigenza di creare era rimasta; dall’incontro di questi due dati è nato il lavoro che ho costruito dopo: studiando ho scoperto che la fotografia era un mezzo che poteva essere artistico, per creare. Negli anni ho capito che bisogna proprio partire da quello che uno sta vivendo, da ciò che ognuno vede nella propria quotidianità. All’inizio in Accademia credevo che la poetica fosse qualcosa da aggiungere alla realtà, che fosse qualcosa da trovare e fosse distaccato da me e dalla mia vita. Adesso ho capito che il punto di partenza è proprio la mia quotidianità, le mie passioni, le mie domande.
Quando io ho visto per la prima volta i tuoi lavori sono rimasta stupita nel vedere come eri capace di far esplodere di meraviglia oggetti domestici di uso quotidiano. Mi racconti come è nata quest’intuizione?
Come ho già accennato, il primo paesaggio che mi è capitato di fare è stato realizzato con del sale che ho lasciato cadere su un cartoncino nero. Avevo intuito che la fotografia poteva creare un’illusione spaziale, per cui ho fatto questa prova per vedere se riuscivo a ottenere l’illusione dello spazio celeste. L’esigenza era nata dal fatto che dovevo illustrare un racconto che parlava delle stelle e siccome non avevo la possibilità di fare delle grandi foto astronomiche, ho tentato immaginando che fosse possibile ricreare il cielo sul tavolo di casa mia. Da quella volta mi sono resa conto che era possibile e ho iniziato a lavorare con altri materiali, però sempre a partire dall’esigenza di offrire la tridimensionalità dello spazio in un’immagine che è bidimensionale.
Nelle fotografie che faccio io non ritocco nulla. L’unica trasformazione che talvolta adopero è quella di capovolgere il positivo in negativo, grazie allo sviluppo digitale. Ad esempio ho ricavato l’immagine della luna da un fornello sporco: l’immagine di partenza era il fornello nero su fondo bianco, capovolgendola in negativo si è trasformata in un disco bianco che ricorda la luna appunto. Le incrostazioni di sale che erano chiare sono diventate scure e sembrano i crateri lunari.
Potremmo dire, ci perdoni Gino Paoli, che tu hai davvero trovato il cielo in una stanza. Ciò che abbiamo sotto gli occhi non è affatto banale e noioso, sono i nostri occhi che sono annoiati caso mai. Dimmi, l’ispirazione per la luna è arrivata a priori o te ne sei accorta a posteriori?
Da tanto tempo cercavo di creare l’immagine della luna, perché parto sempre dal desiderio di arrivare a un obiettivo che mi piace. Io amo vedere gli spazi immensi, è stato molto stretto per me essere rimasta chiusa in casa in questi mesi. Quindi tutto comincia attingendo al puro desiderio di ciò che vorrei vedere in quell’istante. E dunque, cercavo la luna e ho cominciato a chiedermi quali oggetti e materiali potevano portarmi a ricrearla, e che fossero materiali a disposizione in casa mia. Avrei potuto mettermi a costruire una luna in polistirolo, e sarebbe un altro tipo di lavoro. Io invece voglio partire dalla circostanza in cui sono, ovvero il mio abitare la casa e spesso mi ritrovo a lavorare in cucina.
Ho cominciato fotografando la luce di un’abat jour, poi ho provato con una tazza bianca. Finché non mi ha ispirato uno studio storico che stavo svolgendo ed ero concentrata ad analizzare dei negativi che, una volta trasformati in positivo, diventano una meraviglia, cioé: il negativo era orribile e trasformandolo in positivo emergevano dei volti bellissimi. Dunque l’arrivo dell’immagine finale era completamente inaspettata. Questo studio sui negativi probabilmente ha innescato qualcosa in me e ragionando in termini opposti ho cominciato a cercare in casa anziché un cerchio bianco un cerchio nero. La melanzana mi sembrava una verdura che poteva essere “in negativo” la versione della luna ed esplorando questo modo di guardare la realtà, immaginando la versione negativa, mi sono sentita un po’ come quando i matematici hanno scoperto i numeri negativi. È stato l’aprirsi di una sfera completamente nuova di possibilità.
Lo chiamiamo stupore?
Quando faccio le fotografie allestite, di messe in scena, io non vedo l’ora di andare a guardare sul computer cosa è successo, perché ci sono tantissimi imprevisti. A me piace vedere l’imprevisto. Quando ho visto la luna comparire nella foto finale è stato un imprevisto, perché il fornello da cui ero partita era sporco per caso. Sono impaziente e avevo provato a usare il fornello senza pulirlo, questa impazienza a volte è fortunata. L’incrostazione del sale sul fornello, probabilmente dovuta all’acqua della pasta traboccata, aveva creato degli aloni che sviluppando la foto in negativo potevano proprio sembrare i crateri lunari. Proprio il dettaglio degli aloni è diventato la parte più preziosa di quella foto, se no sarebbe stato un semplice cerchio bianco. Quando è capitato questo imprevisto per me è stata una meraviglia. La stessa cosa succede quando faccio le montagne, non capisco subito il risultato perché di fronte ho solo un po’ di cartoncino stropicciato.
Sentendo la parola «negativo», lo associamo inevitabilmente alle nostre emozioni e a tutte le esperienze negative. Un tempo la fotografia prevedeva l’uso della camera oscura, il luogo quasi magico in cui avveniva un capovolgimente. Anche il dolore è una camera oscura per noi, perché è vero che talvolta fatti negativi ci portino in dote frutti positivi di bene. Ti sei chiesta se è casuale il fatto che tu cerchi l’imprevisto e la meraviglia nel negativo?
Lavorando è emersa questa riflessione, non lo avevo prefissato come concetto ma è venuto fuori vedendomi in azione. Innanzitutto ho una predilezione per gli oggetti poveri, come la polvere, la carta stropicciata, la scopa, il fornello sporco. Questo è ciò che scelgo per creare i miei paesaggi e la questione del negativo in realtà c’entra tantissimo con quella che io ho chiamato la redenzione dei materiali poveri, che diventano per me dei paesaggi bellissimi. E in realtà c’entra anche con la mia storia: io spesso mi ritrovo a vivere – come tutti! – situazioni difficili e riconosco che è difficile perdonarsi e perdonare. Però il desiderio di farlo c’è. E io mi adopero in questa trasformazione, il mio lavoro riflette un po’ questo desiderio di redenzione sui miei peccati, sul desiderio che le cose negative abbiano una seconda possibilità. A me è molto d’aiuto questo lavoro perché traccia una memoria che mi sussurra: “Ricordati che per i tuoi paesaggi va così”.
Avendo toccato queste corde profonde dell’anima di tutti, vorrei chiederti di raccontarmi come è nata la fotografia che ha come oggetto di partenza la buccia di una cipolla. Non ti nascondo che è la mia preferita, lì vedo proprio questa tensione della materia povera che pure è degna del Cielo.
È nata in quarantena. Stavo disegnando tantissimo per preparare un lavoro da fare coi miei studenti a scuola e il mio soggetto erano delle anatre che volavano, in particolare ero concentrata sul movimento delle ali. Mi interessava spiegare ai ragazzi il movimento. A un certo punto, senza un motivo preciso e quasi per una mossa primordiale, sono passata a disegnare delle cipolle, perché mi stavo concentrando sulla trasparenza e la leggerezza. Il volo, lo sbattere delle ali che crea una scia trasparente, questo era ciò su cui ragionavo e avevo di fronte a me tantissime cipolle bianche che avevo comprato. Durante la quarantena l’unica occasione di evasione era quella di fare la spesa e mi ritrovavo con un gran mucchio di cipolle sul tavolo. Mi sono messa a disegnare queste cipolle anche perché mi attirava come cibo molto povero. Come dicevo prima, non so per quale motivo ma io sono attratta dalle cose sporche e povere. Mentre disegnavo, una parte di pelle di una cipolla è caduta sul tavolo, che ha una superficie riflettente. Ho cominciato a fare delle foto finché in una di queste immagini ho visto, grazie al riflesso, la forma di una farfalla. C’è stata una scoperta imprevista nell’immagine fotografica che era in perfetta sintonia con ciò che cercavo: qualcosa che fosse leggero e desse l’idea del volo. E poi, solo dopo ho pensato che io mi sentivo in gabbia stando in quarantena, e avevo una grande tensione a evadere. Ero io quella che si sentiva con le ali legate.
Visto che hai citato i tuoi ragazzi, chiuderei facendoti una domanda sull’insegnamento. I nostri figli hanno sempre il cellulare in mano, fanno sempre un mucchio di foto. Cosa è per te il guardare e come educhi loro a farlo attraverso l’arte?
Quando guardo io mi concentro sulle forme, non mi concentro sulla funzione delle cose e questo mi permette di essere libera. Nel romanzo Uomovivo di Chesterton c’è un momento in cui il protagonista mostra 3 bottiglie di vino che per lui sono preziosissime, ma il vino che contengono è di qualità scadente. Per lui erano preziose solo per il colore dell’etichetta. Mi ci ritrovo, in questo ritratto di chi dà valore a ciò che ha di fronte fuori dal canone della funzione. Quando fotografo la realtà, è l’impatto puro che mi guida: riconoscere che ho davanti un istante giusto. È quell’istante in cui la situazione appare in modo normale eppure sconcertante.
L’anno scorso ho proposto ai miei studenti di seconda un concorso intitolato “il coraggio di scegliere” e con ciascuno ho fatto il medesimo percorso che ho vissuto io studiando in Accademia, dall’astratto di una poetica all’essenziale della vita. All’inizio ho chiesto ai ragazzi di raccogliere tutto quel che veniva loro in mente a proposito di coraggio (parole, immagini) e come primo passo tutti mi hanno portato lo stesso tipo di immagine: la porta, oppure strade che finivano nel nulla. Allora ho chiesto a ciascuno che si concentrassero su una passione personale. E da questo spunto tutti i lavori si sono diversificati. Il coraggio è diventato un tuffo, per la ragazza che fa nuoto. Per un’altra ha significato concentrarsi sull’opposizione buio e luce. Il punto era capire dove, nel vivo del loro vissuto, questo tema del coraggio e della scelta li prendeva. Da lì il percorso è poi quello di arrivare a un’immagine più essenziale e semplice, perché il processo artistico è questo setacciare e tirar via quello che è superfluo. Per quanto strano possa sembrare, con loro non uso la chiave della fotografia durante le lezioni perché alle medie c’è bisogno di lavorare tanto manualmente. Tutto il mio bagaglio più grande è fatto di ore e ore di disegno dal vero e anche di scultura su creta e marmo. Questa è stata la mia educazione al guardare.