Due giorni fa il Patriarcato russo ha diramato una nota della sua massima autorità in cui si interviene a gamba tesa nella delicata questione del ripristino del culto islamico all’interno dell’antica basilica cristiana che Maometto II razziò. Il portato di quel breve ma durissimo testo non risulta intelligibile che alla luce della storia dei due patriarcati e della dominazione ottomana in Turchia.
È noto che il governo turco guidato da Erdogan vorrà rendere noto entro il 15 luglio p.v. se lo storico monumento costantinopolitano di Santa Sofia sarà riconvertito in moschea oppure no. In questi ultimi giorni ha fatto parlare e scrivere di sé anche la dichiarazione del Patriarca russo Kirill diffusa due giorni fa da Mosca:
Il Primate della Chiesa ortodossa russa ha espresso una profonda preoccupazione per i richiami di alcuni politici turchi al cambiamento dello status attuale di uno dei monumenti più importanti della cultura cristiana – la chiesa di Santa Sofia.
Sono profondamente preoccupato dai richiami di alcuni politici turchi al cambiamento dello status museale della chiesa di Santa Sofia, uno dei monumenti più grandi della cultura cristiana.
Questa chiesa, costruita nel VI secolo e dedicata al Cristo Salvatore, ha un significato del tutto particolare per l’Ortodossia intera. È particolarmente cara anche per la Chiesa ortodossa russa. Gli ambasciatori del principe Vladimir, varcando la soglia di Santa Sofia, sono stati catturati dalla sua bellezza celeste. Dopo aver sentito il loro racconto, il santo principe decise di battezzarsi e battezzò la Rus’ che, seguendo le sue orme, entrò in una nuova dimensione spirituale e storica – la civiltà cristiana.
Attraverso le generazioni abbiamo ereditato l’ammirazione per le eccellenze di questa civiltà, della quale ormai anche noi facciamo parte. Uno dei suoi simboli più venerati era e rimane Santa Sofia. La sua immagine ha lasciato un’impronta nella nostra cultura e storia, ispirando i nostri costruttori a Kiev, Novgorod, Polack – tutti i centri più importanti di formazione spirituale della Rus’ antica.
La storia di relazioni tra la Rus’ e Costantinopoli ha conosciuto vari periodi, tra cui quelli abbastanza difficili. Però il popolo russo rigetta con indignazione e rammarico, ora come prima, ogni tentativo di umiliare o rinnegare il patrimonio spirituale della Chiesa di Costantinopoli. Qualsiasi minaccia a Santa Sofia è una minaccia a tutta quanta la civiltà cristiana, e quindi anche alla nostra spiritualità e storia. Fino ad oggi per ogni fedele ortodosso russo Santa Sofia è un grande santuario cristiano.
Il compito di ogni stato civilizzato è di mantenere gli equilibri, di placare le contraddizioni nella società invece di inasprirli, di unire gli uomini invece di dividerli.
Oggi le relazioni tra la Russia e la Turchia si sviluppano molto intensamente. Però allo stesso tempo deve essere tenuto presente che la Russia è un paese a maggioranza cristiana ortodossa. Perciò qualsiasi cosa dovesse accadere a Santa Sofia, ciò provocherà un profondo dolore nel popolo russo.
Spero nella prudenza delle autorità turche. La preservazione dell’attuale status neutrale di Santa Sofia, uno dei capolavori più grandi della cultura cristiana, chiesa-simbolo per milioni di cristiani in tutto il mondo, favorirà ulteriore sviluppo delle relazioni russo-turche e il rafforzamento della concordia e pace interreligiosa.
+Kirill,
il Patriarca di Mosca e di tutta la Rus’
Il catenaccio redazionale allude prudentemente – come subito dopo fa anche lo stesso Kirill in prima persona – ad “alcuni politici turchi”, senza nominare apertamente il capo dell’esecutivo. Segue rapidissimo cenno alla costruzione dell’edificio nel VI secolo e poi un salto di quattro secoli fino alla conversione di Vladimir il Grande, principe di Kiev (l’Ucraina veniva evangelizzata già prima del battesimo del Principe, soprattutto a partire dalla Bulgaria e attraverso la Romania): l’argomento si snoda con l’enumerazione delle principali influenze architettoniche esercitate dalla basilica di Giustiniano, e infine si arriva agli enunciati politicamente rilevanti.
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Kirill afferma infatti che, malgrado i dissapori tra i patriarcati moscovita e costantinopolitano, “il popolo russo” (sempre impressionante quest’equazione!) è solidale con la “Chiesa di Costantinopoli”, la quale starebbe subendo un “tentativo di umiliazione o di negazione” del suo portato spirituale. Le considerazioni del governo turco vengono anzi espressamente qualificate di “minaccia”, e immediatamente si giunge all’affermazione assai forte per cui “i fedeli ortodossi russi” continuano a considerare Santa Sofia un tempio cristiano.
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Tutto ciò dice di una concezione particolare della storia: è senz’altro vero che Santa Sofia nacque (non sappiamo bene se per volere di Costantino o del figlio Costanzo II) come chiesa cristiana; che fu rimaneggiata da Teodosio II e soprattutto portata allo splendore in cui tutto sommato ancora la vediamo (quanto alla struttura) sotto il grande Giustiniano – insomma che reca le impronte dei più gloriosi imperatori cristiani antichi –; ma non lo è meno che quando nel 1453 Maometto II espugnò la città la chiesa fu saccheggiata, profanata a suon di grassazioni e stupri… e poi “convertita ad Allah” (e durante il sacco della “Nuova Roma” i “romani” cercarono riparo nelle chiese, ma senza trovarlo, ché l’Ottomano non era certo un Goto…).
Si trattò di una rapina, certo, e di una rapina bellica, ma i cui effetti sarebbero rimasti infallibilmente in vigore fino al 1935, quando il presidente Atatürk cercò di trasformare la Turchia ottomana (quella sorta con il sacco di Costantinopoli e tramontata con il genocidio degli Armeni) in una Turchia moderna e portabile sullo scenario mondiale. «Fu un grave errore – disse Erdogan nel 2019 – aver trasformato Santa Sofia in un museo», e ci sono stati diversi altri atti politico-religiosi che hanno illustrato la ferma volontà del presidente-sultano di re-islamizzare la “repubblica” turca.
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Questo è il contesto in cui il patriarca Kirill prende la parola, e il suo intervento suona tanto più forte quanto più assordante risalta il silenzio dell’omologo costantinopolitano, Bartolomeo, a cui l’estrema debolezza politica (il Fanar a Istanbul è ormai una specie di “riserva indiana” per cristiani tra ottomani) consiglia di dedicarsi all’ecologia integrale – e anche lì, senza scendere troppo nel dettaglio sulle politiche del governo.
Del resto, c’è ben altro nelle politiche del presidente-sultano che dovrebbe interrogare l’Occidente – a cominciare dalla funzione di “guarnizione” che la sua Turchia opera tra l’Occidente e i profughi dalla Siria (ma non si trascurino le sue “mediazioni” in Africa sulla sorte dei migranti) – e non sono pervenute le vibrate proteste dei nostri Paesi. Sembra di poter rileggere con frutto alcune celebri righe di Henri Pirenne:
Per quanto incivili fossero i Turchi, erano almeno nell’arte militare uguali agli Occidentali. Essi avevano vascelli da guerra, artiglieria, una cavalleria incomparabile, l’impeto brutale ed il fanatismo eroico dei primitivi. D’altra parte, gli Stati che più avevano interesse a combatterli, quando anche fossero stati più potenti, o non lo volevano o non lo potevano. I Veneziani pensavano solo a conservare i loro banchi commerciali. La Germania suddivisa era incapace di ogni sforzo e abbandonò gli Ungheresi a sé stessi; e questi, che altro potevano fare se non limitarsi a difendere le loro frontiere? Quanto ai Serbi ed ai Bulgari, erano spossati. Allorché Maometto II, nel 1452, pose l’assedio a Costantinopoli, nessuno venne in aiuto della città. La sua caduta era fatale. E non bisogna rimproverare l’Europa di non essersene interessata. Lo sforzo che avrebbe dovuto fare era troppo grande. Essa lo comprendeva bene. Fin dal momento che l’Impero bizantino non aveva potuto difendere l’Asia Minore contro i Turchi, Costantinopoli era perduta. Non ci si meravigli dunque se gli Occidentali non hanno ascoltato Enea Silvio (Pio II) e Nicola V. Sapevano bene che bisognava rassegnarsi all’inevitabile. L’onore almeno fu salvo. Costantino XI terminò degnamente la lunga serie degli imperatori che si legavano direttamente agli imperatori romani, di cui ancora portavano il titolo. Il giorno dell’assedio, il 29 maggio 1453, egli morì combattendo. L’indomani, in mezzo a saccheggi e massacri, il vincitore entrò nella basilica di Santa Sofia e la trasformò in moschea, omaggio incosciente di un barbaro alla civiltà superiore su cui aveva trionfato.
Henri Pirenne, Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo, Firenze 1956
L’argomento usato dal patriarca russo, per cui il presidente turco dovrebbe usare prudenza circa quel che fa in Turchia con i beni dello stato turco – perché «la Russia è un paese a maggioranza cristiana ortodossa» –, ha un che di non perspicuo che cozza con la compassata solennità della dichiarazione. Eppure il senso è chiaro: potrebbero esserci delle ripercussioni politiche, suscettibili di incidere sulle “relazioni molto intense” del versante commerciale come su qualunque altro versante dal quale il Cremlino potrebbe voler compiacere il Patriarcato muovendo contro la Turchia.
Nel XV secolo Costantinopoli «preferì diventare turca piuttosto che papista» (altra celeberrima espressione di Pirenne), ma le “Rome” erano ancora due: la terza stava facendosi le ossa nel vasto Rus’ a nord dell’antico ma indebolito principato di Kiev, e quando il denaro di Mosca e la povertà di Costantinopoli furono sufficienti a combinare l’affare, il trono zarista e la cattedra fanariota si sedettero a tavolino per formalizzare la transazione: nel 1593 l’esangue Costantinopoli “creava ecclesiasticamente” la rampante Mosca e ne veniva rimunerata come da accordi. Di lì in poi (i “periodi abbastanza difficili” a cui Kirill fa laconico accenno) fu tutto un braccio di ferro tra nobiltà ecclesiale decaduta e parvenus ecclesiastici, il cui refrain moscovita era in sostanza “come fai a pretendere di governare tutta la Chiesa ortodossa nel mondo se non sai tutelarti neanche in casa tua?” Arduo non leggere, ancora oggi, questo sottotesto tra le righe di Kirill (e nel silenzio di Bartolomeo). Nel frattempo è difficile immaginare che le arti diplomatiche dell’antica (e unica) Roma se ne restino inerti, ma le loro vie restano ipso facto insondabili: sembra che si debba arrivare in questi giorni al redde rationem di processi pluridecennali e anzi secolari, e sarà bene che ci prepariamo a seguirne la cronaca con un occhio alla storia.