Sull’inserto femminile di maggio de L’Osservatore Romano, Donne Chiesa Mondo, la parola ad un attento ascoltatore della natura femminile.
In una settimana ascolta più di duecento donne.
«Ci sono le bambine di 7-8 anni del Catechismo, una trentina, le guide Scout, una ventina, le studentesse della scuola media, altre venticinque. E poi le confessioni, la direzione spirituale, il gruppo dei fidanzati, degli sposati… Arriviamo a più di duecento».
Più del numero -ragguardevole!- stupisce il verbo: le ascolta. Non è proprio essere ascoltate sul serio la richiesta che facciamo più spesso (e più scompostamente) agli uomini della nostra vita?
Io sì e lo so perché mi ascolto mentre, qualche volta berciando, la infliggo alle orecchie di mio marito.
Leggendo l’intervista di Elisa Calessi a Padre Maurizio Botta, ho la conferma che ci sono uomini che sono in grado di ascoltare persone di sesso femminile senza per questo accusare malesseri psicofisici. E tra questi c’è anche il marito di cui sopra.
Il pezzo è pubblicato nel numero in uscita di Donne Chiesa Mondo, inserto mensile de L’Osservatore Romano. In un palleggio ritmato di domande e risposte si scopre di assistere al match decisivo nel torneo perenne della vita umana, quella condivisa, abitata da uomini e donne reali, sposati, consacrati. La sofferenza delle donne non è dovuta agli uomini in quanto tali, ma, semmai, in quanto non abbastanza tali: padri, presenze virili, sostegno reale, semplificatori, custodi.
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Padre Maurizio Botta, prefetto dell’Oratorio secolare di san Filippo Neri, famoso in tutta Italia per le catechesi dei Cinque Passi, somiglia a un don Camillo del ventunesimo secolo. Potrebbe ribaltare una scrivania, sfidare il sindaco del paese e, nello stesso tempo, ha una sensibilità e intelligenza acutissime. Doti che, sommate alla fede, fanno di lui un fenomenale esperto di umanità. In particolare di umanità femminile. Lo incontriamo alla Congregazione dell’Oratorio, sua casa, a pochi metri dalle stanze dove ha vissuto san Filippo Neri.
Se, come ci auguro, ci siamo a sufficienza immunizzati dal virus del “dagli allo stereotipo” non faremo fatica a riconoscere maschi e femmine, fin da piccoli, caratterizzati da alcuni tratti distintivi, con tutta la fantasia che Dio mette nel chiamarci ognuno ad essere quel che è, unico e diverso da tutti.
I maschi quindi da cosa sono interessati soprattutto? Dalla competizione. E le femmine?
(…) i bambini sono interessati al confronto delle prestazioni tra di loro (dal confronto tra di loro sulle prestazioni, alle questioni scientifiche), le bambine, invece, alle relazioni, a chi è più amica dell’altra. (Ibidem)
Non basteranno bancali di Barbie consegnate a domicilio al grido di “puoi essere tutto ciò che vuoi” a costringere bambine (o sfortunati bambini) a soffocare in culla la loro propria natura, fatta di inclinazioni al servizio della loro vocazione.
Il bisogno di una vera paternità
E una volta passata l’età del gioco, cosa succede? si domanda la giornalista emiliana ormai romana d’adozione, che infatti incalza:
E quando crescono, cosa chiedono?
C’è una richiesta smisurata di paternità. E questo è amplificato dalla pornografia del mondo in cui viviamo. C’è un desiderio fortissimo di un luogo sicuro, di un rapporto affettivamente forte, ma non erotizzato, in cui puoi essere te stessa.
Che l’erotizzazione esasperata sia arrivata ovunque, aggredisca tutti e fin dalla più tenera età è purtroppo un’evidenza e un’esperienza a cui è difficile sottrarsi. Il pensiero che sia così e che il mondo degli adulti non abbia ancora voluto costruire un muro invalicabile a questa piena putrida, mi fa arrabbiare come poche altre cose. Il porno è devastante, dovremmo sradicarlo da ogni terreno. Ma più che associazioni di scopo e battaglie sociali quello che farebbe la differenza, una casa alla volta, sono i padri, gli uomini virili, quelli per cui sai che anche se fuori infuria la guerra e abbonda la violenza tu, in fondo, sei al sicuro.
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Il mito tardo moderno della donna forte? Quella di oggi è solo durezza
Elisa ha ragione a chiedere conto del ruolo che ci troviamo addosso più che come abito di sartoria come camicia di forza
Eppure la donna, oggi, sembra più forte.
Più dura, ma non più forte. Ci sono abissi di fragilità. Il problema è che non ha luoghi dove manifestarla.
Eccola, la questione: sembriamo in perenne allenamento, con un personal trainer un po’ invasato che ci urla nelle orecchie “sei tosta, devi farcela, non hai paura di niente, non hai bisogno di nessuno!”. Ma quando mai? E, soprattutto, chi ci ha iscritto in palestra?
L’opera di smantellamento dei veri luoghi comuni prosegue: non avevamo già sulla punta della lingua tutte noi l’idea un po’ dogmatica che tra donne ci sia immediata e disinvolta sorellanza, complicità, profondo sostengo? Ma un vero ascoltatore di donne non è così d’accordo.
Le donne sono sempre solidali. Nelle serie tv, forse
Nemmeno tra donne?
chiede la Calessi cercando di capire se nemmeno tra noi troviamo lo spazio per manifestare la nostra fragilità coperta da durezza.
Senza nemmeno tentare di mediare (evviva gli uomini!) Padre Maurizio chiarisce:
Soprattutto. Io vedo la difficoltà di tante donne a trovare rapporti di vera amicizia tra donne.
Siamo figlie se troviamo veri padri. Allora saremo anche spose
La donna ama prendersi cura, è un compito che la gratifica. Succede così quando troviamo pozzi per la nostra sete: proviamo soddisfazione. Lo vede nelle capo scout, ad esempio. Ma assecondare la nostra attitudine a “prendersi cura” non basta. Cosa ci basterebbe, dunque? A guardarci come creature a immagine di Dio la risposta è “niente se non Dio stesso”. Ed è certamente così, ma nel tragitto che compiamo dallo scocco della nascita al bersaglio dell’eterno scopriamo che proprio in quanto figlie abbiamo bisogno di vera paternità, premessa necessaria a qualsiasi futura sponsalità, anche quella “iper” della vita consacrata. Lo dirà, Padre Maurizio: o un consacrato (e consacrata) è iper paterno o materno e ipersponsale o la sua consacrazione è un fallimento. E cosa fa un padre, un uomo virile che sa governare la propria forza e aggressività tenendola per il servizio delle persone che gli sono affidate? Protegge, anche dalla sensibilità che fa vedere tutto urgente, importante, degno del nostro intimo struggimento. Così chiarisce Botta:
Torniamo alla paternità. Cosa vuol dire per te essere “padre ” e dunque “avere cura” di una donna?
Significa a volte relativizzare, senza banalizzare, la sofferenza. Significa essere “virili” nel senso etimologico. Virile viene da vis roboris, quercia. È l’essere quercia. Ogni tanto una donna ha bisogno di andare contro qualcosa e dare dei pugni, vedere che regge. Poi si riparte. Perché le donne hanno una determinazione incredibile. Però hanno bisogno di uno spazio in cui trovare una virilità che non sia infantile, una figura paterna che incoraggia e dica: «Tu sei bella, ce la fai, io ti stimo, vai non avere paura».
Difficile per le donne di questo tempo trovarsi a maneggiare un desiderio per il quale non ci sono definizioni approvate né interlocutori ufficiali. Ma un bisogno radicale non smette di essere tale, anzi diventa più pericoloso perché viene ridotto al rango di semplice malessere o impugnato come sintomo di emancipazione non riuscita o di quella debolezza che alla uoma che ci vogliono far diventare non è concessa.
Le donne nella Chiesa. Una novità, ma fin dal principio
Oggi è Santa Caterina e proprio lei cita Padre Maurizio per dimostrare quanto sia non solo possibile ma fecondissima e anzi irrinunciabile l’azione del genio femminile nella Chiesa, dalla formazione alla direzione spirituale.
Una donna può fare direzione spirituale?
Senza dubbio. Ci sono sempre state nella Chiesa delle madri spirituali. Santa Caterina da Siena, in pieno Medioevo, lo è stata. E continua a esserlo. C’è un suo testo, nel Dialogo sulla Divina Provvidenza, che per la mia vita è più luminoso di qualunque altro. Ha ragione Giovanni Paolo II: c’è un genio femminile di cui non possiamo fare a meno.
La Chiesa ne ha bisogno?
Certo. Io, per esempio, penso che i seminaristi dovrebbero essere mandati per un periodo in una famiglia. Per vivere la vita reale di una coppia, con dei bambini. Dovrebbe essere una prova obbligatoria per vedere se sei adatto a fare il prete.
Senza cedimenti a istanze imposte dal vento del mondo che si abbatte, seppur meno gagliardo dello Spirito Santo, sulle nostre teste, la presenza delle donne nella Chiesa e il riconoscimento della loro voce è importante. Lo è da sempre, da subito, dagli anni di predicazione di Cristo, anzi no da prima, dal suo concepimento nell’utero di Maria Vergine. Da prima ancora, forse! Dio ha bene in mente quanto il peccato originale abbia ferito la nostra natura, quella femminile in determinati modi, quella maschile in altri; ma soprattutto come abbia disturbato la nostra meravigliosa reciprocità. Che è quanto di più esaltante e avventuroso sia dato incontrare nell’orizzonte terreno. Più dei figli, oserei dire. Ma questa potete prenderla come considerazione personale e del tutto discutibile.
Torniamo ai preti.
Non si è ancora arrivati, in tanti sacerdoti, a un equilibrio nel rapporto con la donna. O c’è ambiguità o c’è una misoginia strisciante.
C’è la necessità, nella Chiesa, di più donne formatrici?
Sì, ma senza farne una ideologia. Ci sono suore di clausura che tutti i seminaristi dovrebbero conoscere. O madri di famiglia a cui chiederei un parere su un seminarista e sono certo che il loro giudizio sarebbe prezioso. Poi, certo, vanno bene le teologhe, le bibliste. Ma queste ci sono già.
Un giovane prete all’antica? No, un prete di Cristo, della Chiesa. Punto.
Padre Maurizio Botta, prefetto dell’Oratorio secolare di san Filippo Neri, Padre Maurizio Botta viceparroco a Santa Maria in Vallicella. Da alcuni anni collabora con l’Ufficio catechistico della Diocesi di Roma.
Originario di Biella, laureato alla Bocconi in Economia aziendale e promettente rampollo di industriali tessili piemontesi, trova invece nel sacerdozio la promessa più allettante per la propria vita.
“Un giovane prete all’antica”, così lo definiscono quelli de Le Iene in una memorabile e ormai un po’ datata intervista (risale al 2013) nella quale Padre Maurizio “buca” schermi e cuori con uno sguardo dritto, deciso e buono perché riconciliato a suon di ragioni rocciose come solo Cristo può offrirne.
“Io sono un sacerdote di Cristo, un sacerdote della Chiesa, punto”. Ma è un’altra la risposta dirimente che Padre Maurizio dà all’incalzare dell’intervistatore: “Per il meglio”, risponde. E gli era stato chiesto perché un giovane fidanzato e con una buona istruzione avrebbe dovuto farsi prete. “E che cos’è il meglio?”
“Gesù Cristo”, risponde con una pietra tombale (ma di quelle che rotolano via dai sepolcri) Padre Maurizio.
Di antico c’è ciò che nella Chiesa resta sempre attuale e nuovo, la verità tutta intera della nostra fede.