Con la mascherina, ma senza maschere: così ci ha trasformati la quarantena. Riflettiamo allora su chi siamo, su cosa sia davvero educare e quale scopo persegua. Alessandro D’Avenia e la sua voce, pacata ma decisa, per farsi sentire anche dall’ultima fila.Dall’ultimo banco anche questo lunedì Alessandro D’Avenia ci recapita un’articolata considerazione. La prima è proprio la considerazione! Chi sono io, perché mi sento sempre in gara, a quale divinità continuo ad offrire in sacrificio le mie energie, i miei desideri, il mio presente?
Chi sono i nuovi dei a cui facciamo sacrifici?
Prende spunto da un fatto nemmeno troppo piccolo, a pensare che è il compito di una bambina di 10 anni:
«Ansia» è stato il nome scelto da una bambina di quinta primaria, quando una collega ha chiesto alla classe di inventare una divinità, dopo aver spiegato loro che gli antichi divinizzavano ciò che ha potere sulla vita: Destino, Invidia, Bellezza… La decenne ha così giustificato la scelta: «Mia madre mi dice sempre che, se non mi impegno, non troverò lavoro». Gli dei contemporanei non sono meno crudeli ed esigenti di quelli antichi. I sempre più diffusi disturbi alimentari e di apprendimento sono in parte ribellioni alla vita come «concorso» basato sulla «prestazione», anziché «percorso» centrato sulla «presenza». Abbiamo rinunciato alla lettura vocazionale della vita, che è pur evidente in ogni elemento del creato, mai statico ma sempre proteso verso un compimento che lo ispira e lo guida come scopo. (CorSera)
Ho una figlia in quinta elementare, mi ostino a chiamarla così, allo stesso modo in cui si chiama penna la biro, confidando nella continuità di scopo, almeno. E grazie a Dio e alla scuola che abbiamo intercettato nell’offerta del nostro territorio la sua esperienza è in parte preservata da questo rischio: è una scuola paritaria, nata da un’associazione di genitori, audaci visionari e onesti responsabili del proprio mandato. Ma il resto del coro che canta nelle nostre vite spesso (non sempre! non bisogna insuperbirsi nemmeno nello scontento!) esegue in loop la stessa melodia, a ritmo sincopato; che parte in levare senza il battere che dice “tu ci sei, vali, ti amo prima, sono contento e basta”. Si comincia sospesi, richiesti di fornire prestazioni fin dalla più tenerissima età.
L’autostima da sola non basta. Serve scomposta gratitudine per la novità che tu sei, che tutti siamo
Per chi abbia fresca anche se non recente l’esperienza della nascita di un figlio o anche di un nipote: sa che rispetto alla novità assoluta e scompigliante che è un bimbo tutto nuovo il primo, cronologico e logico senso che si sperimenta di fronte a lui/lei è che è bello che l’altro ci sia. E basta. L’onda di piena dell’ansia da prestazione materna non tarderà a giungere come la montata lattea ma gli argini ci sono. Perché la simbiosi con la mamma, necessaria e insostituibile, ha bisogno della ferita che solo il padre sa insegnare (con la prontezza di un bradipo ho letto due giorni fa Il Padre, l’assente inaccettabile dell’ottimo Claudio Risè). Forse è lo stesso figlio che la chiede come chiede di nascere dando inizio al parto. E così anche la scuola non può essere troppo a lungo “materna”. Evviva allora gli insegnanti maschi.
Prosegue D’Avenia
Ma al rispetto per la vita delle e nelle cose, che richiede tempo e cura, preferiamo più sicuri standard esteriori che danno l’impressione del compimento, ma mortificano l’originalità. Ci dicono chi essere invece di chiederci chi siamo e di aiutarci a diventarlo, come fa un giardiniere dando a ogni seme ciò che gli serve. Dice l’adagio: «Un seme nascosto nel cuore di una mela è un frutteto invisibile», perché la vita (frutto) e la sua fecondità (frutteto) è nella vita stessa (seme). (ibidem).
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Tutta questione di senso. Lo ritroviamo?
Educare è mettere l’invisibile in condizioni di rendersi visibile, ma richiede attenzione, pazienza e rischi. In questo periodo siamo «costretti» a guardare bambini e ragazzi da vicino, il che comporta più fatica del solito, ma è un’occasione da non perdere. (Ibidem)
Educare è questione di rapporto, tra un io, in viaggio quanto vuoi ma già irriducibilmente tale, e un tu, a sua volta nel pieno della partita ma non più adolescente, con un che di compiuto da rischiare nella sfida con chi è nuovo ed è venuto al mondo per sconvolgere, come il Cristo di Peguy che disturbandosi ha disturbato il mondo (certe immagini rimangono impigliate nella rete dei ricordi più caparbiamente di altre).
Perché l’invisibile diventi visibile è necessario che resti a lungo nascosto, che si sappia che c’è anche quando non dà segni in superficie. Un fiume che vedi alla foce, sicuro nel suo corso diventato placido e con tutta la sua consolidata portata d’acqua, il grosso del lavoro lo ha fatto a monte, alla sorgente e ingrossandosi strada facendo, in tanti casi persino sotto terra, nei suoi tratti carsici. Quando dell’apprendimento ho capito questo, soprattutto rispetto ai miei figli, ho trovato una certa pace e maggiore tenacia: educare significa insistere, ripetere, tornare a offrire, lasciare il tempo, non aspettarsi niente nell’immediato e sperare tutto fino alla fine.
E per assurdo può anche restare nascosto per sempre ai più, o almeno non acquietarsi in semplice visibilità. O meglio, chiediamoci: da chi devo essere visto, per chi ciò che è nascosto, informe, in via di sviluppo deve venire alla luce? Non si tratta di sicuro del pubblico, né dei più recenti followers, nè del gruppo soltanto.
Serve di sicuro per i nostri figli la certezza che ci sia un senso alla loro vita, alla nostra, e che riesca ad abbracciare persino quella dell’ape e della ben più antipatica vespa.
Tutta questione di tempo. Ora ne abbiamo?
La costrizione di questo tempo, non così tanto ampio né così tanto vuoto, potremmo dire dal di qua degli schermi noi mamme e papà con figli in età DAD (didattica a distanza), è un’occasione particolarmente drammatica per trovarci sì costretti ad indossare mascherine per uscire (pochissimo) di casa, ma spogliati delle maschere che prima indossavamo più abitualmente e abilmente. Spazi vuoti, senza prestazioni richieste oltre i test e i compiti al computer, senza esibizioni (salvo chi abbia una carriera sul web già ben avviata). Non sarebbe bello lasciarsi scioccare da questa scoperta, ovvero che ognuno è un originale (non una fotocopia, come diceva Carlo Acutis), impossibile da inquadrare, che ci obbliga a scrivere giudizi a mano, senza formulari standard né caselle delle competenze da spuntare?
Ora che il “traffico” si è ridotto nelle nostre vite trafelate non servono più tanto vigili e semafori, rotonde e svincoli. Serve una mappa, occorre una destinazione e soprattutto dobbiamo riscoprirci viaggiatori.
Essi cercano sempre di evadere/ dal buio esteriore e interiore/ sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’esser buono. (Cori dalla Rocca di T.S.Eliot)
Perché non serviamo altre divinità, per esempio la dea Vocazione?
Conclude D’Avenia riflettendo sui fini propri di una relazione educativa e ragionando su quelli che la scuola di oggi soddisfa e su quello che invece trascura:
Una buona relazione educativa raggiunge tre fini: cultura, autonomia, vocazione. Siamo forti sul primo, infatti l’attenzione ai programmi sovrasta quella prestata alle vite; fatichiamo sul secondo (i ragazzi diventano capaci di fare da soli o li «addestriamo»?); sul terzo ci si affida al buon cuore dei singoli docenti (e alla paternalistica domanda finale della maturità: che farai?). (…) Non resiste alle pressioni chi non ha vocazione, le energie sono ingabbiate o disattivate e, prima o poi, entra nella crisi di chi non vive la propria vita. (…) La quarantena è un’occasione per guardare bambini e ragazzi, e cogliere nelle loro fissazioni, passioni, parole, paure, slanci, fragilità… l’origine che li rende originali. Potremmo magari provare a redarre giudizi diversi e unici — come è ogni figlio, ogni ragazzo — per affidarlo alla dea Vocazione.
Ci si può attardare sul tema della motivazione, sulla spinta dirompente ma effimera dell’ambizione, sul desiderio di cambiare fine a sé stesso: ma se una cosa possiamo mutuare dal troppo pervasivo linguaggio manageriale è che ciò che muove le energie migliori e chiama a raccolta anche le più nascoste è la vision: chi vuoi essere in futuro e come inizi a costruirlo adesso? E più ancora: per chi vuoi essere qualcuno? a chi rispondi della tua vita, arrivata in dono? E prima ancora chi sei già, di che cosa è costituito il tuo inafferrabile io, mai riducibile all’elenco delle capacità, dei talenti, o peggio dei voti conseguiti?
Servono maestri (possibilmente maschi, ma questa è una Nota del Redattore!)
La scuola è sempre nello sguardo dei maestri, rivolto al concreto e irripetibile darsi della vita, e non solo nelle soluzioni tecnico-organizzative. Il fine della vita è la bellezza: un seme di rosa o un bruco di farfalla lo dimostrano. Ciò che è vivo non ha copie, e una pedagogia priva della stella polare della bellezza da compiere, a partire da quella che gradualmente e fragilmente si manifesta, fa violenza all’originalità e spegne la vita, consegnandola alla crudele dea Ansia. (Ibidem)
Ora che la spinta degli hashtag andràtuttobene e iorestoacasa si sta esaurendo occorre tornare a fonti di energia rinnovabili e del tutto biocompatibili. Dietro ogni sguardo, un giacimento.
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