Sulla scorta di una riflessione dello psichiatra cattolico Tonino Cantelmi, guardiamo dentro casa nostra: non è uno scandalo riconoscere che i rapporti domestici si fanno tesi, anzi si apre un orizzonte fondato sul perdono e non sulla nostra autosufficienza. Virale non è più un bell’aggettivo da usare, eppure lo si legge ancora spesso per documentare i flashmob e i video di iniziative sui balconi italiani che si guadagnano una grande visibilità. Ieri, tornando da un giro per la spesa di ben 500 metri, ho visto la portafinestra di una casa del mio quartiere completamente coperta da un cartellone con la scritta: «Noi, distanti ma vicini». Sì, ma chissà cosa succede dentro quella casa dove si sta fin troppo vicini? – è stato spontaneo chiedermelo.
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Esporre non è la stessa cosa di mostrare. Sul balcone si intonano canti di incoraggiamento, si improvvisano tombole di condominio; cosa accadrebbe se semplicemente si tenessero aperte le finestre per mostrare quel che succede in questi giorni di quarantena tra le quattro mura di casa? Insomma: ci sta bene tenere in casa in panni sporchi e sventolare fuori quelli bianchi e dipinti?
A scanso di equivoci, lo dico subito. In casa mia si litiga di più. Il figlio adolescente ha un tono prevalentemente aggressivo (poi si addolcisce all’improvviso), la più piccola – di 4 anni – ha incubi notturni e piange forte, io stessa ho dei momenti di rabbia che esplodono per un nonnulla. Nessuno di noi è malato, è solo l’effetto di questa quarantena prolungata e non me ne scandalizzo. Lo traduco in un esempio culinario: quando si fa la pizza o il pane si assiste al fenomeno della lievitazione; in un piccolo contenitore l’impasto di farina, acqua e lievito monta fino a traboccare. L’impasto umano che è una famiglia monta a dismisura chiuso nel contenitore di un appartamento abitato h24. Che questa sia un’occasione per lievitare e non solo per esplodere, lo imploro con insistenza.
Orizzonti stretti
Ho trovato una riflessione che mi incoraggia molto, proprio perché fondata non sull’astrattezza di un motto, ma sul volto più struccato e attuale della famiglia : così vicini, da voler talvolta scaraventare se stessi a mille miglia di distanza. Tonino Cantelmi, psichiatra e presidente dell’Aippc (Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici), ha commentato per l’agenzia SIR le parole dell’omelia del Papa a Santa Marta del 21 marzo, e ha posto una domanda che ci interpella senza perifrasi:
Papa Francesco coglie il punto centrale, cioé quello dell’orizzonte. Quali orizzonti abbiamo? L’orizzonte concreto del balcone? Quello dell’economia? Quello del tributo delle vite umane? (da Agensir)
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Per molti versi l’orizzonte è proprio quello che ci manca, siamo immersi fino al collo in una situazione che ci lascia nella nebbia quanto a sintesi complessive, conclusioni e interpretazioni a grande spettro. Capiremo l’orizzonte storico generale solo a posteriori, ma questo non significa che ci sia precluso un orizzonte costruttivo di senso anche adesso, ma di certo non lo si ammira andando sul balcone. L’idillio della famiglia che grazie alla quarantena riscopre una dimensione lenta, pacata, sorridente è finito in fretta. Perché i rapporti sono vivi e incandescenti. Perché le relazioni sono difficili (… non per niente il diavolo ha scelto la via facile della separazione; mentre i veri coraggiosi – si sa – sudano sui legami). Per un po’ ci ha tenuto su di morale l’idea di riscoprire i vecchi giochi da tavolo, di cucinare assieme e seguire tutorial su come ravvivare la vita da quarantena. Posso serenamente dire che tutte le strategie di team building franano al cospetto di quella strana squadra che è la famiglia.
L’abbaglio potrebbe allora essere: stiamo assieme tutto il giorno e finiamo per litigare, per tirar fuori il peggio di noi, per ferirci a vicenda … dunque la mia famiglia è un progetto naufragato? Tutt’altro. È su questo punto che le parole di Cantelmi mi hanno fatto respirare a pieni polmoni:
Per molti questo periodo di forzata convivenza è un po’ il momento della verità: quello di perdonarsi e di ricominciare, o addirittura quello di riscoprire le relazioni familiari. Per molti può dunque essere davvero l’opportunità di scoprire nuove vicinanze. Se per guadagnarsi questa opportunità è necessario passare attraverso un momento di crisi, di litigio o di altro, non c’è da preoccuparsi. Io direi: litigate pure; questo tempo ‘costretto’ tra le mura domestiche potrebbe essere un’occasione straordinaria per ricostruire i rapporti attraverso il perdono reciproco. (Ibid)
L’orizzonte a cui possiamo aggrapparci ora è questo, quello di un’apertura possibile non spalancando le finestre ma i cuori. E si sa che putiferio ci sia nell’intimo di ciascuno; aprire il cuore non innesca una cascata di abbracci e baci schioccanti. NB: accogliere il litigio non significa fomentare odio e violenza. Meglio essere chiari.
La chiusura imposta dalla quarantena ci costringe a vincere un’altra chiusura, quella dell’indifferenza reciproca che poteva sussistere prima: non ci sono vie di fuga alternative per mettere a tacere rancori, fatiche, insoddisfazioni. Si sbotta e si scoppia coi familiari perché quel che è antipatico e indigesto sta prima di tutto dentro di noi; litigare è uno sfogo necessario che, se guardato con pietà, ci ricorda che siamo creature irrisolte e abbiamo bisogno di mettere in mano a qualcun altro il nostro grumo sporco. L’occasione è straordinaria – osserva Cantelmi – proprio perché, sfrondata ogni illusione sulla bellezza astratta delle relazioni strette, possiamo renderci conto che l’unica pietra su cui fondare la nostra casa è il perdono.
La via orante
Mostrarsi poco candidi ai nostri familiari è fonte di speranza più che esporci sui balconi a cantare. Se l’illusione del piccolo felice regno domestico avesse tenuto, allora avremmo potuto credere alla nostra autosufficienza.
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Invece cadiamo e inciampiamo ripetutamente nell’egoismo, nella rabbia, nella logica della bilancia in equilibrio perfetto (“se io ho fatto, allora tu devi fare”); perciò non siamo autosufficienti a darci una consolazione vera dentro il dramma, a darci una felicità duratura. Per quanto sia paradossale, la speranza è proprio nel dire ad alta voce che non siamo autosufficienti. Dobbiamo uscire per fare la spesa, perché non siamo autosufficienti neppure quanto a beni materiali. Dobbiamo a maggior ragione «uscire» dai nostri piccoli e grandi cortocircuiti per cercare una voce che colmi il nostro vero grido (nascosto dietro le grida rivolte alla mamma o al marito, al fratello o anche ai muri): l’uscita più necessaria e che non richiede autocertificazione è mettere a tacere la nostra misura e pregare.
La spiritualità orante aiuta già di per sé. La preghiera interiore, il dialogo con Dio: è questa la dimensione spirituale che davvero aiuta le persone a guardarsi dentro. (Ibidem)
In questo percorso proposto da Cantelmi la preghiera non è un’etichetta apposta a priori, ma un’esigenza guadagnata dentro i fallimenti quotidiani. Con molte meno competenze delle sue e con un eloquio più pedestre io oserei dire che il litigio è stato la premessa per una preghiera sincera in queste settimane. Sbaglio ripetutamente e sono capace di cattiveria ingiustificata; solo trovandomi così esposta nelle mie vesti meno decorose (sarebbe sufficiente dire: vedendo così chiaramente il mio peccato) e non avendo vie di fuga alternative, mi sono trovata di fronte al benefico imperativo di ammettere: ho bisogno di Te. Detto al plurale, come famiglia, è un ulteriore guadagno perché ci libera dal ricatto di esigere dagli altri la soluzione per stare bene. Allora lo ripetiamo spesso: abbiamo bisogno di Te!