E tra le regole auree una: si chiede a un paziente se, in caso di scarsità di strumenti salvavita, vuole avervi accesso o lasciare il posto a chi potrebbe avere più probabilità di sopravvivenza. Anche negli stati “prolife”. Dipende tutto da che “life” ti ritroviIl tema è quello dei criteri per l’accesso alla terapia intensiva, un insieme di interventi che ha lo scopo di sostenere imperativamente le funzioni vitali di un paziente, nel contesto eccezionale dell’epidemia di COVID-19.
Il caso che ha suscitato reazioni è quello degli USA che, di fronte alla stessa emergenza pandemica che, dopo la Cina, ha investito l’Europa, hanno in numerosi stati federali esplicitato i criteri con i quali i medici dovranno decidere chi far accedere alla terapia intensiva e chi no.
La testata che ne ha parlato per prima in Italia, già l’altro ieri, è stata Avvenire:
In Tennessee le persone affette da atrofia muscolare spinale verranno «escluse» dalla terapia intensiva. In Minnesota saranno la cirrosi epatica, le malattie polmonari e gli scompensi cardiaci a togliere ai pazienti affetti da Covid-19 il diritto a un respiratore. Il Michigan darà la precedenza ai lavoratori dei servizi essenziali. E nello Stato di Washington, il primo a essere colpito dal coronavirus, così come in quelli di New York, Alabama, Tennessee, Utah, Minnesota, Colorado e Oregon, i medici sono chiamati a valutare il livello di abilità fisica e intellettiva generale prima di intervenire, o meno, per salvare una vita.
Ho sentito poco fa una collega italiana negli States. A lei, questa notizia, è giunta da fonti italiane; in Usa non ha trovato quasi nulla sui media principali. La stessa percezione dell’emergenza nella popolazione, se si esclude New York, è ancora poco significativa nella popolazione.
Più di 10 Stati hanno esplicitato i criteri per l’accesso alle cure intensive
Fatto sta che l’aumento di casi è così elevato che l’orizzonte non può che offuscarsi e chi è al potere inizia a fare dei conti.
Un certo numero di stati, inclusi Utah, Tennessee e Alabama ha piani di emergenza in cui si impone agli ospedali di non fornire attrezzature mediche come ventilatore a persone con disabilità intellettuali e cognitive, qualora scarseggiassero. Molti gruppi che difendono le cause dei disabili hanno segnalato che queste indicazioni violano i diritti civili e e le leggi federali sulla disabilità. (da UsaToday)
Colpisce che la prolife Alabama reciti nei documenti ufficiali d’indirizzo per fronteggiare questa crisi che «i disabili psichici sono candidati improbabili per il supporto alla respirazione».
Saranno candidati poco volitivi, incapaci di imporre il rispetto dei propri diritti, tutt’al più. (Come il concepito, mi viene da pensare proprio ragionando sulle magnifiche sorti che la “difesa della salute della donna” ha conosciuto oltreoceano).
L’America conta all’incirca 65mila posti in terapia intensiva. Sulla base di uno studio, dal titolo What US Hospitals Should Do Now to Prepare for a COVID-19 Pandemic elaborato dalla Johns Hopkins University ci sono due possibili scenari:
uno pessimista, che vede lo svilupparsi di una pandemia globale diffusa come la Spagnola; l’altro più ottimista, che prevede una diffusione paragonabile alle pandemie influenzali del 1957 e del 1968. (…) Nel caso di una pandemia come quella del 1918, negli Stati Uniti vi sarebbero 9,6 miloni di pazienti ospedalizzati, di questi 2,9 avranno bisogno di essere messi in terapia intensiva. Se invece la pandemia fosse paragonabile a quelle del ’68 o del ’57, gli ospedalizzati sarebbero un milione, con 200mila pazienti bisognosi di terapia intensiva (Open).
La conclusione quasi certa anche senza avere modelli studiati sul COVID-19 che l’OMS deve ancora rilasciare è che i posti in terapia intensiva non sono sufficienti per tutti. Hanno infatti già esplicitato o forse solo richiamato i criteri da usare per decidere a quali pazienti dare precedenza in caso di scarsità di risorse.
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Ho sentito più volte questa definizione: siamo in una condizione tale da dover considerare la nostra medicina una medicina dei disastri. Emergenza grande, generalizzata. Contesto che fa saltare tutto, che spezza le cornici solite nelle quali siamo abituati a leggerci.
Capisco che se un medico è costretto a scegliere debba farlo mettendo sul piatto dei pesi: età, appropriatezza delle cure, speranza di vita, familiari che dipendono dal paziente.
Eppure saltiamo sulla sedia in tanti al solo sentire queste cose: lo sanno anche i muri ormai, ma avendo un figlio con gravissime disabilità dormo sonni sereni “solo” perché mi fido del Signore Gesù. Che si inventerebbe, in casi estremi, il modo di farci uscire da situazioni disperate. Forse persino con il martirio, perché non dobbiamo dimenticarci che la morte ha smesso di essere il nemico numero uno; è declassata almeno al terzo o quarto posto.
A favore della relativa serenità per i genitori di bambini disabili depone anche il fatto che il COVID-19 non è emergenza pediatrica, ma i nostri bambini si ammalano anche di altro e sono fragili praticamente sempre.
Pensiamo agli anziani allora, che non sono una massa indistinta di persone su con gli anni ma sono genitori, nonni, sono persone e non voci di costo. Pensiamo ai genitori o ai fratelli di disabili psichici, ragazzi con autismo, persone con sindrome di Down, anche solo un depresso grave. Come si devono sentire? Male e anche piuttosto arrabbiati, almeno così pare, e ne hanno ben donde.
Criterio aureo? Chiedere al paziente vulnerabile se preferisce essere curato o lasciare il posto a qualcuno di migliore
Basta misurarsi con i testi di queste varie “Gestione di risorse scarse” per trovare tra le regole auree richiamate nei documenti di diversi stati americani questo protocollo, che ora vi riporto. Che non può che agghiacciarci dalla testa ai piedi.
Leggiamo sempre grazie ad Avvenire quanto ha riferito Ari Ne’eman, un attivista americano per i diritti della disabilità che ha co-fondato l’Autistic Self Advocacy Network nel 2006 e docente al Lurie Institute for Disability Policy dell’Università Brandeis.
Si tratta della “regola d’oro” presente in quasi tutti i documenti di gestione delle risorse: si chiede a un paziente se, in caso di scarsità di strumenti salvavita, vuole avervi accesso o lasciare il posto a chi potrebbe avere più probabilità di sopravvivenza. O «maggiore valore per la società». Una regola che «impone una pressione inaudita », conclude Ne’eman.
La vita di un sofferente è talmente preziosa che qualcuno l’ha offerta per salvarci tutti
Se penso alla mia storia, simile a quella di tanti, uno dei dolori più intensi devo imputarlo alla percezione di avere ottenuto dalla società, sebbene non sempre, il messaggio che la grande difficoltà che era toccata a noi dovesse restare affar nostro e anzi, per favore, vedete di non gravare troppo con le vostre esigenze speciali, le medicine costose, gli ausili e i voucher per questo bambino che in fondo è talmente disabile che…
Mentre invece, umanamente, è naturale aspettarsi che più grande è il peso che tocca ad uno solo – e alla sua piccola tribù- maggiore sarà il sostegno degli altri. Resiste eccome anche questo terreno, irrigato dal fiume emerso più spesso carsico, della mentalità cristiana, della fede, della carità che vede nella persona sofferente un bene preziosissimo, inestimabile.
Eppure al sorgere di questo algido sole, la pandemia Covid-19, la paura ha iniziato a farsi strada, proprio per i deboli, per i più vulnerabili. Ora che sembra ormai allo zenit si è evoluta in motivato terrore: se sono deboli in condizioni normali, in situazioni straordinarie lo diventano ancora di più. Terrore, certo che però per un cristiano deve spegnersi nelle acque fresche della speranza certa nella quale siamo salvati.
Ecco cosa riferisce ancora lo stesso Ne’eman,
«Le persone affette da disabilità sono terrorizzate che se le risorse si fanno scarse, verranno inviati in fondo alla fila – sostiene Ari Ne’eman, docente al Lurie Institute for Disability Policy dell’Università Brandeis –. E hanno ragione, perché molti Stati lo affermano in modo abbastanza esplicito nei loro criteri». (Ibidem)
Altro che regola d’oro, è un reato
Criteri in aperta collisione con i diritti delle persone con handicap, sanciti e difesi da convenzioni internazionali. Il Comitato bioetico repubblica S. Marino: dichiara che secondo convenzione ONU sulle persone disabili è reato discriminare accesso alle cure e diritto alla vita in base alle condizioni di salute o alle caratteristiche di una persona.
Mi resta l’obbligo di un’ultima radicale considerazione.
Le sole parole che mi vengono al cuore e da lì risalgono alla mente, portando pace anche in quella, sono quelle di Nostro Signore:
perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. (Vangelo di S. Giovanni, 10, 17-18)
E quanti, ascoltando proprio la Sua voce, lo hanno imitato. La vita io posso offrirla, persino ragionando su quanto possa tornare più utile quella di un altro, come ha fatto per esempio S. Massimiliano Kolbe prendendo il posto di un condannato a morte. Ma lo ha fatto perché la vita vera, e la sua, e quella dell’altro prigioniero e persino quella del loro aguzzino, può essere salvata e trasformata in vita eterna, senza malattie, virus, sindromi respiratorie più o meno acute.
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