Noi siamo certi che Dio non lasci soli i nostri malati in ospedale, affidiamo a Lui tutti quelli che non sentono vicino la Sua presenza e vivono il dramma della solitudine.Questa quarantena mi sta rendendo troppo seria ma credo sia una cosa inevitabile, quando hai il fiato sul collo da parte di qualcosa che non puoi vedere resti sempre sul “chi va là”.
Quando senti il telefono che squilla, la paura che possa essere qualcosa di spiacevole c’è (soprattutto se come me difficilmente ricevete telefonate).
Qui in realtà le cose sono due ma vorrei soffermarmi su una in particolare di cui si parla in continuazione, pure troppo, ma anche questo è inevitabile.
Può colpire chiunque, senza alcuna distinzione, per cui non sai mai a chi può arrivare, se a te, un familiare, un conoscente, un amico, uno sconosciuto.
Indipendentemente dalla categoria di appartenenza, di fronte all’idea che quella persona, se avrà un peggioramento e morirà, lo farà in totale solitudine, spezza il cuore.
Leggi anche:
Ricordiamoci che nessuno può morire da solo
Giustamente se la persona rientra nella nostra cerchia il dolore è ancora più forte, è inevitabile, ma sentire le notizie dei morti per questo virus consapevoli della loro solitudine è un colpo al cuore; è inevitabile.
Prima di andare avanti vorrei raccontarvi una cosa personale.
Tra qualche giorno ricorrono 7 anni dalla nascita al cielo di mia nonna Dirce (si, aveva un nome particolare, per intero era Maria Dirce), con lei avevo un legame speciale, per me era una seconda mamma.
Il 23 marzo, era un sabato, era entrata in ospedale per dei controlli di routine, aveva 80 anni, viveva da sola, aveva fatto colazione da sola come sempre, poi mio fratello con mia madre l’avevano portata in ospedale per questi controlli.
L’hanno ricoverata per accertamenti e la sera di quello stesso giorno, per la cena, la imboccavo perché non era più in grado di mangiare da sola.
Il giorno dopo uguale, ogni tanto si svegliava e ci riconosceva, la sera le parole del medico “è terminale, potrebbe andarsene da un momento all’altro“, a mezzanotte ci chiamano perché stava morendo e alle 2,05 è tornata alla casa del Padre.
Quando ci hanno chiamato perché stava morendo sono volata in auto fregandomene dei limiti di velocità, sono arrivata in ospedale 10 minuti dopo e sono stata con lei, poi sono arrivati anche mio fratello e mia madre.
Non so cosa sia successo in quelle 36 ore (un po’ come i peggioramenti di questo virus) e oramai non mi importa.
Era attaccata ad un respiratore, quelli trasparenti per la respirazione non invasiva che sembrano caschi per gli astronauti (quelli che utilizzano per questo virus), sento ancora il rumore di quel macchinario, ed era immobile.
Mi sono attaccata alla sua mano e ho iniziato a pregare incessantemente fino al momento in cui ha avuto uno (dei tanti in quelle due ore) scompenso cardiaco e ha dato l’ultimo respiro.
Fino a quel momento non sapevo cosa potesse significare la preghiera incessante (scoperta qualche anno dopo), la mia fede ai tempi era molto leggera ma senza nemmeno rendermene conto ho preso un rosario a decina che mi era stato regalato nei primi passi della conversione e avevo iniziato a pregare.
Non pregavo per fare in modo che si salvasse, lo facevo perché la volevo accompagnare nel suo ultimo viaggio e, per quanto sia stato estremamente doloroso, ne sono anche estremamente felice perché so per certo che sapeva che eravamo lì per e con lei.
Leggi anche:
«Era mio padre, non un numero» parla la figlia di Adriano Trevisan, morto per coronavirus
Ho avuto l’immensa fortuna di stare con lei, di farle sentire la mia presenza.
Tornando ad oggi, l’idea che qualcuno debba morire senza nessuno accanto, senza essere accompagnato, senza avere accanto le persone che lo amano, lascia un peso sul cuore. Uno può dire che non se ne rende conto, non se ne accorge, ma resta una cosa che spezza il cuore cosi come doloroso è il non poter dare l’ultimo saluto e stare accanto a chi vive questo peso per non essere stato vicino al proprio caro.
Se fosse capitato ora, sarebbe stato devastante pensare che sarebbe stata in ospedale da sola e che non avrei potuto tenerle la mano facendole sentire che c’ero.
Abbiamo una fortuna (sottovalutata), la preghiera, quella arriva ovunque indipendentemente dalle distanze, dal male, dai virus, quella arriva sempre a destinazione.
L’idea che in quel momento possa esserci accanto Gesù che le tiene la mano al posto mio (o insieme a me quando è successo), quella è una consolazione, una grazia.
Pregare per chi sta soffrendo, farlo anche incessantemente se riusciamo, è una delle cose più belle che possiamo fare, la preghiera è la più grande consolazione per noi e per loro indipendentemente dal fatto che conosciamo o meno quella persona.
È l’affidarsi per eccellenza, come dire “Signore, io non posso esserci, vai tu, fagli sentire che ci sei, che ci siamo, consolalo/la, sana la sua anima, abbraccialo/la nella sua solitudine, fa che senta tutto l’amore che lo/la circonda, so che puoi farlo, so che lo sentirà.”
C’è un legame profondo e indissolubile tra quanti sono ancora pellegrini in questo mondo – fra noi – e coloro che hanno varcato la soglia della morte per entrare nell’eternità. Tutti i battezzati quaggiù sulla terra, le anime del Purgatorio e tutti i beati che sono già in Paradiso formano una sola grande Famiglia. Questa comunione tra terra e cielo si realizza specialmente nella preghiera di intercessione. (Papa Francesco)
Credo sia veramente molto triste vivere con l’idea che una persona muore sola, senza alcuna consolazione, nel vuoto di una stanza d’ospedale rende tutto più devastante, per cui comprendo la loro rabbia e il loro dolore.
Leggi anche:
La vera speranza non vuole previsioni, s‘inoltra lieta nel buio
Coloro che ci hanno lasciati non sono degli assenti, sono solo degli invisibili: tengono i loro occhi pieni di gloria puntati nei nostri pieni di lacrime. – Sant’Agostino