Nella preghiera dell’atto di dolore diciamo che «peccando ho meritato i tuoi castighi». Possiamo allora dire che il coronavirus è un castigo mandato da Dio all’umanità? La risposta del teologo: «Dio con questa epidemia c’entra eccome! Ma nel bene»Il vescovo di San Miniato, Andrea Migliavacca ha scritto, a proposito del Coronavirus: «Non è Dio che ci punisce, non stiamo vivendo l’inizio dell’apocalisse o la fine dei tempi». Eppure su questo c’è contrasto tra fedeli. Se è vero che Dio è solo un Padre buono ed è appurato che tutto ciò che avviene è per sua permissione, come può il vescovo affermare che non vi è la mano di Dio? Un buon padre non punisce forse i propri figli? Perché nella preghiera dell’atto di dolore diciamo che «peccando ho meritato i tuoi castighi»?
(Lettera firmata)
Risponde don Francesco Vermigli, docente di Teologia dogmatica
La lettera a cui rispondiamo, prende spunto dall’intervento del vescovo di San Miniato Migliavacca, nel numero di Toscana Oggi dell’1 marzo scorso. Nella domanda del lettore si incrociano vari aspetti, che pare opportuno distinguere. L’autore della lettera introduce in modo speciale due argomenti: la tolleranza divina per il male e la punizione dell’uomo da parte di Dio. Su quest’ultimo punto chiama in soccorso l’esperienza comune di un padre che punisce il figlio per il suo bene e la formula dell’atto di dolore più comunemente recitato, nella quale il penitente dichiara di aver meritato i castighi di Dio.
Innanzitutto notiamo che ciò che il lettore chiama in causa, si riferisce a qualcosa che deriva da una colpa personale, come nel caso di un padre che punisce un figlio o nel caso di una situazione che vive un peccatore in conseguenza dei propri peccati. Ora, pensiamo che il lettore non voglia intendere che coloro che subiscono danni o addirittura la morte dall’attuale epidemia, siano colpiti come conseguenza dei loro peccati personali. È sufficiente appellarsi all’episodio raccontato da Gesù in Luca 13,4, la torre di Siloe che cadendo su diciotto persone, le uccise: «credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?». Notiamo il parallelo con l’episodio della torre di Siloe: come in Luca 13 anche qui il male è pre-morale, perché è un male non legato all’azione di alcun agente umano e non meritato, secondo le parole di Gesù, da coloro che lo subiscono.
Eppure, il parallelo continua. Perché forse è proprio questo episodio raccontato da Gesù e il modo con cui Gesù stesso ci invita a leggerlo, che può aiutarci a capire meglio la nostra situazione attuale. Dice Gesù che no, essi non erano colpevoli più degli altri abitanti di Gerusalemme, «ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,5).
Perché anche questo versetto può fare al caso nostro? Perché anche questa situazione così sofferente che viviamo, diventa un appello alla conversione dei cuori.
Dobbiamo dunque dire che Dio non c’entra con questa epidemia? No. Anzi: c’entra eccome! Ma nel bene. Cosa intendiamo dire con queste parole? Intendiamo dire che ogni crisi, anche una crisi civile e sanitaria come quella del Coronavirus, può davvero diventare occasione di una conversione del nostro modo di stare nella realtà. Possiamo dunque affermare che il male pre-morale può, anzi deve diventare un bene morale: la diffidenza sociale dovrà sostituirsi con la prossimità ai sofferenti – nonostante le pur doverose misure precauzionali – l’egoismo deve lasciar spazio alla carità, l’indifferenza religiosa farsi fiducia costante nel Signore.
Si può, anzi si deve far entrare Dio in questa vicenda. Di Dio si deve invocare la presenza, farsi prossimi ai malati, impegnarsi responsabilmente per il bene comune. Alla Chiesa, in un contesto come questo, è richiesto in un modo del tutto particolare e profetico di farsi testimone di speranza e di fiducia nella forza e nella benevolenza di Dio per gli uomini.