Un grido di aiuto e di disperazione: ancora una volta gli ultimi, ancora una volta invisibili e non solo perché costretti a casa dalla quarantena. Storie di speranza si mescolano ad altre di grande prova: la delicata condizione dei disabili e delle loro famiglie chiede una risposta umana oltre che sanitaria.E’ davvero strano il modo in cui, dall’inizio della pandemia da Coronavirus, ci siamo rapportati alla parola “fragilità”. Prima uno scudo, quello che difendeva i più deboli di noi, anziani, malati, immunodepressi, che li metteva al primo posto nei nostri pensieri, per cui tutti abbiamo fatto appello alla nostra responsabilità, alle risorse, per tenerli al riparo da quel qualcosa verso cui hanno minore probabilità di farcela. Poi, mano a mano che tutti ci siamo scoperti fragili o comunque, più fragili del solito, mano a mano che l’isolamento, lo stravolgimento della normalità ha portato alla luce piccole crepe allargandole come voragini, dall’incapacità di gestire i rapporti familiari ravvicinati per troppo tempo, all’ansia per il futuro, alla messa in discussione delle certezze, mano a mano che gli ospedali si riempivano di gente “normale” quello che era scudo si è tragicamente trasformato in gogna: i posti nelle terapie intensive non ci sono, così “fragile” è diventato la spada di Damocle tra “dentro” e “fuori”, tra “cura” e “sedazione profonda”.
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Lo so che in condizioni estreme si tenta di salvare il recuperabile e che la “medicina delle catastrofi”, come l’abbiamo imparata a chiamare in questi giorni, non è la routine né il principio guida della sanità, almeno non nel nostro paese dove, posso affermare con gratitudine e fierezza, la vita dei deboli ha ancora più valore di una Gran Bretagna che si prepara semplicemente e con fredda serenità a “perdere molti cari”. Nonostante questo, non posso fare a meno di mettermi un po’ nei panni di quei deboli, di quelli che vivono non solo col peso dell’isolamento ora, ma anche con la certezza di essere gli ultimi davvero, senza la speranza neanche della cura, con la certezza, ancora una volta, di essere lo “scarto”. Loro continueranno a fare quello che fanno sempre: a resistere in un mondo in cui non sembra esserci mai abbastanza spazio e non solo in tempo di pandemia. Ma, come ricorda Sara Bonanno, mamma caregiver di Simone, affetto da grave disabilità che richiede assistenza continua, è la solitudine in cui sono, soprattutto ora, lasciate molte di queste famiglie, prima ancora della fragilità intrinseca delle condizioni di salute, ad atterrire e spaventare:
Stanotte l’ho passata in piedi perché mio figlio ha avuto due attacchi epilettici. Ho dormito un’ora solo quando è venuto l’infermiere. Ho sulle spalle di trentasei ore di veglia…
Il mio timore è che se un operatore si ammala io sono finita: comincio a non rendermi più conto dei farmaci che ho dato a mio figlio, a dimenticare di accendere il respiratore. Stare da soli vuol dire cominciare a uccidere mio figlio. Nessuno è in grado di lavorare trentasei ore di seguito (da L’Espresso).
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Anche per i disabili non gravi, la perdita di socialità, la chiusura dei centri diurni, delle scuole, il semplice stravolgimento di quella routine che dava sicurezza, è un cambiamento difficile da interiorizzare. Per fortuna ci sono storie di solidarietà e lavoro di squadra come racconta a Vanity Fair Antonella Misuraca, presidente dell’associazione GRD Genitori Ragazzi Down Bologna. Senza nascondere i problemi e i limiti dei decreti (l’ultimo che coinvolge la disabilità e i permessi, sussidi extra per caregiver è il Cura Italia), pone l’accento sulla grande voglia di farcela dei ragazzi:
sono state attivate chat e sono partite le attività. Ci stanno dando un grande esempio di potenzialità nascoste, una grande volontà di fare, di essere parte attiva di questa società. Gli educatori, la psicologa, tutti noi abbiamo creato, grazie anche alle famiglie, una rete intorno a loro che li segue…Ci stanno dicendo che quando tutta questa emergenza sarà finita, loro possono avere un ruolo in questa società che spesso li rende invisibili.
Che il rischio, oggi più che mai, oggi che tutti siamo costretti a casa è proprio quello di scomparire soprattutto per chi già di solito, fatica a farsi sentire. Va pure bene essere gli ultimi nella lista della terapia intensiva in tempo di pandemia, ma c’è una solitudine mentale, psicologica, di tutti i giorni a cui fare fronte prima, che ci dice che la legge del più forte è la legge della disperazione, del “respiratore e me o a te”, appunto, ma che ci sono tanti altri accorgimenti che possono essere presi, per ricordare a queste persone che non sono solo scarti, numeri “bassi”, poco rilevanti per le statistiche e i decreti. Ricordare loro che non devono solo resistere, con le loro forze, ancora una volta.