E’ da questo figlio, in qualche modo “preferito”, che Cristiano e sua moglie Silvia imparano che vivere è lasciarsi amare. E’ (anche) da lui che vengono educati all’essenza della vita: appartenere a qualcuno, riconoscere il Padre. Finalmente dopo lunga gestazione e un po’ di tremore posso pubblicare questa intervista. Conosco da anni anche se parzialmente la storia di Cristiano Guarneri e della sua famiglia. Vivono a Cremona e sono stati investiti prima del resto del paese dall’emergenza COVID-19.
Io e sua moglie Silvia abbiamo “fatto il CLU” (l’esperienza universitaria di Comunione e Liberazione) a Bologna negli stessi anni, gli ormai vintage ’90. Lei ha una storia intensa, che meriterebbe un’altra intervista, minimo. Sapevo del loro bimbo, Alessandro, della sua malattia tanto grave; sapevo della loro forza, del loro quotidiano eroico senza fronzoli, senza metafore. E, non so più dirvi bene perché, poco tempo fa, ho trovato l’occasione e la faccia tosta di sottoporre a Cristiano, il papà alcune domande. E’ stato come smuovere il terriccio, aspettare un po’ e vedere germogliare questi fiori. Ve li porgo.
Carissimo Cristiano, eccoci, finalmente. Grazie della disponibilità, intanto.
Grazie a voi.
Per i nostri lettori Aleteia For Her: chi sei e di cosa ti occupi “fuori casa”(espressione impropria, di questi tempi)?
Io sono giornalista, ma lavoro anche per un ente che si occupa di formazione professionale e inserimento lavorativo. E’ un settore complicato e bellissimo. Sono a contatto con tante situazioni complesse, per le quali trovare una risposta non è mai semplice. A volte è solo possibile essere “presenti” nella giornata di queste persone. A maggior ragione adesso, con le limitazioni imposte dall’emergenza Covid-19. Chiamando, scrivendo.
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La tua famiglia: tu e Silvia, tua moglie, e i figli che avete accolto.
Io e Silvia siamo sposati dal 2002. Abbiamo 4 figli, i due grandi in affido. La prima ha 19 anni, il secondo 18. Con la maggiore età, entrambi hanno scelto di restare con noi. Poi c’è Alessandro, che abbiamo accolto nel 2005, quando aveva un mese e mezzo, e che abbiamo adottato dopo alcuni anni. E infine Samuele, figlio naturale, di 3 anni.
La vera fecondità, secondo te, secondo voi. Nella temporanea o permanente infertilità biologica è vero che si scopre un livello diverso di generatività? O è un eufemismo per addolcire un dolore che è e resta amarissimo?
(Samuele, figlio naturale, è arrivato 3 anni fa dopo tanti anni di matrimonio diversamente fecondo! NdR)
La paternità e la maternità non dipendono mai solo dall’elemento biologico. Si è padri e madri quando si accompagna il mistero dell’altro nel suo cammino di compimento. L’altro è sempre un mistero. È qualcosa che non possiedi, ma che puoi amare nel suo venire al mondo. In questo non c’è alcuna differenza tra figli naturali e accolti. Lo dice l’esperienza che viviamo con tutti i nostri figli, e con altri che sono stati accolti in casa nostra, chi per poco chi per tanto tempo. Con una ragazza non più in affido manteniamo i contatti da sempre. Per noi resta figlia. Non sono le carte a stabilirlo, ma il legame affettivo tra noi.
Ogni figlio è un dono e ha un valore irriducibile, ma l’occhio e il cuore cadono più facilmente su Alessandro: un figlio “speciale”? Perdonami detesto sia virgolette che parola. Ne cerchiamo una diversa, più giusta per lui?
Se proprio vuoi un aggettivo userei “preferito”. Non riesco a dare una definizione, una caratterizzazione adatta a lui. Per certi versi è un figlio preferito, da me, da mia moglie. Che non significa: meno affetto verso gli altri. Significa riconoscere i passi che la sua vita ha fatto fare a tutti noi.
Quali passi?
Posso parlare dei miei. Io imparo da lui ciò che serve davvero ogni giorno: sentirsi amati da qualcuno. Questa è l’unica vera condizione per reggere le fatiche e i sacrifici che a nessuno sono risparmiati. L’emergenza sanitaria di oggi lo ha reso più evidente. In situazioni così, ci si cerca di più, si ha più bisogno di sentirsi presi dall’affetto degli amici, dei parenti, di chi conosci. Anche a distanza. Appartenere, ecco cosa serve. Alessandro vive perché appartiene a coloro che gli sono dati. E qui c’è un altro grande insegnamento: lasciarsi amare da chi ti è stato messo di fronte, non da chi decidi tu.
Lo facciamo a metà intervista: ci spieghi anche sommariamente la condizione di vostro figlio, cosa implica la sua malattia?
Alessandro è affetto dalla nascita da encefalopatia multicistica con sindrome di West: significa distruzione di gran parte della sua sostanza cerebrale, che lo porta a soffrire di crisi epilettiche farmaco resistenti, a non camminare, non parlare e a non vedere. Non mangia per bocca e si nutre attraverso una PEG (applicazione chirurgica di una sonda attraverso la quale avviene la nutrizione, NdR). A proposito di questo: Alessandro ha una PEG da quando aveva due anni. I primi momenti lo imboccavamo. Mangiava pochissimo, la Peg è un passaggio difficile ma necessario, di vitale importanza nel verso senso della parola. Alessandro trascorre molto del suo tempo steso sul divano, in posizione supina e qualche volta prona. Il divano in sala è il suo regno. Poi in carrozzina solo pochissime ore, per fargli cambiare posizione. Da seduto fa un po’ più fatica ad espandere i polmoni.
Chi è, come vi educa ad essere uomo e donna, padre e madre? Mi ricordo di avere letto qualche tempo fa un passo dall’Ecclesiaste che avevi postato su Facebook in occasione del suo compleanno, forse. Lo vado a recuperare. Era un pensiero molto bello, commovente e lontano da ogni retorica. Posso copiaincollarlo per i nostri lettori? Eccolo:
Non c’è troppo da dire. Bisogna solo guardare, aspettare, fidarsi, commuoversi. E provare a essere un pochino come sei tu, che ti lasci prendere, senza resistere. Resistere cosa? Il mondo resiste, tutti resistono, tutti lottano, tutti ci mettono la forza, la rabbia, o sei il numero uno o non sei nessuno. Ci casco anch’io sai? Ci casco con te, tutte le volte che provo a raddrizzarti pensando che sia più dignitoso un braccio meno piegato di quello che hai. Il problema sono io, non il tuo braccio. Il problema è sempre di chi immagina una cosa al posto di quella che c’è. Quello che c’è stato, in questi tuoi 12 anni incredibili, è tutto quello che ci serviva. Amare e lasciarsi amare. Per come si è. “Osserva l’opera di Dio: chi può raddrizzare ciò che Egli ha fatto storto?” (Ecclesiaste 7 , 13). Siamo ancora qui. Storti. Auguri, vecchio mio.
Rispetto alla citazione che tu richiami, devo dire che su quel punto ho un conto aperto con me stesso e con Chi ha messo al mondo Alessandro. Di fronte al dolore ho degli interrogativi che credo non scompariranno mai. Mi domando: perché, perché Alessandro, perché così. L’esperienza dell’impotenza è quasi lancinante. Ci sono state situazioni molto critiche con diversi ricoveri da cui nostro figlio è uscito al di là di ogni previsione. La bravura dei medici è stata fondamentale ma è sempre anche intervenuto un fattore esterno, qualcosa che ci ha fatto dire: “La mano di Qualcuno l’ha preso per i capelli”.
Per esempio?
Siamo stati ricoverati per 28 giorni quando aveva due anni, in tre ospedali diversi: Cremona, Milano, Pavia, sempre in rianimazione, Alessandro intubato a causa delle crisi epilettiche. Quella volta ce la siamo vista brutta, è stata una delle cose più dure, con un rischio per la vita altissimo. Poi ci sono tuttora non poche situazioni di sofferenza minore, gestibili a casa, tuttavia non semplici da vivere. L’essere disarmati porta sempre a due strade: ribellarsi a ciò che accade o domandare. È su quest’ultima che vorrei poggiare di più il mio sguardo in talune circostanze. Come poggiare la testa sulla spalla di un papà, col desiderio che il Padre vero, Dio, mi conceda di guardare tutto come fa Lui: con amore infinito. Guardare così è una Grazia e una educazione. Osservare come fa Silvia e come vivono certi amici mi insegna molto.
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L’apparente inerzia di Dio ci parla? Con Ludo che non guarisce, per esempio, mi faccio da tempo questa domanda che si fa sempre più dolce…
E’ proprio “apparente”, dici bene. Dio muove sempre le cose per il bene di ciascuno. Nel tempo la nostra posizione è cambiata: dal “fai il miracolo della guarigione” a: “donaci la Grazia di amare ciò che arriva e Tu che ce lo metti davanti”. Lo dicevo prima: è un atteggiamento che si conquista pian piano, chiedendolo come dono al Signore e “rubandolo” a chi vive già così. C’è sempre bisogno di un altro paio di occhi che sappiano guardare senza ribellione le cose che accadono. E’ di questi occhi che ho bisogno. Spesso sono quelli di mia moglie, a volte quelli di amici che guardano Alessandro in modo più profondo di come faccio io. Lo confesso senza scandalo: qualche volta ci si abitua al miracolo che si ha davanti; lo stupore di altri, lo rinnova a noi.
Io sono un uomo fortunato. E la mia fortuna è cominciata col Battesimo, cioè con l’inizio della lotta di Cristo per conquistare tutto di me. Nella mia esperienza di papà, questo essere battezzato è decisivo. E’ in questo cammino che mi accorgo di essere il primo ad aver bisogno, di essere il primo ad aver peccato, di essere il primo che vuol sentirsi preferito. Altrimenti è facile cadere nella misura: misuro quanto è bravo il figlio, la moglie, gli amici, tutto. A me interessa questo alla fine: dove imparo ad amare senza misura?
Signori della corte, sì mi rivolgo così a voi, cari lettori, implorando clemenza perché sono mesi che mi sento sotto processo. Sotto lo sguardo vuoto e invece penetrante di Alessandro, del suo papà e della sua mamma. Non riuscivo a rimettere mano a questa intervista.
Sì, vero ho sempre delle ottime ragioni: malattie di stagione piuttosto aggressive e invadenti; tanti figli a mia volta di cui uno con una situazione clinica simile a quella di Ale. Ma basta usare Ludo come un alibi: lui che ha come compito preciso l’opposto del portarmi altrove. Ha quello di insegnarmi, non avendone l’aria, a stare presente e nel presente. Davanti agli altri, i presenti, e l’Altro per eccellenza, il Presente per eccellenza.