La fede perché ci invita a guardare in alto, la speranza perché farsi prendere dallo sconforto è “peccato” nel senso più profondo del termine, la carità perché volersi bene oggi non sta tanto negli abbracci ma soprattutto nel volere il bene dell’altro.
“Gesù digiunò per quaranta giorni nel deserto”.
Digiuno: a noi adesso è chiesto quello più doloroso: quello dall’Eucaristia. Per chi già affronta tante difficoltà (per esempio per importanti patologie pregresse) il non avere nemmeno più la gioia della Comunione è tanto più duro e difficile; ma anche per persone giovani e sane la fatica è notevole. Ieri ho visto una Messa in streaming, e al momento della comunione mi sono venuti i lacrimoni, senza volere. Ho pensato alle tante comunioni quasi “fatte per farle”, senza pensarci troppo… e ho intuito la preziosità del Signore che si dona a noi, troppo spesso data per scontata. Finora noi torinesi non abbiamo ancora avuto la domenica senza la Messa, e mi chiedo come sarà. Durissima. Ma (purtroppo) anche quasi una “mezza vacanza”, e questo è il rischio più grande. Senza il sostegno delle “buone abitudini” (serba ordinem et ordo serbabit te, come dicevano i medievali), e senza il sostegno della comunità, tener viva l’anima è più difficile, molto più difficile.
Quaranta giorni: non sappiamo quanti saranno, ma finora è già un bel po’ che molti di noi, soprattutto chi ha familiari vulnerabili, sta vivendo in “quarantena”. Niente abbracci, niente uscite; adesso in casa persino mangiamo a tavole separate per il terrore di contagiare le persone più fragili. Un cammino lungo, che (temo) finora è appena ai primi passi.
Nel deserto: basta guardarsi intorno, e le nostre città frenetiche e turbolente appaiono come città fantasma, deserte e desolate, come a ferragosto ma senza quei gioiosi “chiuso per ferie” che tutto sommato ti mettono allegria. Deserto non solo di persone, non solo di relazioni, ma anche di progetti; ti rendi conto che il domani non è scontato (lo sapevi in teoria, ma adesso lo tocchi con mano) e non ti viene nemmeno voglia di progettare, non riesci a sognare il ritorno alla normalità perché non sai quando sarà né come sarà, né chi ci sarà a condividerlo con te.
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È un momento difficile, per alcuni di noi difficilissimo. (E ringrazio tanto i medici e gli infermieri che lo stanno vivendo in prima linea).
Ma dobbiamo ricordarci le “virtù teologali”, la fede (che ci invita a guardare in alto, dove c’è la nostra luce e lo sguardo misericordioso del crocifisso), la speranza (perché farsi prendere dallo sconforto, dalla paura e dall’angoscia è “peccato”, nel senso più profondo del termine), la carità (perché volersi bene non sta tanto negli abbracci, anche se questi indubbiamente ne fanno parte, ma sta soprattutto nel volere il bene dell’altro: e se io sono giovane e sana devo volere il bene di chi è meno giovane o più fragile).
Tutti ci invitano a comportamenti saggi e responsabili, a prescindere dalla nostra età e dalle paure o non paure che possiamo avere; ed è quanto mai opportuno ribadirlo. Ma, da credenti, alziamo anche lo sguardo. C’è Uno che possiamo abbracciare finché vogliamo, perché l’unico contagio che ci può trasmettere è quello del Suo amore, trasformandoci in Lui e insegnandoci ad amare. C’è Uno che non crollerà mai, per quanto possiamo chiedergli sempre di più e sempre più insistentemente, e che aspetta solo che lo cerchiamo per venire a noi. C’è Uno che regna dalla croce, e in questo momento ci invita ad abbracciarla: non come strumento di sofferenza o di morte, ma come dono d’amore per tutti. E solo così sarà Pasqua davvero.
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