Permangono (anche alimentate da voci autorevoli) posizioni di “ostruzionismo ecclesiale” all’atteggiamento di leale responsabilità mostrato dai Vescovi italiani per la salute pubblica del Paese. In realtà la Chiesa torna in questo frangente inedito a mostrarsi come punto di riferimento e modello esemplare di assunzione di responsabilità. Questo lo propone ai fedeli con uno stile peculiarissimo.
Desta stupore che – apprestandoci a sfiorare ormai il tetto dei 10mila contagiati da Coronavirus in Italia – ancora si discuta del provvedimento ecclesiastico che ha sospeso tutte le missæ cum populo in Italia fino al 3 aprile: se mentre parroci si ammalano e muoiono frange di esaltati continuano a protestare che dalle sacre specie non potrebbe passare alcun morbo (spia acuta di una catechesi gravemente carente), desta stupore che anche storici di rango si lascino andare a dichiarazioni infondate. Andrea Riccardi ha scritto ieri sul Corsera: «Mai, nella storia della Penisola, sono state sospese le messe». E questo è semplicemente (e storicamente) falso, come è stato già mostrato (qui e qui – ed è insensato riferirsi alle Guerre Mondiali invece che alle epidemie): Riccardi avrebbe forse detto meglio “Mai, nella storia dello Stato Unitario italiano”… ma si tratterebbe pur sempre di una storia così breve e geograficamente limitata da risultare insignificante – oppure “Mai, nella storia della Conferenza Episcopale Italiana”… ancora più breve di quella dello Stato.
Distinguere i piani
Sul piano formale, poi, occorrerebbe fare una precisazione: la CEI non ha alcun potere canonico di “sospendere le messe in Italia”, diciamo che il suo parere – ai fini effettivi – conta poco più di quello di Palazzo Chigi (può suonare strano ma è così). La CEI può dare direttive generali e raccomandare ai singoli vescovi di recepirle, ma senza che ciascuno di essi ne risulti vincolato: difatti a Torino, dove mons. Nosiglia ha atteso la serata di domenica per pronunciarsi, i fedeli non sapevano se andare o no a messa, e i parroci (che pure sapevano del comunicato CEI) hanno (giustamente) continuato a celebrare le messe.
Sul piano sostanziale, invece, Riccardi dice moltissime cose giuste e vere (ed è anche un’autorità indiscutibile in questo):
A Milano vive da solo il 45,56% della gente; a Roma il 44%. Gli anziani soli a Roma: 250.000. Le nostre sono città di soli, che non si sentono protetti di fronte a un futuro incerto, tra fake news, teorie complottiste, spiegazioni magiche o condanne divine. Cresce la paura nella solitudine. Il conforto non sono solo le spiegazioni scientifiche.
Tutto questo è tristemente vero, ma il momento critico non fa che evidenziare una situazione già previamente disordinata… e giudicarla (“critico” viene dal greco “κρίσις”, “giudizio”): Sant’Egidio si è sempre spesa meravigliosamente per stare accanto agli abbandonati, è innegabile (anzi, in questi giorni Sant’Egidio potenzia il suo servizio di spesa a domicilio per gli over 65). Tuttavia la solitudine dilagante (vera peste postmoderna delle nostre società) andrebbe curata anche a monte, mediante una politica realmente solidale con la famiglia che difenda le persone dalla reificazione del Mercato (e questo purtroppo, negli ultimi trent’anni, non è mai stato fatto). Riccardi scrive: «Nelle crisi, la Chiesa è stata sempre un riferimento». Ed è vero: nel parapiglia di un governo che finora è intervenuto tardi e male, la Chiesa mostra una serietà esemplare (anche Zuppi, Cardinale arcivescovo di Bologna, vicinissimo a Sant’Egidio, ha operato un giro di vite sul precedente decreto), perfino dolorosa, e le istituzioni statali hanno di che prenderla a modello.
Una prospettiva genuinamente ecclesiale
Ora la Chiesa, proprio in quanto societas, è chiamata a una forma di responsabilità che in parte esprime sensi di leale collaborazione alla società civile (questo l’unico senso del comunicato della CEI), e che però trascende quel piano con un afflato proprio a lei sola: l’affetto ecclesiale richiede un momento in cui i fedeli si prendano cura dei pastori custodendoli dal contagio di cui, virtualmente, ciascuno di essi è foriero. Senza scomodare le norme bibliche di purità, tutta sapientemente imperniata sulla segregazione delle impurità (non aveva senso parlare di “infezioni” laddove il linguaggio non era medico né si avevano le nozioni microbiologiche della modernità), penso si possa citare come caso emblematico della prudente sapienza ecclesiale il decreto di mons. Marcello Semeraro, vescovo di Albano, che accoglieva l’invito di Palazzo Chigi e di Via Aurelia concludendo il proprio decreto con l’invocazione dell’intercessione del
Servo di Dio Card. L. Altieri, che nelle dolorose circostanze del colera di Albano nell’agosto 1867 col dono della vita ci ha mostrato come si testimonia Cristo tra i fratelli che soffrono.
Sembrerebbe paradossale: un decreto per sospendere le messe e in chiusura il ricordo del predecessore che si recò nelle case dei colerosi ammalandosi il giorno stesso e morendone di lì a poche decine di ore. Si potrebbe stare a precisare che il cardinal Ludovico Altieri – intimo amico di san Giovanni Bosco – era sospeso tra le politiche sanitarie dello Stato Pontificio (che cercava di limitare il contagio) e quelle del giovanissimo Regno d’Italia, retto da quei Savoia che già alla Conferenza Sanitaria Internazionale del 1851 avevano scelto (unici nella Penisola!) di alimentare una narrazione in cui il colera veniva detto non-contagioso (e magari torneremo a scrivere di questo); il punto fondamentale, però, è che il decreto di mons. Semeraro non è contraddittorio in quanto dell’Altieri viene esaltata la carità evangelica, non la scienza medica (né la politica sanitaria, che peraltro non soppresse le precauzioni dello Stato Pontificio in materia – ovviamente).
L’obbedienza è nulla senza umiltà
E qui veniamo al punto dell’obbedienza, su cui domenica sera a Roma padre Maurizio Botta ha tanto insistito: «Ci viene chiesto un atto di obbedienza». Ho notato che anche alcuni tra i più animosi sostenitori della messa a tutti i costi sono stati convinti da quest’osservazione. Sui social ha preso a serpeggiare a mo’ di commento il noto adagio montfortiano “l’autorità può sbagliare, l’obbedienza no”. Sacrosanto, e tuttavia su questo occorre un’ulteriore precisazione: per essere una virtù cristiana, l’obbedienza non può limitarsi a un assenso puramente esterno a comandi altrui, ma deve essere invece l’esercizio catartico dell’autospoliazione della propria volontà carnale per mezzo di una volontà altrui in cui riconosciamo il segno di quella divina. E così è, senz’altro, a meno che (precisava Massimiliano Kolbe) l’autorità non chieda qualcosa di chiaramente contrario alla legge evangelica. Questo è così vero che il primo sublime esempio di obbedienza nella Storia sacra – ben prima che ci fosse una legge (evangelica ma anche mosaica) con cui discernere il contenuto del comando – riguarda un ordine contrastante con tutte le leggi rivelate e anche con quella naturale (difatti Dio avrebbe fermato Abramo un attimo prima che il suo coltello sgozzasse Isacco).
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L’obbedienza dunque, per essere virtù cristiana, non consiste nel rassegnarsi obtorto collo a decisioni che non si ha il potere di cambiare, ma voler capire e voler volere ciò che dispone il superiore. Lo ha spiegato meravigliosamente Teresa di Lisieux in un’operetta che già un’altra volta ho avuto modo di citare, Il Trionfo dell’Umiltà: quando infatti san Michele tenta di allontanare Lucifero dal monastero (dove grazie a lui non si riusciva a concludere il capitolo per l’elezione della nuova superiora) il Principe Celeste dà fondo a tutta la retorica ecclesiale sulla sublimità dei consigli evangelici, che dovrebbero rendere le monache inattaccabili a Satana. E questi gli risponde sarcasticamente:
Me ne faccio beffe, della tua armata verginale… non sai che ho diritti anche su di lei?… Sono il principe dell’orgoglio; ora, se le vergini sono caste e povere, che cos’hanno esse più di me? Anch’io sono vergine e, sebbene elargisca ricchezze agli uomini, quanto a me le disprezzo come la vanità che sono. | Mi dirai allora: «E l’obbedienza? Anche quella pratichi?» …Ah, Michele, sono furbo anch’io, cosa credi? No: non obbedisco pienamente, ma seppure contro la mia volontà mi sottometto agli ordini di Dio: le vergini pure possono obbedire conservando in fondo al cuore la loro propria volontà; possono obbedire e desiderare il comando; e allora in cosa quel che fanno è meglio di quel che faccio io? L’orgoglio so farlo strisciare dappertutto, io, e se non vuoi credermi, guarda quanto in esse pesa di più delle tue virtù [con un tono trionfale]: guarda! Guarda!
Thérèse de Lisieux, Le triomphe de l’humilité, in Œuvres Complètes, Paris 2006, 924-925
E Lucifero mostra a Michele una bilancia a due piatti: i tre sassolini bianchi di povertà, castità e obbedienza risultavano enormemente superati dai tre sassi neri di orgoglio, indipendenza e volontà propria. La scena si risolve perché Michele invoca allora i meriti e l’intercessione della Vergine e depone sul piatto più leggero un rotolo con la scritta “umiltà”, che ribalta la misura e vince il demonio.
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La lezione che Teresa (dottore della Chiesa) ci riserva in questa “pia ricreazione” (tale il genere letterario) è chiara: si può ben avere una propria opinione sulla miglior gestione della presente situazione – personalmente, e l’ho più volte scritto, trovo che la “via cinese” sarebbe sufficiente (ma ci vorrebbe disciplina cinese, per attuarla!) –, ma quando i Sacri Pastori si sono pronunciati al loro giudizio devono piegarsi con devoto ossequio l’intelletto e la volontà dei fedeli. Il che significa, in sintesi, non solo adeguarsi esteriormente, ma sforzarsi di aderire interiormente e di capire tutte le loro ragioni facendole nostre, anche quando avremmo preferito diversamente.
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Qualcuno giudicherà forse questo esercizio alienante e noncurante della dignità umana: è vero il contrario, perché mille volte al giorno tutti sperimentiamo quanto siamo tutt’altro che liberi davanti a ciò che ci sembra di volere, e l’ascesi quaresimale è intesa appunto a rompere (con la grazia di Dio) queste catene. Ora la grazia di Dio passa per le disposizioni dei Vescovi. E l’obbedienza è nulla senza umiltà.