Il nuovo romanzo di Daniele Mencarelli ha vinto il Premio Strega Giovani: sette giorni dentro un ospedale psichiatrico a tu per tu con una voragine che divora l’anima, con l’urgenza indecente di chiedere salvezza.Si è aggiudiato il Premio Strega Giovani, edizione 2020, il romanzo di Daniele Mencarelli Tutto chiede salvezza, Rizzoli.
Con 64 preferenze su 344 voti espressi, è stato il libro più votato da una giuria di ragazze e ragazzi tra i 16 e i 18 anni provenienti da 58 scuole secondarie superiori distribuite in undici regioni italiane e tre città all’estero (Berlino, Bruxelles, Parigi). “Lo dedico a chiunque si trovi in un Tso in questo momento” ha detto Mencarelli. (da Ansa)
La storia racconta, infatti, una settimana durissima e intensa in ospedale. Uscito prima che esplodesse la pandemia, questo libro è una chiave di lettura sul nostro fragile presente.
Indecente salvezza
Funzionerebbe pure parecchio, dal punto di vista editoriale, vestire i panni del dannato: crogiolarsi nel disagio, sfogare un intenso malessere, e farlo sotto pseudonimo o col sembiante di un eroe malinconico ma fotogenico. Tutto chiede salvezza (Mondadori) di Daniele Mencarelli non è certo una posa fotogenica sul male di vivere. Vivere fa male a chi non ha un nastro isolante a proteggere l’anima dai pugni che la realtà ci scarica addosso da ogni parte.
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Nessuna finzione, nessun edulcorante: chi scrive è Daniele Mencarelli e chiama per nome Daniele Mencarelli di pagina in pagina. La cornice ideale del romanzo si spezza (quel patto tacito per cui fintanto che si legge una storia ci si prende una pausa dalla pressante realtà). Dalla prima all’ultima riga sono rimasta a schiena dritta come quando c’era l’appello in classe: se l’autore si chiama per nome, anche io lettore devo rispondere col mio nome. Mentre leggo ci sono, presente! E costa fatica lasciarsi interrogare da uno che non gira attorno alla faccenda più vergognosa e vera che tutti ci portiamo addosso:
Non entro in stanza, ma resto sul corridoio, a fissare il muro, distante dal mio naso non più di dieci centimetri. In realtà fisso me stesso. Io so compiere gesti che fanno del male. Gesti che nella mia vita hanno transitato anonimi, indegni di entrare nella memoria, ma che hanno prodotto dolore in quella degli altri.
Quando la scrittura è così nuda da mettere sul tavolo il proprio io malmesso, sconcio e stremato, allora non siamo di fronte a un romanzo nell’accezione più ovvia e comune. E’ una rivelazione interamente umana, in cui i veli da togliere sono pezzi di pelle e croste di ferite, per lasciare infine solo un’anima indifesa e a nervi scoperti che non chiede di essere compatita, ma dona la sua fragilità come ipotesi per guardare da capo la vita.
In sette giorni Dio creò il mondo da cima a fondo. In sette giorni un giovane uomo di 20 anni, chiuso in ospedale per un trattamento sanitario obbligatorio, può ricapitolare da cima a fondo se stesso: alle spalle una violenza cieca inflitta a chi si ama, di fronte cinque compagni di stanza ciascuno col suo inferno in cuore. E poi infermieri e dottori, intimamente irrisolti ciascuno a modo suo, eppure depositari di una cura che cerca di lenire il male della mente, ma resta muta sul magma che cova dentro e chiede:
Chi può togliermi la sofferenza? Quale compito devo svolgere per non sentire più il dolore degli altri? Sarà la maturità, il diventare adulto, a dare durezza alla mia pelle?
Non c’è pagina di questo scritto che passi leggera, per quanto la scrittura sia di una disarmante semplicità e bellezza. Ogni parola pesa ed è da pesare, e quel che si guadagna è il fiatone della speranza. Perché la speranza va in salita, contro la corrente di un istinto che lasciato ai suoi demoni farebbe piazza pulita di tutto, soprattutto del compagno più intimo e scomodo che abbiamo: il nostro io. La speranza si guarda attorno perché sa che l’unico spiraglio di luce arriva dal non raccontarsi la vita al singolare. Daniele è i tanti dialoghi con i suoi fratelli malati, anche quello che non sa far altro che gridare ripetutamente un’implorazione alla Madonna. Di un ragazzo parlano anche le labbra mute e gli occhi fissi su un punto del muro: puntano lo sguardo su una narrazione interrotta di sé, un buco nero che esige una parola opposta alla disperazione.
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Salvezza è una parola indecente da chiedere, e si può implorarla solo al plurale. Dovremmo essere corali nel dirci: non basta stare bene per un po’, non basta dimenticarsi dei momenti brutti con una pillola, lo sballo della droga si esaurisce in fretta. E poi com’è possibile che proprio le nostre parti più scoperte e vulnerabili siano capaci di distruggerci e al contempo siano proprio quelle da cui si scatena, in certi istanti, una gioia di vita così vigorosa? La risposta razionale, scientifica, circostanziata non c’è. I nervi restano scoperti senza via di scampo. Eppure è nell’incontro con altri sguardi che la certezza di un abbraccio che tutto tiene (l’indecente tanto quanto il tenerissimo) si manifesta indubitabile.
«Lei a un certo punto sorride, era tanto de tutto in quel momento. Io allora le dico che quando mi sorride così io non amo solo lei, ma tutto quello che c’è al mondo, anche i cartelloni pubblicitari, anche i lampioni, quelli della Colombo so’ enormi, così pe’ dimostrajelo fermo la macchina al volo, scendo e m’abbraccio un lampione, non so per quanto resto così».
Che sorriso c’è dietro il sorriso di una ragazza amata? Anche io vorrei amare tutto, persino i lampioni. Chi può porgerci questo sorriso che ci legga dentro fino negli angoli più sporchi e sappia darci la carezza della salvezza? La compagnia migliore che possiamo farci l’un l’altro è stare assieme al cospetto di questa domanda.
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