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Muore la scienziata Katherine Johnson: fino alla luna per scoprire la bellezza dei limiti

Katherine Johnson
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Giovanna Binci - pubblicato il 25/02/20
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Muore Katherine Johnson a 101 anni, dopo 33 di lavoro alla NASA nel famoso team di donne di colore rese celebri dal film del 2016 “Il coraggio di contare”. Una vita spesa silenziosamente a superare i limiti: spaziali, ma anche razziali. Una vita spesa a “contare” davvero.Una leggenda vuole che l’astronauta John Glenn prima di partire per la sua missione orbitale, chiese proprio a lei, Katherine Johnson, di ripetere i calcoli già fatti da un gruppo di ingegneri, solo con la sua calcolatrice: “Se lei dice Ok allora vado”, disse Glenn, pronto a fidarsi solo della matematica. Lei, americana, classe 1918, nella vita, sapeva contare. Bene. Ironico per una donna tra l’altro di origini afroamericane: presupposti per “contare” davvero poco o nulla nell’America razzista e sessista degli anni Cinquanta.
Lei era uscita dall’orbita a cui sembrava destinata dal colore della pelle e dalle umili origini (mamma professoressa e papà boscaiolo), ma senza rumore, solo continuando a fare quello che le riusciva meglio e in cui credeva e sapeva di poter fare la differenza: contare, appunto. Niente prospettive di gloria all’epoca, solo duro e silenzioso lavoro e nemmeno nessuna rivendicazione femminista dei suoi diritti o risultati. Forse, la Johnson aveva capito che esserci, restare dov’era, far parlare il suo talento, donarlo quasi, era la più rumorosa e drastica delle rivoluzioni: lo faccio, lo faccio come o forse meglio di voi e alle vostre regole. E comunque fare quello per cui era nata credo le regalasse soddisfazioni e un senso di pienezza al di là di ogni discriminazione e oltre ogni promessa di onore.


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Fu selezionata tra i tre studenti afroamericani, unica donna, per integrare la scuola di specializzazione, dopo la sentenza della Corte Suprema del Missouri del 1938, in cui si affermava che gli stati che fornivano una scuola a studenti bianchi dovevano fornire un’istruzione statale analoga anche agli studenti neri. (Repubblica)

Entrò alla Nasa nel 1953 nel gruppo di donne afroamericane conosciute come ”calcolatori di colore” rese celebri dal film del 2016 “Il diritto di contare”, tratto a sua volta dall’omonima biografia di Margot Lee Shetterly. Obbligate a lavorare, pranzare e usare i servizi igienici separati dai loro colleghi bianchi, discriminate per il loro essere donne e nere, queste scienziate hanno continuato a fare il loro lavoro, senza i privilegi degli uomini, con la stessa professionalità e testardaggine, restando al loro posto guidate dalla consapevolezza che “contare” davvero spesso ha poco a che vedere coi riconoscimenti pubblici, ma più con i limiti che superi anche con te stessa, anche nel continuare a essere l’unica femmina in un mondo governato da maschi.

Io conto tutto, i miei passi (…) e le stelle in cielo. Tutto ciò che può essere contato, io conto,

aveva detto Katherine nel 2015 in occasione della consegna da parte del presidente Obama della Medaglia presidenziale della Libertà (una delle più alte onorificenze civili negli Stati Uniti). Si è spenta il 24 febbraio, all’età di 101 anni, dopo una vita passata a contare numeri e a “contare” sul serio per il successo di molte missioni della Nasa: fu determinante la traiettoria da lei tracciata per la missione Apollo 11 nel 1969, quella dello sbarco dell’uomo sulla Luna.


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E allora oggi me la immagino proprio felice, tra quelle stelle, a discutere di orbite e traiettorie con l’ingegnere Supremo (che è Padre): perché se c’è una cosa che Katherine Johnson sapeva benissimo è che le regole, quelle che governano quell’universo misterioso, ma bellissimo e anche la nostra possibilità di scoprirlo, non sono una coercizione asfissiante che ci limita, ma sono la bellezza che ci salva, in tutti i sensi, che ci fa dire “WOW”, che ci permette di superare ogni volta i nostri, di confini e di meravigliarci, di spingerci oltre. I limiti del nostro essere umani, così chiari davanti allo spazio immenso, quei numeri che lei contava, calcolava così precisamente trasformandoli in traiettorie delle orbite, finestre di lancio delle navicelle spaziali, percorsi di ritorno di emergenza per molti voli lunari del programma Apollo, fanno parte del nostro sentirci grandi (spesso onnipotenti, purtroppo) e piccolissimi allo stesso tempo. Ci danno la cifra di noi stessi, di quello che siamo davvero e di tutto quello che non potremo mai essere e che possiamo però continuare a guardare con gratitudine e meraviglia da certe orbite. Ci è dato di vederlo, il mistero, e niente più di quell’universo buio e infinito ci parla di questo.