“Insieme non è solo un avverbio di modo, ma un sostantivo che esprime l’origine e la vocazione dell’umano” così un filosofo appassionato di corsa di resistenza ci accompagna a riscoprire come ha trovato il tesoro della fiducia nella sua vita.
Perché un filosofo si mette a correre la maratona? Questa curiosità ci ha mosso a incontrare Luca Grion che, davvero, può essere definito un filosofo-podista. E la sua non è la trovata di crearsi un mestiere unico, magari seguendo il trend dell’ “inventarsi un lavoro”. Piuttosto si può dire che il pensiero lo ha davvero messo in moto. Andiamo con ordine. Luca è innanzitutto Professore associato di filosofia morale presso l’Università degli Studi di Udine e presidente dell’Istituto Jacques Maritain. Ha pubblicato nel 2019 un libro in cui racconta l’altra grande passione della sua vita, la corsa di resistenza. Nel titolo La filosofia del running è unito ciò che non dovrebbe mai essere separato: mente e corpo. Il pensiero accade dentro il corpo, ed è verissimo che i pensieri sono un elemento fondamentale da gestire durante la corsa di resistenza. Ci si conosce, correndo: si va a fondo della propria tenacia, ci si scontra coi limiti, con i pensieri di abbandono, si tenta di migliorare. Ecco da quale finestra sul mondo si affaccia Luca Grion, è – in fondo – uno sguardo pienamente morale come spiega lui stesso:«La corsa non è solo una buona pratica di vita, ma è anche una splendida metafora di vita buona, perché sollecita a prendere congedo dai propri vizi di ieri per costruire con pazienza e fatica le virtù di domani. »
Siamo lieti che abbia voluto essere parte del nostro dizionario vivo Gemme.
Di Luca Grion
«Chi sei oggi?». Rispondere a una domanda apparentemente così innocente costringe, in realtà, ad una sorta di bilancio per nulla agevole. Volendo provarci partirei dall’anagrafe: sono un uomo di 45 anni, il che significa aver già iniziato il secondo tempo della propria avventura esistenziale. Un tempo nel quale le scelte più importanti sono state fatte e si tratta ora di gestirle al meglio, facendo i conti con responsabilità in aumento e forze in calo. Un tempo nel quale bisognerebbe imparare a distinguere l’essenziale dall’accessorio; cosa tutt’altro che facile, soprattutto quando implica la necessità di rinunciare a qualcosa.
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Volendo abbozzare un ritratto di chi sono oggi direi così: un docente universitario che, finalmente, è riuscito a far diventare un mestiere ciò che è sempre stata la passione di una vita. Un padre e un marito felice quanto imperfetto. Un manovale della cultura, che prova a trasmettere quanto di bello apprende nel suo lavoro di studioso anche fuori dai recinti dell’accademia. Un credente pieno di dubbi, ma convinto della bellezza rivoluzionaria dell’annuncio cristiano. Un malato di corsa, che si è riscoperto agonista da adulto e che indaga il senso dell’umano anche quando indossa le scarpe da running.
Essendo, contemporaneamente, tutto questo, sono anche una persona che si sforza di apprendere la difficile arte dell’equilibrista tentando, per quanto possibile, di evitare le cadute. Non sempre ci riesco.
Proprio alcune cadute hanno segnato il mio percorso di crescita. In fondo non è così strano: si matura nella difficoltà e nella sofferenza, ma solo se le si attraversa in un’ottica di fiduciosa apertura al futuro. Nel mio caso si è trattato, per lo più, di errori di cui portavo la responsabilità diretta, senza possibilità di valide scusanti. Errori che, al di là della volontà personale e della delusione del momento, hanno rivelato, nel tempo, un lato positivo. Questo è stato possibile per due ragioni. Per un verso – e penso soprattutto al versante lavorativo – perché mi hanno aiutato a maturare una più consapevole vocazione professionale. Quando le cose, magari per colpa nostra, non vanno come avrebbero dovuto o come avremmo voluto; quando, nonostante tutto, continuiamo a rialzarci e ricominciare, è quello il momento nel quale capiamo quanto davvero teniamo ad un risultato e quanto quest’ultimo significhi per noi. Per altro verso, però, quel rialzarsi e ricominciare è stato possibile anche grazie al sostegno di chi mi camminava accanto e rendeva la delusione meno amara. Chi continuava a scommettere con fiducia in quel futuro che la delusione del momento tendeva a dipingere di nero.
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In questo, io credo, è custodito il segreto di ogni fiorire: nel poter contare sulla presenza di chi crede in noi anche quando siamo i primi a non aver fiducia in noi stessi. Nel trovare, in chi ci ama, ciò che noi stessi fatichiamo a scorgere. E, alla fin fine, nel saper restituire quanto di buono ci è stato donato.
Provando a proseguire ancora di qualche passo la mia riflessione, mi piace valorizzare proprio la parola fiducia: fiducia nella possibilità di realizzare i propri sogni ma anche, e forse soprattutto, fiducia di chi crede nei nostri sogni e ci aiuta a costruirli. Un fidarsi, dunque, che è anche un affidarsi, riconoscendo che ben misera è la strada che possiamo percorrere in solitudine. D’altronde, da molto tempo l’uomo ha capito che “insieme” non è solo un avverbio di modo, ma un sostantivo che esprime l’origine e la vocazione dell’umano.
La fiducia è qualcosa di cui non possiamo fare a meno. Preziosa quanto fragile, essa è la condizione di possibilità di ogni relazione e di ogni apertura costruttiva al futuro. Spesso, però, ci accorgiamo del suo valore solo quando viene meno; un po’ come accade con la salute che diamo sempre per scontata fino al giorno in cui la malattia non ci manda gambe all’aria. Oggi abbiamo imparato quanto sia importante prendersi cura dalla salute, dedicando tempo e attenzione ad una “corretta manutenzione” del nostro corpo; non diversamente dovremmo fare con la fiducia, bene intangibile che ci lega gli uni agli altri e che solo ci permette di fiorire in pienezza.