Salme senza nome, ma storie con un cuore e un’eredità di vita da non dimenticare: Lucia Apicella, alla fine della seconda guerra mondiale, ricompone e restituisce una “degna sepoltura” ai cadaveri anonimi di 700 soldati.Seppellire i defunti è un gesto che dobbiamo a loro, ma ancor prima a noi, quelli che restano.
Non è solo un atto di pietà e di estrema dignità verso quel corpo mortale, non è solo onorare le spoglie con la “degna sepoltura” e dare ai cari una lapide su cui piangere. E’ molto più che scrivere la parola “fine” su una lastra di marmo freddo: non è il passato che stiamo seppellendo e cercando di sotterrare, per quanto la scomparsa della persona cara sia dolorosa e lasci un vuoto nel petto che vorremmo eliminare quanto prima. Quella lapide è un modo per onorare tutto quello che ci è stato lasciato: ricordi, insegnamenti, sorrisi, errori persino. In quella fine si legge una nuova possibilità, non solo per chi crede che da quella polvere risorgeremo, non solo per chi sa che la morte è solo un passaggio necessario alla vita vera, ma anche per chi ci vede solo un punto, il “the end” della storia. Persino in quel caso, quella tomba ci ricorda l’amore, la gentilezza, la gioia, i litigi e tutto quello che non sempre siamo stati in grado di capire, apprezzare, perdonare di quella persona, in questo viaggio. No, non è mai troppo tardi per fare tesoro di quel lascito, credo.
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Non so se a questo avrà pensato anche Lucia Pisapia Apicella, mamma Lucia, come viene affettuosamente ricordata, quando, quasi alla fine del secondo conflitto mondiale, tra il ritiro dei tedeschi e i bombardamenti degli Alleati, decise di restituire identità e degna sepoltura a tutti i cadaveri anonimi che la guerra si era lasciata alle spalle. Che se il conflitto avesse strappato dall’uomo anche la pietà e la misericordia, insieme a quelle vite, allora, avremmo perso tutto, davvero.
Lei non ne fece una questione di fazione, barricate, grado o credo politico: anglo-americani, tedeschi, marocchini o polacchi. A chi le diceva di lasciar perdere, per motivi di sicurezza (erano molti ancora gli ordigni inesplosi lasciati dalla guerra) e in nome di quell’odio verso i tedeschi dilagante alla fine del conflitto, lei rispondeva semplicemente “Song’ tutt’ figl ‘e mamma”. E proprio a quelle famiglie, sperava di riconsegnare le salme assemblate in cassette di zinco e trasportate nella chiesa di Santa Maria della Pietà. Lo aveva visto in un sogno che non le dava pace: una radura con otto croci divelte accanto alle quali otto soldati la supplicavano di restituire i loro resti mortali alle proprie madri che non li avevano visti tornare dalla guerra.
Il dovere cristiano di dare sepoltura ai morti, insito nel suo cuore di credente e terziaria francescana, ma soprattutto un sentimento umano di pietà, la spinsero, nel 1943, a Cava de’ Tirreni, a ricomporre circa settecento salme e centinaia di effetti personali, destinati a restare senza nome. Un gesto che parla di un altruismo vero, fatto verso degli sconosciuti con i quali non c’era nessun legame se non quello dell’umanità e della compassione, le stesse che avrebbero avuto le loro madri, se solo avessero potuto piangerli.
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Ed è proprio da mamma che scrive al comando alleato per avere autorizzazione a “sistemare i cadaveri perduti”. Alla risposta negativa la donna non demorde e ottiene infine l’assenso da parte del comune di Cava de’ Tirreni, responsabile della sepoltura, e due becchini che però, per paura delle mine e di contrarre infezioni, rifiutano l’incarico. La “mamma dei morti” continua da sola la sua missione d’amore estremo, verso quei ragazzi che aveva visto sfilare nelle loro uniformi spinti da un ideale o, più amaramente, perché costretti. A quei giovani che avevano dato tutto, lei doveva qualcosa. Quelle salme, quegli elmetti che i suoi compaesani le segnalavano spuntare dalla terra, meritavano un ultimo gesto di amore, il riconoscimento che non restassero solo “uno dei tanti” caduti e dimenticati in un conflitto troppo grande per dare gloria a tutti, ma che ogni vita vale e ci lascia un’eredità da custodire.
Nell’atto di misericordia estremo e silenzioso di questa donna, c’è un sentimento universale, che come la morte, ci unisce e non può trovarci indifferenti. Perché anche quando la fine ci separa e le parole sembrano sospese nel vento, sono gli interrogativi che apre e quello che riusciamo finalmente a vedere, forse in modo migliore e più chiaro, che influenzano ancora la nostra esistenza e rendono una persona vicina, spesso come non lo è mai stata. Anche se sconosciuta.
Per la sua opera, fu insignita della Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Federale Tedesca e nel luglio 1980 fu premiata a Salerno con Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica.
Mamma Lucia muore a novantacinque anni, e “quel sogno che non mi dava tregua”, di un mondo misericordioso, di un’umanità oltre le differenze, gli orrori e le ideologie, è l’eredità che ci lascia.