Non una resa pietosa, recitata. Ma la scoperta della nostra vera vocazione che lotta contro ciò che davvero ci intrappola: mettere noi stesse davanti a tutto e non accorgerci che più che essere amate ci salva amare.
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Di lotta agli stereotipi femminili ne ho vista molta invece, ed è l’essenza del libro stesso, ma non tanto quella riferita al matrimonio obbligato che infrange i sogni di cui la Alcott, per motivi storici e personali, sentiva (anche giustamente) il dramma e neanche quella relativa alla difficoltà di essere prese sul serio perché donne, di mantenersi da sole e avere diritto a realizzare le proprie aspirazioni prima che trovare il buon partito. Sono temi importanti certo, sentiti dall’autrice e denunciati in maniera esplicita, ma molto lontani dalle possibilità di scelta, autodeterminazione e mezzi delle donne di oggi che di sicuro, se si sposano, altro che per necessità! O per scelta, amore platonico, interesse personale (dell’interessata eh) o non se ne fa nulla, caro. Ci lamentiamo che ancora i nostri stipendi siano più bassi di quelli dei maschi, per carità, ma la realtà è che abbiamo dimenticato cosa significhi essere davvero femmine e che, alla fine, non è riuscire a diventare “maschiacci” come anche Jo pensava, che ci renderà quella giustizia a cui tanto aspiriamo.
Partiamo da lei, Jo March: la protagonista indiscussa, l’alter ego della Alcott, l’icona della ribellione e della lotta femminile.
Sì, perché Jo lotta, davvero. Si ribella al sistema, vuole la sua parte. Lei, coi suoi capelli corti e gli outfit sgraziati, che però per quei capelli tagliati piange lacrime amare, perché i capelli per le donne sono sacri e il suo è un sacrificio che anche se mascherato dietro alla forza e alla voglia di fare qualcosa lasciando le frivolezze, le costa. E tanto. Altro che omaggio al gender fluid ante litteram come mi è capitato di leggere. E’ vero, Jo nei piani originari doveva restare la zitella scrittrice, fedele al suo ideale (per amore di una lotta che trovo anche sensata per l’epoca in cui Mary scrive). Nonostante tutto però, che sia per quel volere dell’editore o perché l’autrice piegandosi al mercato abbia voluto mandarci comunque un messaggio, di quel lieto fine che arriva quando lo lasciamo arrivare nonostante le circostanze avverse, proprio Jo, che si etichetta maschiaccio della famiglia, se non sta attenta, per stravolgere lo stereotipo della donna dell’epoca, rischia di rimanerne vittima.
Lei stessa, sta per perdere tutto, tutto quello che conta, per restare fedele a una idea che si è fatta della donna e della vita, a un ideale di emancipazione che avrebbe potuto costarle la vera libertà. Il vero femminismo di Piccole Donne è qualcosa di molto più profondo, che supera anche lo stereotipo stesso di “femminismo” che la modernità ci ha venduto. E’ quello che, a mio avviso, continua davvero a parlare in ogni epoca alle ragazze, perché più che lotta a una immagine creata da qualcuno, da una istituzione come il matrimonio, dalla società maschilista o da quel mercato che vuole solo ciò che vende, è lotta agli stereotipi che noi stesse creiamo e da cui è anche più difficile sfuggire.
A pensarci, il femminismo stesso che ci vuole forti, consapevoli, lavoratrici e non vestite di rosa è uno stereotipo. Noi, che ci siamo fatte una immagine della felicità pensando di poterla raggiungere da sole, col lavoro dei sogni o con l’uomo perfetto che rispecchia i requisiti che ci siamo prefissate, non uno di più non uno di meno, altrimenti niente, non ne vale la pena (e non dico di accontentarsi del primo che capita, ma proprio di quanto siamo diventate maniache dell’ipercontrollo, schizzinose su tutto anche coi nostri compagni, incapaci di sopportare anche piccoli difetti). Noi che non sappiamo più donarci davvero, mettendo da parte quei sogni di cui abbiamo tutto il diritto, certo, ma che, siamo sicure, possano davvero darci quello che cerchiamo così come ce li immaginiamo? Troppe volte un traguardo raggiunto con tanta ostinatezza e senza guardare o ascoltare nessuno si è dimostrato solo illusione.A volte, come sarà per Jo, vale la pena fare una deviazione e ammettere a noi stesse che no, non avevamo del tutto ragione.
E qui entra in scena la signora March,
resa in maniera encomiabile dalla Gerwig per la profondità e quella voglia di donare e donarsi, di esserci sempre per le sue figlie, ma anche di accogliere quelli degli altri, è l’esempio su tutti, quello da cui le ragazze, alla fine, imparano la lezione più importante. Lei che ammette di non essere paziente, di averci messo quarant’anni anni a imparare, davanti a una Jo stupita, perché non l’ha mai vista perdere la testa, sua madre. Quella madre che è sempre perfetta agli occhi dei figli, che fa sembrare facile un ruolo in realtà così complesso e duro, che solo l’amore fa apparire agli occhi di tutti, spontaneo. “Anche tua madre aveva dei sogni” le ricorda la severa Zia Marge, ma Jo non l’aveva mai vista così: pensa che sua madre sia felice perché si è accontentata di essere moglie, perché era quello il suo piano effettivamente, senza quei sogni gloriosi a cui lei invece tiene tanto. Come ricorda la stessa regista invece:
Alcott ha mostrato alle donne che non servono imprese straordinarie per fare la differenza: le nostre vite contano anche se conduciamo esistenze ordinarie. E non c’è un modello unico: le opzioni sono tante.
Ha detto “sì”, la signora March, ha accolto la sua missione e quella del marito, nonostante non fosse, forse, così nemmeno nei suoi piani originari. Ma è felice: sullo schermo c’è una donna matura, davvero realizzata, non ripiegata su sé stessa a rimpiangere una vita diversa, più ricca, più giusta, impegnata a rendere bella e piena quella che ha. Per lei e per gli altri. Una donna che svela il segreto della felicità senza tempo: i sogni non si realizzano come li avevamo immaginati anche nel 2020, neanche quando il nostro stipendio sarà quello dei nostri mariti e con tutte le possibilità di realizzazione che comunque ci rendono più fortunate dalle sorelle March. E Jo, nel suo sostenere sempre le sorelle, nelle loro ambizioni, ci restituisce un femminismo concepito non come una corsa solitaria dietro la cortina della donna alfa, forte e spesso sola, ci ricorda piuttosto che la sorellanza è il più grande privilegio che noi donne abbiamo.
E’ essere deboli, oggi, la vera rivoluzione femminile
E’ riprenderci quel diritto a essere meno di quello che la società vorrebbe, se sentiamo che ci fa felici. E’ lasciare andare, non rispondere alle aspettative, è sposare il maestro non così ricco come lo avremmo voluto, per poi accorgersi, come Meg, che nessun vestito di pizzi e merletti potrebbe reggere il paragone con l’amore. E’ mettere da parte le battaglie di una vita, come Jo, per accettare che sì, nella strada che proprio non avremmo voluto, c’è la nostra strada. Non perché non siamo autosufficienti o perché il nostro cervello è minore di quello dei maschi perché è risaputo: da ogni parte sbucano studi scientifici a confermare che le donne lo fanno meglio degli uomini in tutto, ma perché dobbiamo rimettere al centro noi stesse e quella possibilità di non avere sempre tutto sotto controllo, che la vita è troppo complessa per seguire un’idea per partito preso. Potremmo scoprire che accogliere le nostre debolezze, accogliere gli altri, rompere la cortina di forza e indipendenza che ci hanno fatto erigere è la nostra vera vocazione. Un sì alla volta: all’amore, ai cambiamenti, alle richieste, alle nostre debolezze. Proprio lì sta la vera forza delle donne, anche in quel rivalutare quell’eterno essere seconde, come fa Amy: ne va della felicità di una vita intera. L’idea che la donna debba mettere se stessa prima di tutto, debba scegliere da sola, debba dimostrare anche di valere qualcosa facendo tutto con le proprie forze ci limita.
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Quanto è felice e realizzata quella Beth che vive consapevole della sua fragilità e di poter solo dare amore nella sua vita?
Quanto semplice, inutile appare la sua esistenza a noi, ma non a lei che non si lamenta mai una volta della sua condizione e quanto è davvero il fulcro della famiglia e alla fine il punto di svolta per le sue sorelle?
Anche il dolore acquisisce un senso per la nostra vita, non perché sappiamo spiegarlo, ma solo accoglierlo con fiducia: ”È come la marea, Jo, quando sale lo fa lentamente, ma niente può arrestarla”, dice la diciannovenne abbracciata alla sorella. Continua il libro:
Come un bambino fiducioso non faceva domande, ma lasciava tutte nelle mani di Dio e della natura…sicura che loro e solo loro potessero irrobustire il cuore e lo spirito in questa vita e in quella futura…Non rimproverò Jo con discorsi edificanti, ma l’amò ancora di più per il suo affetto spassionato, e si aggrappò stretta al caro amore umano, dal quale il Padre nostro non vuole mai strapparci, ma attraverso il quale Egli ci guida fino a sé. Non poteva dire “Sono contenta di andare” perché la vita le era molto cara, poteva solo sospirare “Cerco di avere una buona volontà” aggrappandosi a Jo.
Meraviglioso, questo Piccole Donne che ci riporta alla malinconia della nostra infanzia, a quel calore di un abbraccio fraterno che non vorremmo mai perdere, tratteggiandolo sullo schermo con tinte calde in contrapposizione a un futuro freddo, incerto, disilluso, segnato dalla paura della perdita e di quel “non essere amate” gridato da una Jo che si sente sola, quando tutto sembra finire, ma sola perché, in fondo, prigioniera di sé stessa.
Essere amati, anche se a volte lo pensiamo, non ci basta. E’ amare che ci rende libere e più forti, andando contro gli ideali di una vita o abbassando l’orgoglio per fare spazio a una seconda possibilità, accontentandosi della ricchezza che già abbiamo e che ci sfugge fin quando non manca.
QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE PUBBLICATO SUL BLOG MARTHA MARY AND ME