Inauguriamo la rubrica Gemme con la voce di una poetessa che ci dona una ferita che sanguina eppure splende: “Anche se non si è madre di qualcuno la parola madre è sempre figlia di qualcuno, è un amore che vorrebbe una discendenza come quella delle stelle, non una di meno, non una di più”.
Cominciamo a raccogliere su For Her le nostre Gemme. Abbiamo pensato di lasciare alla voce di una donna, poetessa, il compito di muovere i primi passi su questo sentiero fatto di parole incarnate. Francesca Serragnoli vive a Bologna, dove si è laureata in Lettere Moderne. Ha lavorato presso il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna, e attualmente fa parte del direttivo; la sua opera, riconosciuta da svariati premi, è presente in molte antologie tra cui Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004). Le abbiamo chiesto, oltre alla domanda principale: “Quale parola ti ha insegnato la vita?”, di accompagnarci a esplorare il mistero del linguaggio. La ringraziamo, anche, di aver scelto questo spazio per offrici un suo inedito.
Di Francesca Serragnoli
Nella mia esperienza marginale di scrittura (tre libri in più di vent’anni) posso affermare con certezza che le parole non servono a nulla, non bastano. Cerco di spiegarmi. Ultimamente ho cercato di completare (correggere) due poesie che ritenevo essere fondamentali. Avevo pensato a quella sensazione che le aveva fatte nascere come un momento straordinario, inglobante tutto ciò che poteva appartenere alla mia vita. Invece non sono riuscita a scriverle perché dietro l’incanto c’era il burattinaio di volere essere qualcosa. Nel mio caso voler essere un poeta. Sono un poeta? Non lo so. Ma certamente ciò non dipende dalla mia volontà, non del tutto. Prima di arrivare a questa amara constatazione ho scardinato tutto il vocabolario e la retorica delle immagini, ho violato ogni analogia, ho usato tutto ciò che avevo nella mia stanza-vita per poter raggiungere quello che volevo dire, quello che la mia volontà voleva riportare sulla pagina.
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Le parole non bastano, anche sapendole muovere come un giocoliere, anche sapendo tenerle sospese in aria come bellissime stelle fredde. Le parole diventavano come scarpe vecchie, nessuna della misura giusta. Con le parole si può seppellire quel barlume di intuizione che ha fatto sgorgare qualche verso iniziale di una poesia. Come poteva essere possibile? Eppure io so usare (un poco) le parole. Le parole coprono o scoprono, questo è vero. Ma che cosa coprono o scoprono? Il primo fiore della scrittura è il silenzio. Sentire che la vita ricomincia in un punto, indicare con il dito quella sorgente, con tremore e stupore. La posta in gioco non è né copiare la realtà descrivendola né aggiungere una didascalia a una immagine o interpretarla filosoficamente. La differenza è fra immagine e visione. L’immagine è ferma, la visione è un’immagine dentro al tempo, è un tassello del tempo che opera un movimento, una partecipazione. Ogni parola è viva se resiste dentro questa instabilità. Il vocabolario della mia vita, delle parole usate nella scrittura, è fatto di sassi sui quali non riesco a poggiare più il piede. Mi hanno sempre invitato a scorgere un salto successivo. Di gioia in gioia e di dolore in dolore.
Lo stesso Dante, forse, non ha gioito delle immagini scovate dalla sua intuizione, ma ne ha fatto un passaggio, le ha attraversate, come visioni dove dentro si entra e non dove ci si riposa o si trova un riparo. Eppure il tempo di Dante non somiglia al nostro. È un tempo strano che non ci mette fretta e che somiglia piuttosto ad un eterno presente, a un’occasione più verticale che orizzontale. Parole che si muovono, parole vive (anche nel regno dei morti che non sono più morti) che rimbalzano più che rotolare via nella gravità di tutti i giorni.
Il linguaggio non ci protegge dal tempo che scorre, ma neppure ci protegge da un altro tempo, quello verticale. Fermare una parola sulla pagina, definitiva, lascia un brivido di incompiutezza, un ossimoro ontologico. Infatti la parola viva non sta ferma.
Allora cosa posso rispondere alla domanda chi sono oggi?
Un pugno di parole che sfioriscono e rinascono tentando di bucare la terra. Come diceva Clement. La rosa buca lo spazio, verso quale altrove? La parola buca l’aria, verso cosa? Possedere la realtà è impossibile, quella realtà che ci muore fra le mani o al telegiornale. “Ogni volta che mangio, qualcuno muore” (Loi).
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La poesia è una corona di spine, un fardello insopportabile perché proprio quelle spine feriscono, la bellezza ferita ferisce. E’ un dialogo infinito nel tempo, ma non in quello dell’orologio. E quando si trovano le parole giuste, necessarie, definitive, si ha quasi un senso di nausea. Non bastano. Qui la differenza fra pace morta e pace viva, dinamica. Chiedere alle parole di salvarci è chiedere l’impossibile. Rimbaud aveva smesso di scrivere. Con le parole non si fa la comunione con Dio (con dio), non sono un sacramento cristiano o ateo. Cerco di spiegare questo movimento, questo invito al movimento, alla torsione del vivere. Non si tratta di scappare in avanti, ma nella direzione di un destino. Le parole sono il suono delle cose, la percezione musicale del loro gridare di essere un destino. La parola può arrivare all’altezza della Cappella Sistina (non so quanto possa misurare) e lì, in quel cielo di canto, caos e colori si può attendere la parola altrui, quella che qualcun altro ci rivolge.
La vera bellezza non è un salotto con comodi divani, anzi.
La grande bellezza sente il peso del cemento, dei mattoni, del tetto. Eppure sta lì, come dentro a una soglia, come cercasse un buco battendo con la testa nel soffitto. In questo luogo di confine la pronuncia di ogni frammento di colore diventa un segno. La bellezza avvolta in una disperante solitudine, una ferita scoperta, sanguinante. L’uomo nudo al confine dell’umano. Rinato nudo. Ma è una altezza che non soddisfa, una bellezza che zoppica dalla parte del mondo, un volo con un’ala sola. Una poesia che fa sgorgare le lacrime è una soglia, non ci si sente sazi di bellezza, anzi. Platone ne aveva intuito la forza, l’essere via e non traguardo. La poesia (l’arte) non salva il mondo dalla morte neanche quando custodisce le parole o le rende vive di esperienza umana (anche questa muore), ma può forse vedere la realtà come salvata. Ma come? Come si fa a vedere la realtà come salvata dalla morte?
Il poeta crea, ma non dal nulla. Non è un mago. Se la poesia servisse ad accelerare il movimento verso la morte, forse meglio lasciar perdere. Sarebbe un suicidio dolce e intenso. Autocompiaciuto forse. Non mi viene in mente altri che Dante che, sono convinta, sia riuscito a raccontare l’inferno solo dopo aver visto Dio. Non il contrario: ha dovuto fare il viaggio nella vita oltre la vita per vedere finalmente Dio eccetera. O l’arte è un resoconto della vita come illuminata da qualcosa che permette di vederla come salvata o è un tentativo fallimentare, una torre di babele che s’innalza con il suo linguaggio e al massimo arriva a quella malinconia irritata di Baudelaire, a una mancanza insopportabile per la quale ogni parola, sì, s’incendia, prende fuoco, ma illumina un inferno. Allora se la parola prende fuoco, cioè muore dello stesso destino della realtà, perché aggiungere fuoco al fuoco? Pronunciare la realtà è pronunciarne il destino. Si potrebbe poi indagare sulla differenza fra bruciare e splendere (radice della parola Dio).
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Il divieto di uccidere vale anche nelle parole. Pronunciarne il destino non significa avere l’autorità di condannarla o di salvarla. È paradossalmente qualcosa di più forte. Cosa significa? Non si può rispondere a questa domanda con giri di parole retorici o immagini. O tutto brucia o tutto è salvato, a seconda delle opinioni degli scrittori. Che potere ha la parola? Più che incendiare la realtà (nel fuoco che non brucia che è anche quello dell’inferno probabilmente, dove non si può più morire), più che condannare o salvare la realtà come se ciò fosse una opinione, la parola accende la propria candela d’esistenza, dice “guardami a qualcuno” e allo stesso tempo guarda con gli occhi degli alberi, delle cose tutte. Vedere la realtà come salvata significa vederla nell’ordine di un destino. È più che sufficiente. Il miracolo di Dante poi è un miracolo. La candela dei volti rimane accesa per sempre. Vedere l’inferno come salvato, cioè tutto come destino, è confortante. Basterebbe questo. Mi sono sempre chiesta quali poesie avrebbe potuto scrivere Lazzaro. Peccato non ci abbia lasciato nulla.
Non ho parlato delle vie di mezzo, del linguaggio tiepido e corretto, decorativo. Ho cercato il mio linguaggio, dove la parola vita e morte si danno la mano tremando, nello stesso viaggio. Anche se io non sono Dante, verrà il giorno, come riportava Cristina Campo, che di nuovo la nostra vita (parola-nome) sarà sospesa ad una punta di freccia. E aggiungo, non ad altezza d’uomo.
La parola che vorrei donare è madre
Non potendolo essere in maniera carnale, è una parola che mi ha donato uno spazio bianco sul foglio, una tragedia infinita. Parola che, al cui pronunciamento, fa tremare le vene e i polsi. È quel vuoto sul fianco intuito tanti anni fa. Quel vuoto che può diventare un abisso o un luogo. È una parola che scardina ogni porta. Apre sempre, come un buco naturale o ontologico. Non si riesce a togliere dal destino e neppure dal vocabolario. Un ventre desolato, senza fiori dove un lutto nauseabondo offre ristoro ai lutti di tutti i giorni. Li nutre come mancanze affamate.
Una parola che nasce continuamente e che acconsente al silenzio di riempire quel vuoto. In quella stanza dove anche la preghiera è morta nel silenzio, l’attesa è come moltiplicata per mille. Eppure non arriverà nulla, nessun volto come lo si è pensato o sognato. In quella stanza che è la parola madre e che qualcuno ha riempito di grida, pianti e colori, in quella carne in cui risuona talvolta il vuoto di un osso o di una campana, c’è posto. Dove non mangia nessuno, si mangia in due, si mangia in tre.
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E se fossi figlia del tuo figlio anche io? Parola che invita a rinascere da vecchio. A questa parola in me manca la vita, eppure è così viva. Una ferita che si rimarginerà in cielo. Una tasca scucita da entrambi i lati. E se non sono madre di lui o di lei e tu lo sei, aggiungi a questa parola una sedia vuota perché qualcuno possa rinascere da vecchio nel tuo ventre. Non c’è conforto, ma la parola madre sfonda l’utero sia da una parte sia dall’altra. E quando non si è neppure proletari, la povertà assoluta nella carne viva è un amore che deve sciogliersi piano piano. Anche se non si è madre di qualcuno la parola madre è sempre figlia di qualcuno, è un amore che vorrebbe una discendenza come quella delle stelle, non una di meno, non una di più.
E per chi non ha una madre, non ce l’ha mai avuta o non ce l’avrà mai, non abbia paura di questa parola. La lasci esistere. Lasci la stanza vuota. In quel silenzio ci raduneremo tutti, poveri, con l’unica ricchezza, la pronuncia del proprio nome cioè del proprio destino.