Difficile dire chi resterà più deluso – se quelli che in Frozen II speravano di trovare “svolte gender-friendly” o quanti temevano di trovarcele –: “Into the Unknown” svela il mistero di una regina così intimamente interpellata da una voce assoluta da trovare l’equilibrio della propria vita – e la propria missione rispetto alla nazione e al mondo – in quell’ineffabile rapporto.
Diceva Origene che l’esegesi è un po’ come gli strumenti con cui il Levitico prescrive di offrire i sacrifici nel Tempio: c’è anzitutto la griglia, poi c’è la padella, infine c’è il forno. E naturalmente “il maestro delle Chiese” (così lo chiamavano) ricavava da questo arido elenco di technicalities liturgiche un’allusione rispettivamente a “quel che a prima lettura appare evidente a tutti”, “quel che si capisce soltanto a forza di leggere e rileggere” e “il senso mistico del testo” (Orig., HLev. 5,5).
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Ecco, dopo la visione di Frozen II – il segreto di Arendelle l’ingorgo di emozioni e di pensieri è abbastanza forte da respingere per un poco il sonno, ma chiaramente dopo una sola proiezione (ancorché intensamente partecipata) si perdono almeno i numerosi sensi che si svelano solo in una reiterata visione (cui mi sottoporrò volentieri con moglie e figlie nei prossimi mesi). Le recensioni di quel che arriva ora nelle sale, però, non ambiscono a svelare chissà quali reconditi misteri, e anzi – poiché da queste parti non siamo del tutto sprovvisti dei rudimenti dell’esegesi – non disperiamo di poter lasciar intravedere qualcosa di essenziale al lettore fin dalla prima visione.
Verso l’Ignoto
Il titolo originale del secondo film – distribuito in Italia come “Il segreto di Arendelle” (traduzione non errata e non fuorviante) – è “Into the Unknown”, nome della canzone di punta della colonna sonora (bella la versione italiana nell’eccellente interpretazione di Serena Autieri), e se si coglie bene questo tema si è facilmente introdotti ai sensi più intimi del film (“il forno” – direbbe Origene), i quali sono poi quelli che fanno funzionare la storia anche se non li si coglie: io temevo che fosse difficile la riuscita del film perché (malgrado il finale aperto della pellicola del 2013) vedevo l’unità narrativa già compiuta, e dunque sviluppare una trama nel senso di “cosa accadde dopo” sarebbe facilmente potuto ricadere in “film da botteghino”. Il genio narrativo di Jennifer Lee, invece (classe ’71, autrice e regista del film), ha optato per una nuova storia che però esplorasse sempre la medesima cosa, cioè il senso e il significato del potere di Elsa, in cui si rivelano raccolti le storie delle sorelle, della dinastia e della nazione.
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Elsa è regina, accolta e amata: vive con la sorella e le due ospitano a palazzo il quasi-cognato (che fin dall’inizio del film cerca goffamente e vanamente di fare “la proposta” ad Anna). Quel che interviene a muovere l’intreccio non è un fatto esterno, ma una locuzione interiore che Elsa avverte: è il “kulning”, misterioso richiamo vocale usato nella pastorizia scandinava per richiamare gli animali lasciati andare al pascolo e ritenuto ab immemorabili pregno di valenze magiche (guardare i video realizzati da Jonna Jinton).
Tale è la voce che Elsa – ed ella soltanto – avverte, mentre i suoi poteri continuano a crescere (non nello sgomento dell’incontrollabilità, come nel 2013, ma nella domanda sul loro senso e sul destino a cui chiamano la Regina). Il kulning è composto di tre note (due delle quali si ripetono), e se già così è difficile capire se si tratti di un suono o di una voce, il semitono calante con cui esso si chiude aggiunge nell’ascoltatore la difficoltà di discernere se la sua manifestazione sia un fenomeno positivo o negativo. A entrambi i temi Elsa dà la sua partecipata risposta nel top-track della colonna sonora, della quale offriamo di seguito una traduzione letterale dal testo originale:
Riesco a sentirti ma non voglio:
c’è chi cerca guai e chi non li cerca.
Ci sono mille ragioni per cui dovrei pensare ai fatti miei
e ignorare i suoi bisbigli, che vorrei andassero via, oh…[kulning]…
Tu non sei una voce: sei solo un fischio nel mio orecchio,
e se ti ascoltassi… cosa che non sto facendo: è per paura che parlo…
Tutti quelli che ho sempre amato sono qui tra queste mura:
quindi perdonami, o segreta sirena, ma ora bloccherò le tue chiamate;
ho avuto la mia avventura, non me ne servono di nuove,
ho paura di quel che rischio se ti seguoverso l’Ignoto [x3]. [kulning]…
Che cosa vuoi?, visto che sei tu a tenermi sveglia:
sei qui per distrarmi così che io compia il grande errore?
Oppure sei qualcuno lì fuori che mi assomiglia un poco
e che sa profondamente come io non sia dove devo essere?
Ogni giorno è un po’ più difficile come sento che il mio potere cresce:
non sai che c’è una parte di me che vuole andareverso l’Ignoto [x3]. [kulning]…
Sei lì fuori?
Mi conosci?
Puoi sentirmi?
Puoi farmi vedere?[kulning]… [x6]
Dove stai andando? Non lasciarmi da sola!
Come faccio a seguirti
verso l’Ignoto?[kulning]…
Elsa ha un dialogo notturno, solitario e profondo, con questa voce interiore: prima la scaccia, qualificandola come “rumore”, poi ne riconosce la natura intelligibile e volitiva, ma la taccia di infingardaggine («sirena segreta»), infine ammette a sé stessa che quella voce è di qualcuno, di qualcuno che la conosce a fondo, perché assomiglia a lei, e che la chiama a un esodo.
Vocazione ed esodo
Non uso il termine biblico a caso: per chiunque abbia un minimo di pratica delle Scritture giudaico-cristiane è difficile non richiamare alla mente la sofferta vocazione di Geremia – il quale come Elsa confessa di aver da principio cercato di negare e rigettare la Voce – ma non intendo affatto affermare che Frozen sia “un film cristiano” (ammesso e non concesso che un film possa “essere cristiano”). Affermo però decisamente che Frozen descrive il mistero, senza neppure girarci troppo intorno, e so e professo che il Mistero è multiforme (come anche il film manifesta) ma semplice e unico (cf. Eb 1,1).
Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;
mi hai fatto forza e hai prevalso.Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno;
ognuno si fa beffe di me.Quando parlo, devo gridare,
devo proclamare: «Violenza! Oppressione!».Così la parola del Signore è diventata per me
motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno.Mi dicevo: «Non penserò più a lui,
non parlerò più in suo nome!».Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente,
chiuso nelle mie ossa;mi sforzavo di contenerlo,
ma non potevo.Ger 20,7-9
A questo punto avviene “la magia”: la risposta di Elsa alla voce – diciamo il suo fiat – manifesta in modo evidente il dissidio tra i quattro Elementi (Paolo direbbe «il gemito di tutta la creazione», cf. Rom 8,18-25) – un incendio, una burrasca, del vento e un terremoto (cf. 1Re 19,11-12) costringono la gente di Arendelle a scappare dalla città e a rifugiarsi su un altopiano – e Granpapà (il re/sciamano dei troll, già noto dal 2013) spiega alle sorelle che il dialogo tra Elsa e la voce aveva scatenato il dissidio tra gli spiriti degli Elementi (si potrebbe notare a margine che anche stavolta si evidenzia come l’intelligenza magica del troll sia sostanzialmente psichica, ma il discorso sarebbe lungo e proverò ad affrontarlo altrove…).
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Elsa s’inoltra allora nel bosco, con Anna (che la prega di non affrontare questa sfida escludendola), Christoph, Sven e Olaf (grande protagonista del livello comico del film!): attraversando una cortina magica grazie ai poteri della Regina, i cinque si ritrovano in una foresta incantata dove ben presto vengono in contatto con i reduci della guardia reale di Arendelle e del popolo dei northumbri. Il nome degli indigeni basta a indovinare il busillis della trama, per chi mastichi un poco di storia medievale europea: i Northumbri erano infatti un popolo anglosassone che cadde sotto l’invasione danese (e la Regina e il suo popolo sono intesi danesi in omaggio ad Andersen). Di tutto ciò però non è avvertito lo spettatore medio, e del resto neppure i personaggi: le sorelle avevano sentito di accordi di pace stipulati dal loro nonno paterno con loro, eppure l’inimicizia evidente tra le due fazioni di reduci dimostra chiaramente che la verità storica doveva divergere dalla narrazione avita.
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Con la manifestazione dei poteri di Elsa, che domina lo spirito del Fuoco davanti ai northumbri, sorge negli indigeni la giusta domanda: «Perché la Natura avrebbe favorito coi suoi doni una regina di Arendelle?». La constatazione empirica del carisma soprannaturale basta a sospendere il giudizio dei pagani northumbri, fino a quel momento votati alla guerra: per bocca della donna che capeggia il villaggio seminomade, gli indigeni spiegano di essere sempre disposti ad obbedire alla Natura (eppure sono manifestamente incapaci di controllarne gli Spiriti). Elsa capisce che quella tregua è lo spiraglio della pace, ma che per perseguirla deve rispondere fino in fondo al richiamo della voce, e se da principio la Regina pensava di poter/dover dominare gli elementi uno ad uno, ella intuisce poi che la voce la chiama altrove, così fugge dalla sorella per affrontare l’aperto e impetuoso Mare del Nord, dove dovrebbe trovarsi la misteriosa isola/ghiacciaio di Ahtohallan, sorgente del Grande Fiume che – come nelle cartografie medievali – abbraccia e vivifica tutti i continenti.
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«È l’apoteosi di Feeria», ha commentato brevemente l’amico tolkienista Gabriele Marconi: io non so se lo sia di Feeria (mi pare che vi si serbi una memoria più vasta, e che vi consista un Io personale, buonissimo e sapientissimo), ma di certo si tratta – appunto – di un’apoteosi epica, ossia di un luogo fisico che simboleggia efficacemente Dio. Elsa vi vive un’avventura che riguarda soltanto lei, e la regia della Lee nutre questo segmento del film con prove di balletto che s’inseriscono alla perfezione nella sceneggiatura (c’è mestiere da vendere sotto tutti i profili della settima Musa): l’addentrarsi della Regina nel ghiacciaio, sempre più onirico, riecheggia le esperienze descritte ne Il Castello Interiore di Teresa d’Avila, e una volta che Elsa giunge “nella Settima Dimora” le si manifesta appieno la verità, che non è una mera nozione ma l’adempimento della vocazione, Mistero e Destino insieme (“Show yourself” smisurata preghiera). I propri, quelli della sua casata e quelli del suo popolo; ma ora il suo carisma è tutto speso nell’esperienza mistica, dunque è la simbiosi sororale a comunicare il cuore dell’esperienza veritativa ad Anna, che è rimasta sulla terraferma ma capisce «la cosa giusta da fare» per riportare la pace tra i popoli e, sanando nella riconciliazione la memoria degli uomini, per ristabilire l’equilibrio cosmico degli Elementi. Una visione potente e olistica, dove lo spirito e la carne, la contemplazione e l’azione, l’uomo e la natura, il creato e il divino si richiamano continuamente – pur senza confondersi – come due facce di una moneta che si faccia roteare su un piano.
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Gli “ingredienti segreti” della Disney: sesso e monachesimo
Viene da sorridere a pensare a quanti temevano Frozen II come il preludio a una regina “gender friendly”: in realtà Disney ha reso il racconto della Regina delle Nevi molto più sessuato di quanto non fosse in Andersen (dove i due amici Kay e Gerda sono bambini e il loro affetto non ha immediate ricadute coniugali), ma se c’è una cosa che davvero è stata sdoganata da Il segreto di Arendelle si tratta della vocazione di speciale consacrazione, perché l’algida solitudine del personaggio anderseniano non è causata da una delusione amorosa, nel film Disney, ed è stata riempita dal colloquio con un Tu assoluto che «è buono» anche se le apparenze possono dire il contrario («Guarda Arendelle!», dicono alla Regina dopo lo sconvolgimento degli Elementi). Sì, l’inquieta Elsa sboccia e trova pace in una sublime vocazione monastica, che anzi trasvola perfino oltre, carezzando il limite dell’essere umano consustanziale (non lo dico a caso) alla Quintessenza – ciò che tiene insieme gli Elementi pur trascendendoli tutti –, e quando Elsa la Bianca (ah, gli echi tolkieniani!), di ritorno da Ahtohallan, va a farsi riconoscere dalla sorella chiamandola per nome si respira aria di Gv 20,16 (Anna le aveva già fatto la sua brava professione di fede: «Io credo in te, Elsa, in nessuno come in te» – cf. Gv 11,27). Elsa è personaggio monastico e messianico, sì, e dopo la pacificazione cosmica deve necessariamente ascendere a un diverso tipo di esistenza: se nel secondo episodio (che è un sequel e un prequel al contempo) si trova una cornice ancora più fiabesca e “canonica” alla vicenda del primo, anche i personaggi acquistano in questa pellicola una profondità e un dinamismo che nel primo sembrava esigere un complemento (lo si pensa soprattutto, ma non solo, per la figura della madre delle due).
Per comprendere Il segreto di Arendelle (che è la semplice verità dell’umanità ferita che non può salvarsi da sé), bisogna anzitutto ricordare che Frozen è stato, nel 2013, una rilettura disneyana (nel senso più alto e più nobile del termine) di un racconto popolare europeo stabilito nelle sue forme letterarie canoniche nel 1844 da Hans Christian Andersen: l’inserimento del tema della sorellanza aveva già mutato il destino della Regina, che in Andersen è glaciale perché sola, mentre in Disney al contrario si isola perché misteriosamente gelida. Seguendo la vicenda di Elsa ed Anna attraverso i due film del 2013 e del 2019 si ripercorre la storia dell’uomo e di ogni uomo, che nella multiforme diversità dei carismi di natura e di grazia trovano dapprima occasione di scandalo e di conflitto, provano allora a regolarne l’uso tramite la legge e fanno quindi esperienza della necessità di una grazia che tutto superi, tutto raccolga, tutto perdoni e redima.