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Mohamed, il papà adottivo dei piccoli malati terminali di Los Angeles (VIDEO)

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Giovanna Binci - pubblicato il 25/11/19
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Niente cure particolari, niente farmaci costosi: esserci. Restituire ai bambini abbandonati perché malati la cosa più grande che il dolore ha tolto loro: il calore di una famiglia. La storia di un papà coraggioso che mostra ai suoi piccoli che il bello della vita, è anche per loro.Quando la vita ti toglie tanto è più facile lasciarsi sopraffare dal dolore, arrabbiarsi con quel Dio che si è preso tutto, chiudendosi dietro ai “perché” di un destino così ingiusto che, a te, proprio non può chiedere nulla di più. 

Ho dato abbastanza, per questo giro. Non ci sono per nessuno.

Al destino che gli ha portato via la moglie Dawn nel 2014 o a quel Dio che ha segnato la sua vita con la croce della malattia di quell’unico figlio, affetto da nanismo, Mohamed Bzeek poteva rispondere proprio così: cosa altro vuoi da me? Non chiedermi di più, perché quello che ti ho dato, è già tanto.

Invece, questo “papà coraggio” di origini libanesi, ha fatto proprio di quel dolore la sua missione. La sofferenza che tutti cerchiamo di allontanare e fuggire, la stessa che ha spaventato i genitori dei piccoli malati terminali a cui, insieme alla moglie scomparsa, ha deciso di offrire una casa, proprio quella sofferenza insensata all’apparenza, è diventata per Mohamed, motivo di vita.

“Non hanno una famiglia, così li prendo con me e possono avere una famiglia. Quando muoiono lo fanno stando con la loro famiglia”

racconta al Daily Mail, con la semplicità di chi non sente di fare nulla di eroico.


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Ottanta piccole vite accolte, dieci finite tra le sue braccia: la tristezza non ha mai fermato Mohamed, il dolore non è stato una scusa sufficiente di fronte ai sorrisi, agli occhi di quei piccoli a cui deve mostrare che la parte bella della vita, spetta anche a loro.

In una storia segnata dalla croce, c’è una cosa che Mohamed non si è lasciato strappare dal dolore: la sua umanità. Invece di crogiolarsi nell’”abbastanza” che aveva già dato a Dio, ha deciso di continuare sulla strada intrapresa venti anni prima con Dawn quando, a metà anni novanta, avevano aperto la loro casa a una bimba con la spina dorsale deformata, costretta a indossare il gesso integrale. «Non potendo sostenere economicamente le cure, la madre l’aveva abbandonata al suo destino», ricorda l’uomo.

Una vita che ha chiesto tanto a questo papà e marito, ma che la sofferenza ha riempito: di sorrisi, di piccoli traguardi, di giorni in più tolti alla malattia. Una sofferenza che, se abbracciata con fiducia, e guardata con gli occhi di un Dio che ci ama non per quello che siamo, ma solo perché siamo, ti mostra il vero senso di questo viaggio. Non toglie nulla, dà oltre quello che puoi immaginare. 

E quanta vita c’è nelle attenzioni, in quei gesti privi di senso a chi non sa guardare col cuore, come accendere le candeline per i sei anni di Samantha, cieca, non udente e paralizzata o nel far sedere a tavola quel piccolo che non può mangiare come gli altri, ma solo attaccato a un tubo. Perché il calore, anche se non si può vedere o sentire nel modo in cui lo sentono tutti, arriva lo stesso, soprattutto quello dell’amore incondizionato di una famiglia intorno a un tavolo. Niente cure particolari, né farmaci costosi. 

Esserci, dare a questi bambini la cosa più grande che la malattia ha tolto loro: l’amore di una mamma e di un papà.


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Quanta vita negli abbracci di un estraneo che decide di fare per quei piccoli sconosciuti quello di cui neanche il sangue del loro sangue è riuscito a farsi carico. Una vita piena, non solo perché accudire giorno e notte una bimba che rischia di soffocare a ogni conato di vomito ti riempie letteralmente ogni attimo e attenzione, ma perché straripa di umanità e calore. 

Se è vero che nessuno merita il dolore, è ancora più vero che nessuno merita di essere lasciato solo a portarlo. Soprattutto chi dovrebbe sperimentare solo amore incondizionato e protezione.

Quell’amore lo possiamo dare tutti, non è una medicina rara e non possiamo pagarlo se non col nostro coraggio e col nostro tempo. Mohamed e sua moglie lo hanno capito: quel Dio ingiusto, quel destino, non è stato crudele con loro, gli ha chiesto solo quello che potevano dare, niente di cui non fossero capaci, qualcosa che è insito in loro e in noi. L’amore. 

La vera malattia è quella che ci rende ciechi di fronte a chi ha bisogno di noi. La vera sofferenza ce la infliggiamo da soli quando pensiamo che la nostra fragilità sia una debolezza da nascondere e archiviare invece di lasciare che tiri fuori la potenza e la bellezza dell’essere umani.

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