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Quando il figlio tanto atteso non arriva

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Silvia Lucchetti - pubblicato il 04/11/19
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Una madre riflette a tutto tondo sugli aspetti tragicomici e spirituali di questa sofferta esperienza personaleIl piccolo volume di Livia Carandente “Quanti figli hai? Quando l’attesa di un bebè dura più di nove mesi”, Tau Editrice, si legge piacevolmente tutto d’un fiato, come in una corsa sui 100 metri piani, ma se volete, per non farvi venire il fiatone, facciamo pure i 200. È il racconto autobiografico, apparentemente leggero e ironico, ma intriso di tanto dolore, e denso dei grandi insegnamenti che solo la sofferenza può donare, dell’attesa di un figlio che non arriva, e di tutto ciò che di profondamente intimo e di “sociale” ruota intorno ad una donna e ad una coppia che non riesce ad avere bambini.

L’infertilità mi ha regalato il dono della consapevolezza dei miei limiti

Una donna peraltro felice, straordinariamente amata dal marito e in carriera come giornalista, il cui equilibrio comincia a scricchiolare sotto il peso sempre più intrusivo di pancioni, fiocchi, biberon e coccarde di “benvenuto bebè”. L’autrice intesse per certi versi una trama autentica da commedia dell’arte, con cui conduce il lettore a condividere i momenti tragicomici della vita di una coppia bombardata dalle domande indiscrete, quando non anche da battute di fatto irrispettose, di parenti, vicini di casa, conoscenti e addirittura estranei. E poi c’è il calvario della moltitudine di esami medici che sono necessari in questi casi, delle lunghe attese nelle sale di aspetto, dei test di gravidanza che ogni volta sentenziano l’assenza della fecondazione e sembrano rimandare ad un “riprova”: forse il prossimo giro sarà quello buono. Ma insieme alla sofferenza arriva pian piano anche il dono di capire ciò che solo attraverso di essa si può ricevere:

È stato l’anno più brutto della mia vita. Ma è stato anche un dono. Ho ricevuto il dono della consapevolezza dei miei limiti, ho imparato a dire “basta, soffro”, ho imparato a non ascoltare le cattiverie gratuite di chi ti parla senza sapere se dietro il tuo sorriso c’è un cuore sanguinante. Ho imparato che la vita è meravigliosa, così come si presenta e che non occorre un figlio per amare tuo marito, né un lavoro totalizzante per poterti sentire capace. Ho imparato che l’amore lenisce e che si può essere felici anche perchè l’orizzonte può sognarlo. E ho imparato che l’ironia di cui sono dotata, condisce bene anche il dolore. Così, mentre recuperavo il mio io, pensavo a come trasformare questa amara esperienza in frutto. Mi abbandono al Progetto, quello che il Padre avrà ideato per me, per noi. Ci siamo rimessi alla Sua volontà, io e mio marito.



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Non sono i figli a dividere le coppie. E neppure il “non averli”.

Infine la coppia decide di percorrere la strada dell’adozione, venendosi a scontrare con il pachiderma burocratico che ne scandisce il percorso, imponendo ai richiedenti il girone infernale di una enorme quantità di accertamenti e documenti che non ha mai fine. Intanto arriva la nascita del figlio della sorella ad addolcirle il cuore, sommergendolo di infinita tenerezza. Intorno a loro il dramma di vari amici che si separano, chi per la mancanza di figli, altri per il loro arrivo che destabilizza l’equilibrio di coppia. Ma come riflette profondamente l’autrice:

Non sono i figli a dividere le coppie. E neppure il “non averli”. È la mancata volontà di riscoprirsi, di innamorarsi e di curare la storia di ogni giorno, che divide. L’amore in sé non può dividere.

La sofferenza fa paura ma non è mai sterile!

In un altro frangente di questa vicenda la protagonista giunge alla consapevolezza di vivere una

sofferenza felice, perché grazie a questa sono una persona migliore, e dalla maternità altra, quella che in modo ancora più alto si compie servendo gli altri, i più piccoli. Conosciuti e sconosciuti, indifesi e difesi. La sofferenza fa paura ma non è mai sterile. La sofferenza ti svuota di te, ma ti riempie degli altri, dell’altro.

15 giorni di ritardo: il piano di Qualcun altro

Dopo cinque anni di attese vane, battaglie perse, ricerca di una adozione che si rivela un miraggio irraggiungibile, è Qualcun altro a tracciare il nuovo percorso della vita di Livia. Dopo un viaggio di lavoro a Praga che si trasforma in un incubo per un brutto attacco di colecisti che la costringe al rientro a Napoli e a ricoverarsi, uscendo dall’ospedale Livia, frastornata, si rende conto grazie al marito che per la prima volta ha un ritardo di 15 giorni, foriero dell’annuncio più bello. Il libro si chiude con i ringraziamenti ai familiari, ai nipotini, al marito che l’ha sempre sostenuta (anche nell’avventura del libro), a suo figlio, ma in particolare a Dio:

Ed infine come ogni produzione che porto a compimento, grazie al mio Creatore. Se tu non mi avessi pensata nel Tuo progetto, non sarei stata qui a raccontare. Grazie Signore.

E noi diciamo grazie a te Livia, per la tua testimonianza vera, venata di allegria e condita, come dici tu, di ironia ed autoironia, che arriva però dritta alla mente ed al cuore.



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