Sono stati pubblicati dall’Huffington Post gli appunti di Benedetto XVI per i collaboratori alla prima stesura di Caritas in Veritate. «Sembra una pagina di Francesco», ha commentato la collega: la verità è che le linee di continuità tra i pontificati sono profonde e stabili.
Io saluto il coraggio di quanti resistono alle false evidenze di un apparente progressismo che costituisce una profonda regressione della nostra umanità. No, la legge non è cosa già fatta e finita. Una parola che si appoggi sulla verità della nostra condizione umana non si ferma all’immediatezza del suo effetto: essa s’iscrive nell’avvenire, quando la coscienza comune saprà valutarne le più spaventose conseguenze, che sono del medesimo ordine di quelle che l’ecologia ci mostra oggi. C’è un intimo legame tra il delirio tecnologico che conduce a distruggere il nostro pianeta in nome del progresso e la follia dei tecnici del desiderio che sconvolge l’antropologia e la natura profonda della nostra umanità.
Così mons. Michel Aupetit, arcivescovo di Parigi, scriveva venerdì scorso su Le Figaro, offrendo una decisa (e decisiva?) pacca sulla spalla a quanti ancora valutavano in cuor loro se scendere in piazza ieri contro il nuovo Progetto di Legge Bioetica. Alla traduzione integrale del testo, che ho voluto produrre per il mio blog, un lettore ha commentato poco fa:
[…] tralascio commenti politici su governi et similia: sono invece entusiasta di leggere quanto hai postato, e te ne ringrazio. Mi è di non poco conforto perché alle volte si ha la sensazione di vivere in un brutto sogno ascoltando le sesquipedali corbellerie non solo dei sostenitori di mostruosità varie, ma anche di cattolici “di buona volontà” che sono, come dire, un po’ confusi. Il che non vuol dire peraltro che loro siano cattivi e non cattolici e noi invece buoni: semplicemente mi sembra non facciano buon uso della intelligenza applicandola anche alla fede, come raccomandato dall’intera tradizione cattolica.
«Il pianeta, i gameti: un’unica battaglia»
Fides quærens intellectum, ricorda dunque il lettore, ma la confusione sul tema dell’impegno civile e politico dei cattolici è trasversale e attraversa strati di opinione pubblica e di intelligencija anche refrattari al cattolicesimo: è il caso di Le Monde, che taccia il concetto di “ecologia integrale” di “ecofascismo” e lo racconta in “una storia delle ecologie identitarie”.
https://twitter.com/EugenieBastie/status/1180140950502481920
Il primo quotidiano dell’Esagono si rivela incapace di capire – secondo la sintesi di Eugénie Bastié – «che i cattolici dediti all’ecologia integrale sono ben lungi dall’essere i tradizionalisti», ma questo perché è la loro posizione ad essere la più radicalmente fondata nella Tradizione della Chiesa, e dunque è pure coerentemente esposta e difesa (malgrado alcuni tentennamenti nell’episcopato) da ecclesiastici conservatori come mons. Aupetit. Non si può chiedere tanta finezza ecclesiale a cartelli del laicismo radical chic come Le Monde, ma ieri a Parigi sfilavano cartelli con su scritto: «Il pianeta, i gameti, un’unica battaglia». E chi pensa di poter (o dover!) scegliere se battersi per il primo oppure per i secondi non ha ancora colto la grande rivoluzione del cristianesimo, che gli angusti scomparti di destra e sinistra non sono mai riusciti a incasellare.
Team écologie intégrale #MarchonsEnfants pic.twitter.com/MkZo7xW3S2
— Aziliz Le Corre-Durget (@azilizlecorre) October 6, 2019
Il rischio di far diventare anche “ecologia integrale” una parola d’ordine, del resto, è tutt’altro che assente: è il modo più sicuro per evacuare la forza di un pensiero proprio mentre lo si celebra. Non a caso, recentemente Papa Francesco ha ricordato che di “ecologia integrale” si deve parlare sempre nell’alveo della dottrina sociale della Chiesa, non come se si stesse inventando una cosa nuova.
L’ecologia nel Magistero secondo Benedetto XVI
A tal proposito giova riportare la paginetta di appunti autografi di Benedetto XVI relativi alla preparazione dell’enciclica Caritas in Veritate, che per molti versi anticipava i temi della Laudato si’ di Francesco. L’abbiamo mutuata dall’Huffington Post, raccolta in un testo continuo ed emendata di qualche errore (la Rerum novarum è di Leone XIII, mentre Alessandro de’ Medici s’interessava poco alla giustizia salariale). Eccone di seguito il testo.
In questo momento vorrei notare brevissimamente soltanto le questioni che si pongono ed una parola sulla linea da prendere. La questione fondamentale è: su quale livello e su quale fondamento parla la Chiesa (il Magistero, il Papa) in questo tipo di insegnamento: sul livello strettamente teologico, supponendo quindi la fede come fondamento? O sul livello della filosofia? – in questo caso: quale filosofia? Con quale certezza? E quindi – con quale autorità? O parla forse sostanzialmente su un livello empirico, il livello dell’economia, della sociologia ecc.?
È ovvio che la dottrina sociale si riferisce alle realtà empiriche, dell’ordine economico, sociale, politico, ma si riferisce a queste realtà non in un modo descrittivo, ma in un modo normativo – per indicare come si deve agire in questi settori per creare giustizia, la quale da parte sua suppone la corrispondenza alla verità sull’uomo e sul bene comune. Di conseguenza l’insegnamento del Magistero in queste materie suppone:
a) una informazione precisa circa le realtà empiriche, alle quali l’insegnamento si riferisce;
b) dato che lo scopo dell’insegnamento è etico (normativo) il vero livello del discorso è quello filosofico, riguardante la verità sull’uomo e sulla giustizia.
Detto questo, ritorna subito la questione: un insegnamento della Chiesa (del Papa) può essere strettamente filosofico, prescindendo dalla fede – puramente razionale? Non siamo più nei tempi di S. Tommaso. Tommaso poteva considerare Aristotele come “il filosofo” e quindi pensare che esiste “la filosofia” con la sua certezza razionale. Nella nostra situazione è ovvio che “la filosofia” non esiste – esistono solo filosofie, e che le certezze filosofiche sono tutte relative.
Rimane quindi solo ritirarsi nello spazio della fede e della sua certezza? È ovvio che la tradizione della Dottrina sociale della Chiesa, inaugurata da Leone XIII (ma basata sulla tradizione etica e sociale sviluppata nei secoli) suppone la possibilità di una “recta ratio” e delle sue certezze, di per sé accessibili a tutti. Crede nell’evidenza degli argomenti della “recta ratio”, crede nel buon senso, che percepisce la rettitudine di questa “ratio”, la sua “verità”.
La storia della ricezione della dottrina sociale ha dato ragione a questa speranza, almeno in parte (e solo in parte). Convinti della realtà del peccato originale, dobbiamo accettare che le evidenze della “recta ratio” non sono semplicemente accessibili a tutti e che la ratio pura non è sufficiente in sé per creare il consenso sulla verità – sulla giustizia.
Che cosa fare, che cosa dire in questa situazione? Direi due cose:
a) la Chiesa non può ritirarsi nel fideismo. La Chiesa del Logos incarnato deve fare appello alla “ratio”, deve rendersi presente nel dibattito razionale, comune su verità e giustizia. Deve osare il discorso razionale;
b) La Chiesa non deve nascondere da dove prende la sua luce, la sua certezza, la sua razionalità.
Forse alcuni pronunciamenti magisteriali possono fare pensare che si possa costruire il mondo giusto nel consenso degli uomini di buona volontà e di ragione retta, anche prescindendo da Dio (“etsi Deus non daretur”) e tanto più dalla auto-rivelazione di Dio in Gesù Cristo. La fede appare così come un ornamento bello e forse come un piano superiore – bello, ma non necessario. Ma il consenso della ragione e della buona volontà è sempre oscurato e ostacolato dal peccato originale – e questo non ce lo dice soltanto la fede, ma l’evidenza empirica (anche se non parla di “peccato originale”). Certo – è vero che dobbiamo cercare il consenso di tutti gli uomini di buona volontà e di ragione retta. Ma appellandosi a questa volontà ed al consenso della ragione dobbiamo anche dire che la fonte della nostra certezza circa la “giustizia” (come somma di tutti i contenuti della dottrina sociale) è la nostra fede nel Logos incarnato, e che questa fede – pur andando molto oltre il campo della razionalità – secondo la sua essenza non solo non si oppone alla ragione comune umana, ma libera la ragione all’essere se stessa e perciò ci permette di entrare, guidati da questa luce, nel dibattito comune dell’umanità, certi di contribuire così al bene comune di tutti.
Da evitare quindi:
a) corti circuiti tra supernaturale e naturale, con una mescolanza inadeguata dei livelli;
b) dall’altra parte la frazione di una autosufficienza della ratio in statu naturæ lapsæ, di una filosofia funzionante “etsi Deus non daretur”.
Questo tipo di concatenazione dei 3 livelli inizialmente indicati (teologia – filosofia – empiria) dovrebbe guidare le argomentazioni dell’Enciclica, senza essere esplicitamente presentata dal documento.
1) tener presente il genere specifico della dottrina sociale della Chiesa, nella quale si compenetrano principi etici sempre validi con problemi empirici, e perciò c’è la possibilità di cambiamento e anche di correzione, perché il contesto storico entra necessariamente nei giudizi e condiziona una certa variabilità, escludendo giudizi troppo apodittici;
2) introdurre come concetto centrale la giustizia;
3) temperare il linguaggio.
L’ambiente naturale è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l’umanità intera.
«Sono parole che Benedetto XVI scrisse dieci anni fa – annota stupita Maria Antonietta Calabrò –, ma sembra di leggere quelle di oggi del suo successore».
Il magistero sociale – nel quale Francesco insiste che vada letta l’“ecologia integrale” di cui tanto si parla (in alcune cerchie) – è quindi veramente e autenticamente magistero ecclesiastico, né deve nascondere o mistificare le sue specificità (in sintesi, il riferimento alla Rivelazione): «Non esistono ermeneutiche neutre – ha detto stamattina Francesco intervenendo all’apertura del Sinodo –, non esistono ermeneutiche asettiche», e la precomprensione ermeneutica del sinodo deve essere quella discepolare, dei discepoli di Gesù Cristo. Esso deve però acquisire e consolidare uno stile nuovo, dal momento che nuovo è il terreno in cui si avventura – non soltanto quello di emergenze inusitate nell’umana esperienza, ma anche quello del confronto con altre voci che pure quelle emergenze cercano di fronteggiare.
Con Benedetto XVI Francesco s’appassionò all’Amazzonia
Codesto è un Leitmotiv importante del Sinodo per l’Amazzonia appena iniziato, che Francesco ha subito invitato a guardarsi dalla mondanità, dalla presunzione di ritenere che un sinodo sia una sorta di parlamento in cui ci si misura sulla capacità di aggregare consenso, di esercitare rapporti di forza a colpi di media.
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È proprio un’altra cosa: si può capire lo stupore di giornalisti che non vivono dall’interno l’avventura ecclesiale e che dunque faticano a leggere l’ovvia continuità tra i pontificati e le epoche, che continuamente inanellano riforme perché la Chiesa avanzi verso la propria destinazione e sempre meglio compia la sua missione… ma è degno di sgomento che la medesima incapacità inquini gli stessi ambienti ecclesiali.
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Ci pare opportuno ricordare non solo che l’attuale Relatore Generale per il Sinodo sull’Amazzonia, il cardinal Cláudio Hummes, fu nominato Prefetto per la Congregazione per il Clero da Benedetto XVI (2006), ma che l’anno dopo lo stesso fu “membro di nomina pontificia” per la V Conferenza episcopale latinoamericana – la Conferenza di Aparecida. E che avvenne ad Aparecida dodici anni fa? Tra le altre cose, che per la prima un vescovo di una grande metropoli sudamericana si rendesse conto dei problemi peculiari dell’Amazzonia, e che da allora ne avvertisse la presenza come una domanda urgente che incalza tutta la Chiesa. Quel vescovo era mons. Bergoglio. Così, parlando con padre Spadaro, Hummes ricordava quel passaggio decisivo:
All’epoca quel Pontefice diede un notevolissimo contributo fin dall’inizio, con un’apertura che sorprese tutti noi: la grande apertura di Benedetto XVI davanti a un mondo che non era il suo. Lui apparteneva a un mondo europeo, ma si apriva al dialogo insieme a noi, al popolo, al territorio, all’America Latina.
[…]
Partecipava anche il card. Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires. In quel contesto si parlò della necessità di creare un piano pastorale congiunto per l’Amazzonia, e papa Francesco ricorda che è stato lì che lui stesso si è sensibilizzato alla sfida per l’Amazzonia. Prima, in quanto arcivescovo e cittadino di Buenos Aires, l’Amazzonia era per lui una realtà molto distante. Come un mondo fantastico. Ma egli dice che è stato per l’insistenza dei vescovi brasiliani ad Aparecida sulle questioni dell’Amazzonia che gli si è risvegliato questo interesse. Fu lì che comprese che quella era una questione importante. Afferma che a partire da quel momento, di fatto, cominciò a interessarsi a tutta la realtà dell’Amazzonia. Ed è stato allora, come ho detto, che si è parlato della necessità di un piano pastorale congiunto di tutta l’America Latina per l’Amazzonia.