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Sul fine vita i cattolici hanno perso di brutto

Marco Cappato è l'animatore della campagna referendaria dei Radicali.

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Lucandrea Massaro - pubblicato il 26/09/19
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Va detto chiaramente, un pugno di radicali ha messo in gioco la propria vita e ha “vinto” la propria battaglia per la morte liberaAncora lo scorso 20 settembre di fronte alle associazioni dei medici venuti in udienza, il Papa ha ricordato molto nettamente: “E’ importante che il medico non perda di vista la singolarità di ogni malato, con la sua dignità e la sua fragilità. Un uomo o una donna da accompagnare con coscienza, con intelligenza e cuore, specialmente nelle situazioni più gravi”. E ancora “Con questo atteggiamento si può e si deve respingere la tentazione – indotta anche da mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia“. “Si tratta – osserva Francesco – di strade sbrigative di fronte a scelte che non sono, come potrebbero sembrare, espressione di libertà della persona, quando includono lo scarto del malato come possibilità, o falsa compassione di fronte alla richiesta di essere aiutati ad anticipare la morte. Come afferma la Nuova Carta per gli Operatori Sanitari: ‘Non esiste un diritto a disporre arbitrariamente della propria vita, per cui nessun medico può farsi tutore esecutivo di un diritto inesistente'” (AdnKronos, 20 settembre).



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Dalla vicenda DJ Fabo alla decisione della Consulta

Tutto è nato quando Marco Cappato – nel 2017 – ha accompagnato in una “clinica” svizzera DJ Fabo perché potesse porre fine alla sua vita dopo che un incidente lo aveva costretto ad una dura esistenza da tetraplegico e cieco. Al suo rientro in Italia, Cappato – radicale, Presidente dell’associazione Luca Coscioni – venne incriminato e rinviato a giudizio per aver assistito Fabo nel suo intento di suicidio, infrangendo l’articolo 580 del codice penale. La Corte rinvio alla Consulta il caso ed eccoci qui, alla sentenza di ieri che dice che:

“non punibile”, a “determinate condizioni”, chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli” (Aleteia, 25 settembre)

Il Parlamento era stato avvertito che se non avesse agito, lo avrebbe fatto la Consulta. E così è stato. Di fronte alla possibilità concreta di legiferare e di stabilire che tipo di civiltà giuridica si volesse essere, le forze politiche, all’unanimità, non hanno fatto altro che scrollare le spalle. Questo va detto e va detto chiaramente. E se ci sono forze politiche che non hanno mai nascosto le loro intenzioni, altre hanno promesso molto e fatto assai poco. Resterà negli annali della storia, una decisione andava presa e la Consulta, che è sensibile all’opinione generale, l’ha presa.



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Il piano inclinato della politica

Ci sono sicuramente una serie di aspetti tecnici (primo fra tutti lo statuto deontologico dei medici che presto o tardi andrà informato del fatto che non è più reato aiutare i suicidi), ma il recinto è aperto e non a caso la più radicale delle senatrici del PD, Monica Cirinnà, ha già pronta – quasi letteralmente – la caramella avvelenata: sul piano normativo, il testo della senatrice (e di altri dell’area di Governo) interviene sul delitto di aiuto al suicidio (previsto dall’articolo 580 del codice penale e oggetto proprio della decisione della Consulta di ieri), anche se nella sostanza si presenta come un ricorso all’eutanasia propriamente detta. Secondo la senatrice dem, l’attuale legislazione consente «una doppia scelta di rinuncia ai trattamenti sanitari e di sedazione profonda».

E, prosegue, «questa scelta lascia un gap di tempo che la nostra proposta potrebbe abbreviare ». Il ddl ha infatti, continua la proponente, «inserito la possibilità del farmaco letale»: l’induzione farmacologica di un preparato che uccide il paziente e che sarebbe lasciata, come possibilità di scelta, solo a quei malati affetti da «patologia irreversibile », «fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili» e comunque capaci «di prendere libere decisioni» (Avvenire, 26 settembre).

Ora toccherà al Parlamento regolare quanto resta del articolo 580 ma appunto l’intangibilità in sé della vita di una persona è saltata, è stato trovato un caveat, hai voglia adesso a legiferare come tutti dalla Lega a Forza Italia al PD passando per i 5 Stelle stanno dicendo di voler fare. E non solo loro:

“Di fatto è una legittimazione del suicidio assistito. E’ una sentenza che ci fa molto dispiacere, ci amareggia”, dice Massimo Gandolfini, leader del Family Day, chiamando a raccolta tutti i cattolici per una battaglia in parlamento. “Una brutta pagina con pessime conseguenze”, aggiunge la senatrice Paola Binetti: “E’ una pessima sentenza, già scritta. Conseguenza della pessima legge sulle Dat che noi non abbiamo e che è tutta da smontare! Non può esistere un diritto al suicidio per mano dello Stato. Sottolineo un’aggravante: la legge non prevede l’obiezione di coscienza, e questa sentenza carica di una responsabilità non pertinente i medici. Questa è la follia dell’autodeterminazione” (Repubblica, 25 settembre)

Le reazioni del mondo cattolico

“Con la decisione di non punire alcune situazioni di assistenza al suicidio, la Corte costituzionale italiana cede ad una visione utilitaristica della vita umana ribaltando la lettura dell’articolo della nostra Carta che mette al centro la persona umana e non la sua mera volontà, richiedendo a tutti i consociati doveri inderogabili di solidarietà: da oggi non sarà più un dovere sociale impedire sempre e ovunque l’uccisione di un essere umano”. Lo dichiara in una nota Alberto Gambino, presidente di Scienza & Vita. Dello stesso avviso è Mario Adinolfi, leader del Popolo della Famiglia in questi giorni a Congresso: “La Consulta ha depenalizzato l’aiuto al suicidio usando la foglia di fico delle quattro condizioni”,  . “Voglio sapere chi potrà fermare ora Exit [una delle cliniche che pratica l’eutanasia in Svizzera, NdR] da aprire ‘cliniche’ per il suicidio in Italia sul modello svizzero. Cioè a pagamento. Si apre una pagina orrida e da far west, in cui ci sarà chi si arricchirà sulle sventure degli addolorati”.

Poco prima della sentenza l’Associazione medici cattolici italiani (Amci) è pronta in blocco, con tutti i suoi 4mila aderenti, a optare per l’obiezione di coscienza e su questa linea – quella dell’obiezione – si muove anche la CEI:

«tentativo di introdurre nell’ordinamento italiano la liceità di pratiche eutanasiche. I Vescovi – sottolinea il comunicato – hanno unito la loro voce a quella di tante associazioni laicali nell’esprimere la preoccupazione a fronte di scelte destinate a provocare profonde conseguenze sul piano culturale e sociale. Consapevoli di quanto il tema si presti a strumentalizzazioni ideologiche, si sono messi in ascolto delle paure che lacerano le persone davanti alla realtà di una malattia grave e della sofferenza. Hanno riaffermato il rifiuto dell’accanimento terapeutico, riconoscendo che l’intervento medico non può prescindere da una valutazione delle ragionevoli speranze di guarigione e della giusta proporzionalità delle cure. Alla Chiesa sta a cuore la dignità della persona, per cui i pastori non si sono soffermati soltanto sulla negazione del diritto al suicidio, ma – sottolinea la nota – hanno rilanciato l’impegno a continuare e a rafforzare l’attenzione e la presenza nei confronti dei malati terminali e dei loro familiari. Tale prossimità, mentre contrasta la solitudine e l’abbandono, promuove una sensibilizzazione sul valore della vita come dono e responsabilità; cura l’educazione e la formazione di quanti operano in strutture sanitarie di ispirazione cristiana; rivendica la possibilità di esercitare l’obiezione di coscienza, rispetto a chi chiedesse di essere aiutato a morire; sostiene il senso della professione medica, alla quale è affidato il compito di servire la vita» (Famiglia Cristiana)



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Famiglia Cristiana invece raccoglie la riflessione di Adriano Pessina, docente di filosofia morale e e direttore del Centro di bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. «Si tratta di una scelta molto grave e anche deludente dal punto di vista giuridico, etico e sociale». E ancora:

Dal punto di vista giuridico, osserva Pessina, «la sentenza è in contraddizione perché se si ritiene il suicidio un male sia l’aiuto che l’istigazione, pur differenti, sono da considerare due condotte egualmente deplorevoli. Inoltre, viene meno il principio del diritto fondamentale alla vita tutelato dalla nostra Costituzione». Per Pessina la conseguenza dal punto di vista sociale è quella di creare «una pressione nei confronti dei malati che si sentono di peso e vengono giudicati un costo per la società. Dire che il suicidio può avere una sua logica», sottolinea, «vuol dire incoraggiare le situazioni depressive e quelle di difficoltà estrema e che se lo scegli liberamente in una condizione segnata da fragilità e malattia sei sostenuto dallo Stato che dovrebbe fare l’opposto, e sostenere invece la vita con l’allargamento delle cure palliative che oggi sono interdette a molti cittadini con il peso dell’assistenza che finisce per gravare tutto sulle famiglie».

Un altro aspetto poco chiaro («aspettiamo di leggere le motivazioni della sentenza») è il riferimento al sostegno vitale: «Non è chiaro», dice Pessina, «perché, di per sé, la legge sulle DAT (Disposizioni anticipate di trattamento, ndr) già consente al paziente di rifiutare il sostegno vitale e accettare di morire. C’è una differenza tra il causare la mia morte, con l’aiuto di qualcuno, e il suicidio assistito che non è legato al sostegno vitale ma è il caso di una persona che magari vuole togliersi la vita perché semplicemente teme l’insorgere della malattia».

Secondo il bioeticista questa sentenza «è uno schiaffo enorme a tutto l’impegno della medicina per le cure palliative e l’assistenza. Il rischio concreto è che entri nella nostra cultura il suicidio assistito perché la legge sembra avallare un fatto, il desiderio di morire, che può diventare un diritto». Ma non è tutto perduto come ricorda il Presidente del Forum Famiglie, Gigi De Palo che scrive: “Tanto vinciamo noi” e prosegue “Cosa cambia adesso? Niente. Nel senso che continueremo a batterci perchè ogni vita sia considerata degna nella pancia della mamma, su un barcone o idratata e nutrita con un sondino su un letto di ospedale! La cultura della vita non può perdere anche dopo questa sentenza per un unico motivo: è più bella! E la bellezza è contagiosa”.

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