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Il travaglio di una madre non finisce con la nascita di un figlio

DONNA, RABBIA, SOLA
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Annalisa Teggi - pubblicato il 06/08/19
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L’anno che segue la nascita di un figlio è un tempo di gestazione profonda, anche dolorosa per la madre; è il travaglio di un’anima che lascia il regno esclusivo dell’io ed entra nel mare del Tu. Non ero affatto preparata a essere madre, quando nacque il mio primo figlio. Voglio dire: lo desideravo, avevo fatto un corso con le ostetriche, avevo ascoltato i consigli di mamma, suocera e nonna ma niente poté attutire la botta dello tsunami che arrivò. Sei madre nel momento in cui un figlio ti cresce in grembo, lo sei in un modo ancora più nuovo e totalizzante alla nascita del bambino; eppure lo devi anche diventare. Sei incontestabilmente madre mentre cambi pannolini, allatti, culli e ami; eppure sotto sotto è in corso un’altra gestazione. Dolorosa, necessaria e infine benedetta. In questo senso dico che non ero preparata, e forse non lo si deve essere … ma va detto ad alta voce che c’è questo guado da attraversare, un altro travaglio a tutti gli effetti. Più lungo, meno visibile. È riaccaduto anche con la nascita dei figli che sono venuti dopo, ma per il primogenito è stata un’esperienza dall’impatto fortissimo. È stato come trovarsi a costruire da capo se stessi con mattoni e alfabeti nuovi; molti giorni sono passati in un balbettio confuso.


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Potrei sintetizzare tutto con un ricordo nitidissimo, sebbene mi piacerebbe ricordare cose migliori di me: Michele aveva appena un mese, stavo prendendo le misure con tutte le novità della sua nascita, ero francamente stanca e preoccupata; una notte, l’ennesima, lui si mise a piangere dopo che era stato allattato e perfettamente pulito. Non capivo perché fosse e rimanesse inconsolabile; lo avevo in braccio e con un tono di voce brusco finii per dirgli: “Insomma chi sei? Cosa vuoi?“. A ben vedere – lo dico a 13 anni di distanza – stavo ponendo a me stessa quelle domande.

A questo proposito, qualche giorno fa ho trovato una perfetta descrizione di quel momento drammatico in questa citazione:

La parte più difficile della nascita è il primo anno che la segue. È l’anno del travaglio – quando l’anima di una donna deve partorire la madre che è dentro di lei.
Il dolore delle doglie emozionali del diventare una madre sono di gran lunga superiori al dolore delle doglie fisiche del parto; queste sono le ondate crescenti del tuo cuore mentre spinge fuori l’egoismo e la paura e fa spazio al sacrificio e all’amore.
Questa è la nascita privata e silenziosa dell’anima, ma non è meno sacra dell’evento del parto, forse lo è ancora di più. – Joy Kusek

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Dalla depressione alla nascita di un’anima nuova

Ci è voluto molto tempo per dare un nome a ciò che accadde all’indomani della nascita di Michele, ancora più tempo a rassicurare me stessa che quella fragilità non era incapacità a essere mamma. Ci misi l’etichetta di depressione post partum, che senz’altro era appropriata e mi feci aiutare; ma solo molti anni dopo, a tentoni con la mia coscienza e confrontandomi con altri, maturai la conquista emotiva che quella reazione pesante e frustrante non era solo una zavorra nera da legare al mio percorso di madre, era il necessario lato oscuro della luce. Per aspera ad astra – dicevano i latini; ma la coscienza cristiana della Croce aggiunge un tassello in più, una consapevolezza completa al senso del dolore.


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All’essere umano non basta la consolazione che il dolore possa essere superato, perché vorrebbe dire che quella parte di vita sofferta può essere scartata, buttata. Ciò che davvero interpella la nostra ragionevolezza è che il dolore possa essere una gestazione. Come il bambino deve passare per il buio del canale del parto, anche alla madre spetta un medesimo percorso. Ero inconsapevole del grande travaglio emotivo che segue il travaglio fisico della nascita. La Kusek, citata prima, è un’ostetrica che si occupa di seguire le madri in attesa non solo dal punto di vista medico, ma anche emotivo; soprattutto dopo la gravidanza. Ho spulciato sommariamente il suo profilo e il suo sito, non posso dirmi completamente affine al suo pensiero (sul tema contraccezione, che lei sostiene, siamo su fronti opposti), ma il suo modo di descrivere «la nascita privata e silenziosa dell’anima» di una madre è quanto di più corrispondente abbia trovato a ciò che anche io ho vissuto.

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Oleg Sergeichik | Unsplash

Possono raccontarcela in mille modi, la storiella del diventare tutto ciò che vogliamo e del cambiamento come stile di vita. Passare dagli hamburger alle tisane senza zucchero è un cambiamento, di cui è protagonista assoluto il soggetto. Ci dà l’impressione di una trasformazione, ma sulla plancia di comando ci rimaniamo sempre e solo noi. Poi c’è la zona molto meno friendly del cambiamento che comporta un’autentica conversione. Quel tipo di cambiamento, per incarnarsi, non può nascere e finire nel venticello della nostra volontà: s’innesca solo di fronte a una presenza. Prima ho parlato di guado, perché il mio pensiero spontaneamente va a Giacobbe e alla sua lotta notturna con l’Angelo.

Puoi cambiare, puoi arrivare a una sponda davvero “altra” solo in presenza di questo incontro scontroso con l’Altro per eccellenza. Mi sia concesso dire che l’arrivo di un figlio è simile a questo Angelo la cui presenza innesca una lotta. Certo, una madre non lotta col proprio bambino; ma quel bambino è portavoce di quell’interlocutore che fa tutte le cose.

Si esce dalla piscina dell’Io e si entra nel mare del Tu. In presenza di una vita nuova che cresce nel grembo e poi culli tra le braccia, l’io di una madre si spezza … per aprirsi. Ne esce ferita e benedetta come Giacobbe. Nulla di quella lotta è senza senso o invano, esattamente come ogni spinta del travaglio porta il bambino un centimento in più verso la luce.



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La grande nuotata nel mare del Tu

Non sono una donna migliore perché sono diventata madre. Non la metterei affatto così. Non la metterei neppure nel modo che ho sentito dire da qualche altra mamma: “Ero insicura, ma se sono stata capace di partorire e crescere un bambino, ora non mi ferma più nessuno”. Ogni percorso umano, qualunque direzione, o meglio, vocazione segua, è un’educazione ininterrotta a dare un volto a noi stessi. Personalmente, credo che l’educatore abbia il nome di Padre. Sulla mia strada, questo Maestro ha messo l’esperienza della maternità, probabilmente perché era il modo adeguato a me perché io approfondissi il rapporto con Lui. Ho dato alla luce un figlio, ma quello stesso evento è stato – nel lungo termine – una nascita per me. Senza appigli religiosi la Kusek parla di spingere fuori «l’egoismo e la paura e far spazio al sacrificio e all’amore»; verissimo. Ma l’egoismo che va in frantumi è solo quello che si trasforma in premura per un bambino appena nato? Il sacrificio e l’amore che ho scoperto a suon di duri colpi sono solo quelli per accudire un figlio? Sì e no.


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Sì perché il rapporto di madre di fronte a un figlio ha mandato in crisi il mio egocentrismo quotidiano. Sì perché nel mettere al centro un’altra creatura ho messo a fuoco parti di me prima offuscate dall’idolo delle mie voglie. Ma non basta. Questa esperienza è traboccata, mi ha imposto un passo oltre lo stretto sguardo sulla maternità. Con quanta facilità ci troviamo a ripetere quel passo del Padre Nostro che dice: «sia fatta la Tua volontà»; si può tranquillamente dirlo e trascorrere giornate piene delle sole nostre mille volontà. Ecco, la maternità e le lunghe doglie che ho sentito ben oltre le nascite dei figli avevano a che fare con quest’accoglienza alla volontà di un Altro dentro la mia vita. L’ipotesi di disponibilità che come madre ho doloramente conquistato accogliendo la vita, era eco di una proposta più radicale che mi veniva fatta: quella di figlia a cui viene chiesto di fare spazio alla voce del Padre.