Siamo stati sollecitati da un pastore d’anime a trattare il delicato e difficile tema di certe comunità ecclesiali che per una certa estetica (nonché per la “simbolica”) suonano familiari ai cattolici, mentre per tutto il resto offrono abbondanti elementi di turbamento. La storia di codeste comunità è molto istruttiva sulle dinamiche ricorrenti nel seno della Chiesa cattolica – della quale ogni cristiano è tenuto a contemplare e custodire ad ogni costo l’unità.
Un parroco siciliano ci ha scritto in redazione suggerendo di trattare la delicata questione relativa alla “Chiesa Cattolica Ecumenica di Cristo”: «Molte persone li seguono – scrive il pastore – pensando che questi siano in comunione con il Papa… e c’è tanta confusione». Effettivamente chiunque può facilmente ritrovarsi “sedotto” dalle parole che identificano questa denominazione, suonando le stesse familiari e “garantite”.
Basta invece cercare il loro sito per incappare in contenuti urticanti al senso cattolico: già nella (lunga) pagina di presentazione si legge, addirittura al terzo paragrafo, la frase che basta a tagliare la testa al toro – “offriamo una Chiesa cattolica alternativa”.
- Primo, nessun uomo “gestisce” il mysterium magnum della Chiesa nel senso di – e al punto da – poter affermare di “offrirla” alla gente, quasi fosse (e in effetti è questo il caso) una questione commerciale di domanda e offerta.
- Secondo, nessun riformatore, nessun eresiarca nella storia della Chiesa, mai, ha avuto l’ingenua presunzione di fondare una Chiesa “alternativa”, bensì sempre e solo quella di restituire all’unica Chiesa la sua vera immagine (la schietta naïveté degli scismatici contemporanei fa rimpiangere la titanica presunzione dei loro epigoni del passato).
Logo, brand, target
Se poi si osserva lo “stemma internazionale della ECCC” si è colpiti da uno strano (ma non inconsueto, ahimè) mix di simboli rassicuranti e di formule grafiche sgraziate: al centro di un campo azzurro sfumato da larghe striature bianche brilla un sole al cui interno si staglia ben riconoscibile il crocifisso di Lello Scorzelli (la scultura posta in cima a una delle ferule pontificie dal 1965 in qua), ciò che sembrerebbe un perfino eccessivo segno di legame col papato romano; sotto, ai lati, due coppie di mani giunte in atteggiamento orante (in bianco e nero, come se le avessero tratte da un’incisione – ma non è un Doré); sopra una colomba ritagliata da una qualunque fotografia; a coronare il tutto la scritta latina – in caratteri gotici neri disposti ad arco – “Ecclesia Catholica Ecumenica Christi”. Il latino, si sa, fa sempre solenne, e se per brandizzare l’azienda si usa un font goticheggiante, poi, l’impatto sul target (?) è assicurato. Chiunque il latino lo conosca un pochino, però, sa pure che “Ecumenica” in vero latino si scriverebbe col dittongo “œ”, “Œcumenica”. Sotto le mani oranti, poi, a malapena leggibile per dimensioni e contrasto, sta il versetto di Eph 1, 10 “instaurare omnia in Christo”, che in ambienti cattolici viene subito riconosciuto come il motto pontificio di san Pio X (pontefice narrato da certa mitologia tradizionalista – la quale presume di rendergli onore – come un miope reazionario).
Tra la Sicilia e Detroit (come Johnny Stecchino)
Insomma, già restando sulla soglia di questa sedicente “Chiesa” – ma già il proporre una “Chiesa alternativa” contravviene alla prima nota della vera Chiesa, che è l’unicità – si trova di che arricciare naso e bocca. In quella stessa pagina si legge poi che la “Chiesa” nasce «dalla metà del 1990» e che «da allora […] è cresciuta in tutto il mondo». Al punto che «nel 2010 abbiamo acquisito la Chiesa cattolica romana di Sant’Antonio a Detroit». Niente male, per un’associazione sorta appena vent’anni prima. Ma questa è la narrazione ad extra, per attrarre e fidelizzare il pubblico.
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In realtà la vicenda non arriva negli States, bensì vi nasce: nel 1987 un certo Mark Steven Shirilau, classe 1955, ingegnere elettronico californiano di Long Beach con il pallino della teologia, fondò la “Ecumenical Catholic Church”. Baccellierato nel 1985, chiesa nel 1987, Ph.D in sistemi elettronici nel 1989 e… “consacrazione episcopale” nel 1991. A imporgli le mani fu Donald Lawrence Jolly, nella cappella privata della propria residenza di San Bernardino, in California, dove da qualche anno era vescovo della “Independent Catholic Church International”: Jolly era stato consacrato vescovo alla fine del 1973 da John Laurence Brown, vescovo della “Free Protestant Episcopal Church in The Philippines”, e sarebbe stato “ri-consacrato” (sic!) “sub condicione” a Roma, da Ignazio Antonio Teodosio Pietroburgo (vescovo in Italia della “American Orthodox Catholic Church”), a metà del 1980. Quest’ultimo era stato ordinato vescovo due anni prima da Giuseppe Santo Eusebio Pace, anch’egli “vescovo in Italia della American Orthodox Church”, il quale si segnala per essere stato l’unico vescovo consacrato da Milton Cunha. Costui è stato infine, nel 1960, il terzultimo vescovo ordinato da mons. Carlos Duarte Costa, che sarebbe morto l’anno dopo e che nel 1945 aveva rotto la comunione con Roma aprendo uno scisma col nome di “Brazilian Apostolic Catholic Church”. Profilo interessante e drammatico, quello di mons. Duarte Costa: negli anni ’30 del ’900 era stato uno dei vescovi più attenti ai bisogni degli oppressi fra il suo popolo. Nel 1937 il dittatore Getúlio Vargas riuscì a ottenere, tramite pressioni politiche sulla Santa Sede, che Duarte Costa venisse ritirato da vescovo di Botucatu. Ciononostante il vescovo continuò a proteggere i poveri e a parlare per il popolo: nel 1944 gli toccarono perfino alcuni mesi di prigione. La goccia che fece traboccare il vaso, l’anno dopo, fu l’aver visto con i propri occhi alcuni ex nazisti che raggiungevano il Brasile con documentazione prodotta in Vaticano.
Ho speso qualche riga per riportare questa genealogia episcopale a due fini:
- da un lato essa ci mostra che nella storia della Chiesa le ingiustizie fanno il loro corso (sovente carsico) e poi riaffiorano moltiplicate;
- dall’altro essa ci richiama il senso e la validità dell’ammonimento subapostolico riportato in 1Tim 5, 22: «Non avere fretta di imporre le mani ad alcuno, per non farti complice dei peccati altrui. Conservati puro!».
Dallo scisma dell’infelice mons. Duarte Costa sarebbe scaturita una gilda di vescovi disparatissimi, i quali spesso sembrano poco più che personaggi in cerca d’autore (o più prosaicamente di prebende). Anche la carica sociale del vescovo scismatico si conservò, ma decaduta, nei vescovi invalidamente ordinati che dal suo strappo sono scaturiti: di fatto essi diventarono autori e attori di chiesupole che cercarono fedeli (e “pecorelle da tosare”, direbbero i maligni) fra le minoranze socialmente emarginate (ma che avrebbero beneficiato di una munifica esposizione mediatica). Mark Steven Shirilau, per tornare al fondatore della “Chiesa Cattolica Ecumenica”, ebbe la sagace intuizione di battezzare, come primo accolito della nuova comunità ecclesiale, Robert Oscar Simpson (in casa sua a Los Angeles). Era il 10 luglio 1989 e Simpson sarebbe morto pochi giorni dopo – di AIDS. Questo spot, insieme con altre buone mosse politico-comunicative, portarono la “chiesa” a diffondersi rapidamente negli States per tutti gli anni ’90 (decennio d’oro per l’AIDS!), e il suo brand a caratterizzarsi per un atteggiamento assai inclusivo su tematiche etiche delicate: se lo diciamo in termini più chiari e commerciali, l’offerta è stata resa deliberatamente competitiva rispetto alle concorrenti sul mercato religioso. Difatti la “chiesa”, così come molte delle altre nate dallo scisma di mons. Duarte Costa, è nota per le affiliazioni con la cosiddetta “comunità LGBT”.
Shirilau aveva legami con l’Italia già per via di Brown, il suo consacrante, e nel 2013 ci fu un momento di vivace accelerazione delle dinamiche italiane. Il Cesnur ne segnala alcune:
Tra questi si contano noti esponenti dell’attivismo omosessuale italiano, fra cui Agostino De Caro – già presidente dell’Arcigay di Agrigento, da cui si è dimesso prima d’intraprendere il cammino vocazionale, consacrato vescovo da Basilio III (al secolo Gilberto Bertoglio, che oggi guida la Chiesa Autonoma Cattolica Ortodossa d’Italia-Romania Sant’Antonio il Grande), e ora arcivescovo metropolitano per l’arcidiocesi italiana della Chiesa Cattolica Ecumenica di Cristo –, Lorenzo Antonio Canzano – anch’egli consacrato vescovo da Basilio III, e attualmente alla guida di una Chiesa Cattolica Ecumenica d’Italia – e il suo vicario generale Rosario Ferrara, consacrato vescovo da Canzano e che oggi guida una piccola realtà autonoma. In Campania la Chiesa fa capo al Monastero dei Santi Lorenzo e Gennaro Martiri di Nocelleto di Carinola (Caserta).
Dunque l’attuale metropolita per “l’arcidiocesi italiana” della “Chiesa Cattolica Ecumenica di Cristo” è il già presidente dell’Arcigay di Agrigento, quello che nel luglio del 2017 si era guadagnato qualche titolo di giornale per aver benedetto, ad Aversa, il primo “matrimonio religioso” di un trans (che ora si fa chiamare Alessia Cinquegrana e recentemente è stato eletto “Miss Trans Europa 2019”). Ma facciamo un passo indietro: che fine ha fatto il fondatore? Shirilau è morto nel 2014, e proprio in Sicilia: allora Canzano s’è fatto il proprio il proprio franchising locale mentre De Caro ha gestito le piccole realtà italiane che stavano sotto al pomposo nome di “Chiesa Cattolica Ecumenica” e nel 2016 le ha intestate alla “Chiesa Cattolica Ecumenica di Cristo”, chiedendo a Karl Rödig (e ottenendone) l’incardinazione nella sua organizzazione. E finalmente capiamo da dove venga Detroit, perché avevamo visto come Shirilau avesse preso le mosse dalla California, ben distante dal Michigan, laddove proprio lì Rödig ha fondato la propria comunità ecclesiale.
Vescovi vaganti e “chiese effimere”: per capire certe dinamiche
A questo punto assume un significato anche il motto “instaurare omnia in Christo” presente sullo stemma araldico della “chiesa”: è nientemeno che il motto personale scelto da Rödig per il proprio personale stemma episcopale. E chi è Karl Rödig? La risposta è complessa e affascinante, per quanto si possa essere tentati di ridurla a “un prete cattolico austriaco che ha voluto fondare una chiesa tutta sua”. Karl è un brillante e inquieto rampollo di famiglia cattolica mitteleuropea, vissuto e formatosi tra Francia, Stati Uniti, Austria, Italia, Grecia, Svizzera, Spagna e numerosi altri luoghi (ove si recava in viaggio o più stabilmente). Nel 1979 incontrò Giovanni Paolo II e nel 1982 visitò Medjugorie. Nel 1986 fu ordinato presbitero nella Congregazione del Santissimo Redentore (così sembra dalla foggia dell’abito religioso) per l’imposizione delle mani e la preghiera consacratoria di mons. Karl Berg, arcivescovo di Salzburg. Tutt’altro riserbo la “chiesa” tiene sui vescovi che hanno presieduto la sua consacrazione episcopale, la cui data dichiarata risulta però essere il 29 maggio 1999 (si capisce che questo ha rilievo – e nella fattispecie getta un’ombra – sul tema canonico della validità della consacrazione, che pure resta certamente illecita): in seguito a ricerche più approfondite (per le quali ringrazio il sempre solerte Marco Rapetti Arrigoni) pare che il consacrante sarebbe stato un certo Orlando Hyppolitus Lima Y Aguirre, vescovo vetero-cattolico della linea di Vilatte, insieme con David Dolence e Joseph Gouthro in qualità di con-consacranti. Non sarà privo d’interesse sottolineare che Gouthro (capo della “Chiesa Cattolica Apostolica Internazionale”) è stato consacrato vescovo dal famigerato mons. Milingo nel 2006, quando aderì alla sua “Married Priest Now! Catholic Prelature” (salvo poi uscirne tre anni dopo fondando “Married Priest Usa” e giustificando la scissione – qui viene da sorridere – per via di “differenze teologiche e filosofiche”!).
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Nel 1989 Rödig lasciò la Chiesa cattolica, convinto che il celibato non dovesse essere imposto a tutti i chierici, ma che dovesse invece restare opzionale. Il movimento di riforma fu avviato nel 1998 dopo anni di pastorale “alle periferie”, si direbbe con linguaggio odierno: malati di Aids, cattolici scontenti e “inascoltati”. Ci si può sensatamente chiedere perché un clericus vagans come Rödig avrebbe dovuto fondare a Detroit la sua “chiesa”. La risposta è interessante perché, al netto di una sensibilità comunicativa affine a quella di Shirilau, la scelta dell’Austriaco è molto più segnata da un retroterra culturale ed ecclesiale europeo e cattolico. Detroit era dalla fine del XIX secolo uno dei capoluoghi del “movimento nazionalista-autonomista” di diverse etnie mitteleuropee emigrate negli Stati Uniti, delle quali evidentemente le gerarchie cattoliche non riuscirono a intercettare i bisogni e i malcontenti. Così il Cesnur compendia il quadro:
Il movimento nazionalista-autonomista si sviluppa in campo ecclesiale dopo il 1873 e si diffonde contemporaneamente in diverse città del Midwest – Chicago, Baltimora, Buffalo, Scranton, Cleveland, Detroit e Toledo –; i suoi leader iniziali sono i sacerdoti Anthony Stephen Kozlowski (1855-1907), Anton Francis Kolaszewski (1852-1910), Dominik Kolasinski (1836-1898) e il laico Stanislas Kaminski (1859-1911). Costoro conducono progressivamente le rispettive congregazioni all’indipendenza da Roma: loro scopo precipuo è fornire agli emigrati polacchi un’alternativa alla Chiesa cattolica, che essi giudicano eccessivamente appiattita sulle posizioni delle gerarchie irlandesi e tedesche. Nella vicenda interviene anche Joseph-René Vilatte (1854-1929), il controverso personaggio assai noto nel mondo degli episcopi vagantes, a cui alcune comunità polacche si rivolgono per ricevere protezione: Vilatte tra l’altro ordina sacerdote il già citato Kaminski e procede alla dedicazione di numerose parrocchie polacche, nel tentativo poi fallito di organizzare un’unione nazionale di Chiese etniche sul suolo americano.
Come si è visto, il consacrante di Rödig era nella linea episcopale di Vilatte, il che porterebbe la “chiesa” fondata dall’Austriaco ad essere una riedizione storica del variegato movimento scismatico noto sotto il nome di “veterocattolicesimo” (o “Unione di Utrecht”). Ricordo che un mio compagno di studi abbia così sintetizzato (non senza qualche approssimazione, benché efficacemente) la loro posizione: «Più che “vetero-cattolici” mi sembrano “neo-protestanti”». Eppure questo pedigree e questa ascendenza permettono a comunità come la “Chiesa Cattolica Ecumenica di Cristo” di richiamarsi – esclusivamente nell’estetica e nella simbolica – al patrimonio “cattolico romano”. Simboli araldici, altari, chiese, riti, giurisdizioni e quant’altro, e cosa c’è al di là di questo? La risposta è ancipite e paradossale:
- una grande libertà su moltissime questioni dottrinali e dogmatiche (chi vuole ammettere l’infallibilità pontificia la ammette, chi non vuole non la ammette – tanto in concreto nulla cambia per nessuno);
- un onnipresente superdogma libertario in materia disciplinare e morale, per cui non si può dissentire circa la massima flessibilità in temi morali (ma pure di sacramentaria, quali sacerdozio uxorato o femminile) e al contempo restare nella “chiesa”.
Paradosso minore, a ben vedere, perché il maggiore riguarda la stessa esistenza di queste “chiese”, i cui fondatori si fanno chiamare “vescovi” e “primati” – nomenclature d’ordine e di giurisdizione tardo-antiche e medievali – ma di fatto si comportano come degli “episcopi” di età subapostolica – a cominciare dal carattere itinerante della loro pastorale. Tale paradosso maggiore consiste precisamente in questo, e la vicenda da cui siamo partiti ne offre una riprova di più: codeste “chiese” sono (nella migliore delle ipotesi) esperienze ecclesiali così strettamente vincolate alla persona del fondatore che tendono a dissolversi una volta che quello sia scomparso. Così la “chiesa” di Shirilau vide le fisiologiche lotte di successione dopo la morte del fondatore e De Caro – avvertendosi geopoliticamente irrilevante in esse – cercò in Rödig un nuovo superiore.
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Se fino a questo punto ho scritto cose talvolta aspre (e me ne scuso), ne scriverò adesso una un po’ più dura: le dinamiche che ho descritto per rispondere all’appello del sacerdote siciliano che ci ha scritto in Redazione sono presenti anche nella Chiesa Cattolica – sarebbe ingiusto e insensato negarlo. Partiti e correnti alimentano e (talvolta) inquinano la vita della Grande Chiesa fin dal cosiddetto “Concilio di Gerusalemme”, e in ogni secolo grandi santi hanno (quasi sempre in buona fede) operato sensibili colpi di mano per perseguire i fini che si prefiggevano – nei quali sovente la gloria di Dio andava perlomeno a braccetto con la propria. La differenza è che sempre quegli innumerevoli “scenari locali” confluivano in un dramma enormemente più vasto, che precedeva e seguiva – pur senza dissolverle – le piccole gesta dei cristiani. Quello scenario è la Chiesa – una, santa, cattolica e apostolica – l’unica Chiesa che Cristo ha dato come sacramento di unità e di salvezza per l’intero genere umano. Ed essa va ben al di là dei propri limiti visibili, trasversalmente alle confessioni e alle denominazioni, ovunque lo Spirito soffi. Non si tratta (solamente) di cose come prendersi la libertà di “ordinare prete” una donna (nella scorsa primavera De Caro ha “ordinato” la signora Raffaella Possidente, moglie e madre di famiglia), ma più fondamentalmente di concepirsi come “la vera Chiesa”, la quale incredibilmente verrebbe a galla una ventina di secoli dopo Cristo.
Al di là dei rumori della cronaca, in realtà non c’è molto di nuovo – anche per questo ho voluto descrivere genealogie episcopali che risalgono all’inizio del XX e alla fine del XIX secolo –: fin dalle origini la Chiesa è stata soggetta a queste frizioni (più o meno interne). Non a caso già Paolo, a metà del I secolo, ammoniva:
Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno.
1Cor 3, 10-13