L’alpinista italiano è stato vittima di una caduta di 450 metri nella discesa dal Garsherbrum VII, il compagno di scalata Cala Cimenti lo ha soccorso e curato per una notte intera a oltre 6000 metri, poi sono arrivati in quota altri alpinisti russi e polacchi. A 150 metri dalla cima inviolata del Gasherbrum VII (6955 metri) Francesco Cassardo, medico e alpinista di Rivoli (TO), ha deciso di fermarsi e tornare indietro, ma la discesa gli è stata fatale e una caduta a precipizio di 450 metri poteva portare a un epilogo tragico. Ma non era solo lassù. Tutto è cominciato il 20 luglio, il soccorso risolutivo con l’elicottero è avvenuto il 22 luglio: le ultime notizie ci parlano di un trasferimento all’ospedale di Islamabad per poter meglio curare le complicazioni ai reni causate dai traumi e dal congelamento.
La tac non evidenzia nessun trauma alla colonna cervicale, nessun trauma all’addome e nessun versamento, nessun trauma e versamento al cervello. Ha una frattura ad un polso e forse al gomito. Forse anche qualche dito. Ci sono congelamenti alle dita delle mani e al naso. Se è in grado di volare domani mattina potrebbero spostarlo a Islamabad. (dalla pagina Facebook di Cala Cimenti)
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Considerato l’accaduto, alcuni parlano di miracolo; ricostruendo la vicenda è evidente che il cuore pulsante di questo miracolo è stata la coraggiosa fratellanza umana che ha potuto fare ciò che soccorsi più avanzati hanno tardato a fare. Ecco la storia di un medico alpinista trentenne che l’imprevedibile sorte ha trasformato in un paziente premurosamente accudito da fratelli di scalata, ecco la storia di Francesco Cassardo che non era in Pakistan solo per hobby.
Il giovane, che lavora all’ospedale di Pinerolo è arrivato in Pakistan per dare una mano a medici e infermieri di un ambulatorio locale cui doveva insegnare l’uso di un ecografo e cui aveva portato medicinali difficili da reperire in quel paese. (da Repubblica)
Verso l’inviolabile
Sabato scorso abbiamo festeggiato i 50 anni da che l’uomo mise piede sulla Luna, qualche mese fa abbiamo pianto la morte di Daniele Nardi sul Nanga Parbat.
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Il confronto dell’uomo coi limiti, la tensione intima all’infinito, il desiderio di conoscenza sono fili che s’intrecciano in modo difficile da sbrogliare: quando il soggetto è il cuore umano, è difficile tracciare una linea netta tra coraggio e sfrontatezza, tra ardore e fanatismo. Leggere nei cuori non è di pertinenza umana, anche se lo è giudicare gli eventi. A meno che non sia evidente una sete egoistica di vanagloria o una pura voglia da superuomo di infrangere i limiti, è riduttivo mettere nella lista dei buoni o dei cattivi quegli esploratori che si spingono un passo oltre la zona di sicurezza, un metro più su dei predecessori, una picconata più in alto in una roccia vergine.
Gasherbrum significa “bellissima montagna” ed è un gruppo montuoso dell’Himalaya, in Pakistan. Ne fanno parte tre cime che superano gli 8000 metri, ma quella su cui si sono cimentati i due alpinisti italiani, Francesco Cassardo e Carlo Alberto – Cala – Cimenti è il Gasherbrum VII, 6955 metri: la loro impresa era raggiungere la vetta seguendo una via inviolata. L’epilogo felice e insieme drammatico della spedizione è arrivato lo scorso 20 luglio.
Felice perché il compagno di scalata Cala Cimenti è arrivato in vetta, ma il tempo di godersi la conquista non c’è quasi stato, perché subito dopo, all’inizio della discesa è avvenuto l’incidente, terribile agli occhi dell’amico e testimone:
Sono arrivato in cima al GVII, ero felicissimo, non riuscivo a crederci! Ho chiamato Erika per farle sapere che ce l’avevo fatta! Francesco non è arrivato in cima, gli mancavano 150mt, non è riuscito a superare un crepaccio e poi era preoccupato per la discesa.
Voleva conservare lucidità e forza. Quando ho incontrato Francesco durante la discesa con gli sci la parte più ripida non l’avevo ancora fatta. […] La montagna è molto ripida specialmente nella parte inferiore e la neve era molto dura, condizioni perfette per un buono sciatore ma che non permettono errori, lui ha fatto un errore proprio all’inizio della parte super ripida e ha iniziato a precipitare testa-piedi testa-piedi per 450mt, saltando in velocità la terminale e fermandosi solo alla base della montagna. Nella caduta ha perso tutto, zaino e vestiti, rimanendo solo con la maglietta intima strappata.[protected-iframe id=”1597722bd8c7b452a133aa24536a2839-95521288-57466698″ info=”https://www.facebook.com/plugins/post.php?href=https%3A%2F%2Fwww.facebook.com%2Fpermalink.php%3Fstory_fbid%3D2363386887088246%26id%3D425097330917221&width=500″ width=”500″ height=”718″ frameborder=”0″ style=”border:none;overflow:hidden” scrolling=”no”]
Così, la trama imprevedibile degli eventi, descrive l’umanissima vertigine tra l’aspirazione all’alto e la possibile caduta a ogni passo; la forza di un traguardo raggiunto deve immediatamente fare i conti con la fragilità e la mortalità. Anche rischio e pericolo sono parole che generano infinite discussioni, ma lassù a quasi 7000 metri non c’è stato il tempo per queste disquisizioni, c’è stato solo il tempo di svestirsi dei panni di conquistatore per indossare quelli del soccorritore.
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Fratello dove sei
C’è quella poesia straziante e bellissima di Ungaretti che s’intitola Veglia, è la voce di un soldato in guerra che resta una notte intera a fianco di un compagno morto e massacrato; conclude il poeta: “Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita“.
Nei nostri giorni in pianura, tra tangenziali dritte e comode scale mobili, possiamo criticare o lodare la tempra degli alpinisti. La vicenda di Francesco Cassardo ci parla di altro, della cocciuta solidarietà umana quando si è tutti coscienti della fragilissima barca della nostra mortalità. Nei salotti intellettuali di città si discute se la vita sia un valore, tra un post sul giornale di tendenza e un servizio televisivo; sul versante ripidissimo del Gasherbrum l’umano ha lasciato cadere le parole di fronte all’evidenza di una fratellanza non biologica, ma originaria:
Cimenti ha dato l’allarme, lo ha soccorso, lo ha messo in sicurezza con una corda poi è tornato al campo base per prendere i sacchi a pelo ed altri generi di conforto ed è risalito da Cassardo per passare con lui la notte. A quella altezza, circa 6300 metri, la temperatura può calare fino a meno 20 gradi. (da Repubblica)
Un’intera notte accanto a un compagno a un passo dalla morte, proprio quasi come Ungaretti. Ce lo racconterà – spero! – Cimenti che riverbero sulla percezione della vita è attraversare una simile notte, quando oltre al pericolo di morte di un amico c’è un enorme punto interrogativo anche sulla propria incolumità. C’erano le stelle in cielo? Quanto pungeva il freddo? Che sguardi vi siete scambiati?
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Ma poi nell’infinità di quel mare di neve e montagne, che istintivamente pensiamo desolato, altri uomini-fratelli sono arrivati a offrire braccia, a escogitare soccorsi impensabili a tavolino. Il russo Denis Urubko e il canadese Don Bowie erano in zona (avevano scalato il Gasherbrum II) e hanno raggiunto i due italiani in difficoltà; altri due polacchi sono arrivati a dare una mano. L’idea impossibile ma necessaria era trasportare Cassardo al campo base a 6300, dove era a disposizione una bombola d’ossigeno e dove l’elicottero dei soccorsi poteva recuperare il ferito. Per tutto il tempo Cassardo è rimasto vigile e, dicono, con una forza incredibile.
È stata improvvisata una slitta, tutti insieme sono scesi raggiungendo il campo base. Nel frattempo i soccorsi in elicottero tardavano per motivi burocratici e condizioni climatiche non favorevoli. A quota 5500 un altro grande alpinista, Marco Confortola, ha coordinato l’organizzazione dei soccorsi pakistani. Tutta questa cordata umana ha portato in salvo Cassardo a cui auguriamo di riprendersi al meglio.
Cos’è un traguardo? – mi chiedo. Lo immaginiamo sempre davanti o in alto. E se fosse indietro e in basso? Se le nostre più grandi conquiste fossero quelle che non abbiamo pianificato accuratamente a tavolino ma che ci vengono incontro voltando all’improvviso la testa e vedendo un uomo caduto? Fuori dai nostri schemi e tabelle di marcia, ci è chiesto di improvvisare operosamente aggrappandoci alla fratellanza che ci lega agli altri umani, piantando un gancio sul dono della vita che solo in astratto è discutibile ma non lo è sul volto ferito di un amico.
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