Agli antipodi della brutalità o dell’orgoglio delle idee, la fortezza aiuta a intraprendere e a sopportare, senza paura o scoraggiamenti.Fra tutte le virtù, che generalmente fanno paura e non sono attraenti, la fortezza è la più affascinante, perché non viene compresa nel suo vero senso. Fin dall’infanzia, noi amiamo essere forti, e del resto forse le prime manifestazioni di potenza si fanno a ricreazione nel cortile. Per non esserlo a sua volta, il ragazzino minaccia gli altri, per difendersi, e proclama che suo padre “è il più forte”. La forza che ci seduce è quella che rende il corpo invincibile e che non esita ad utilizzare la violenza per regolare i conti.
La falsa “forza delle idee”
Applicata al dominio dell’intelligenza, essa è non meno fascinosa, e tanti uomini politici ne usano e ne abusano, capaci come sono di manipolare a piacimento, di mentire e di governare ingannando, perché hanno saputo convincere con la forza delle loro idee, anche ove queste fossero gonfie di veleno. Così sono i grandi tribuni rivoluzionari che, con delle parole, mandavano uomini a carrettate alla ghigliottina; i capi di Stato che parlano per ore ipnotizzando il loro pubblico senza mai mantenere le loro promesse. Charles Baudelaire parla così, nella sua poesia intitolata “Châtiment de l’orgueil”, di un dottore in teologia così brillante che affermò un giorno di poter ridurre la gloria di Cristo a nulla, se avesse voluto, semplicemente con la forza delle idee e per via di dimostrazioni. Il poeta sottolinea che allora la ragione lo abbandonò, e che da quel momento fu dannato a vagare come un pazzo:
Da allora egli fu simile alle bestie che errano per la via,
e quando se ne andava senza nulla vedere attraverso
i campi, senza distinguere le estati dagli inverni,
sporco, inutile e brutto come una cosa usata,
diventava per i bimbi oggetto di lazzo e di risata.
La forza bruta e la forza delle idee hanno dunque i loro limiti e finiscono per perire, divorate dal loro stesso principio. Di fatto, la fortezza è più ciò che permette di sopportare che quanto consente di attaccare. Come diceva Jean de La Fontaine, nella morale della favola Il leone e il topo: «La pazienza e il trascorrere del tempo. Fanno più della forza e della rabbia».
Un dono dello Spirito Santo
Gli Antichi veneravano la forza, la fortitudo, perché essa va di pari passo con la prudenza. Tanquerey, nel suo Compendio di teologia ascetica e mistica, la definisce come la virtù «che conferma l’anima nel perseguire il bene difficile, senza che si lasci divorare dalla paura, nemmeno da quella della morte». Così quanti sono i più forti sono spesso quelli che il mondo disprezza, perché considerati come deboli: i santi e i martiri, che non utilizzano né forza fisica né forza retorica di fronte al pericolo o all’ostacolo, ma che avanzano imperturbabilmente, senza preoccuparsi delle conseguenze per loro stessi. Per arrivare a questo punto ci vuole più che la virtù della fortezza: ci vuole il dono della fortezza che si riceve dallo Spirito Santo, quel sono particolare che a partire dalla Pentecoste ha permesso agli Apostoli di non avere più timore dei giudei – i sacerdoti, gli scribi e i farisei – e di proclamare francamente la verità dell’Evangelo. Aristotele, nell’Etica Nicomachea, aveva già notato che «il forte non può essere spaventato umanamente» (cap. 9).Tutto ciò vale nel registro umano, riguardo a pericoli e ad eventi che sono a misura d’uomo. Per essere totalmente liberati da ogni paura, naturale e preternaturale, è necessario che il dono della fortezza sia il fondamento della virtù della fortezza, ovvero che ne sia coronamento.
Jean de Saint-Thomas sottolinea, nel suo trattato su I doni dello Spirito Santo:
La fortezza è una certa fermezza d’animo che rende in grado di affrontare o sopportare dei mali gravi. Ora, le forze umane sono molto limitate e fragili, soprattutto quanto alla perseveranza nella lotta, e per sormontare la moltitudine dei pericoli che si presentano in questa vita e specialmente per conseguire il fine eterno, il che suppone che si sfugga a tutti i pericoli e che si trionfi di tutti i mali. Per tutto ciò, la comune virtù della fortezza non può bastare […]. Il dono della fortezza, invece, è talmente rivestito di potenza celeste che rende suo, per così dire, la potenza di Dio, e respingendo ogni infermità naturale opera per la sola virtù della divinità.
cap. vi, 30
Sotto la gestione della prudenza
L’oggetto di una tale fortezza sarà certamente il reprimere ogni forma di paura, ma anche il regolare l’audacia – la quale potrebbe diventare temerità disordinata. Per esempio, il legittimo desiderio del martirio non deve condurre la persona a provocarlo esponendosi volontariamente a dei pericoli che stuzzicherebbe e provocherebbe con i suoi modi di fare o di dire. Il vero martirio non è la conseguenza di una condotta para-suicida.
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La prudenza deve sempre moderare la fortezza. Non avere paura non significa andare a cercarsi rischi che si sarebbero potuti sapientemente evitare. Bisogna sempre soppesare le conseguenze di un atto, anche se non è presente la paura. Cos’è che porterà maggior frutto? Qual è la via della sapienza? Quali saranno le conseguenze della temerità? E così un capo militare – foss’anche un Bayard o un Duguesclin – non ha diritto di sacrificare la sua vita se la sua morte lascia i suoi uomini esposti al pericolo o li porta a una tragica disfatta solo perché non ha paura e desidera diventare un eroe.
Intraprendere e sopportare
Constatiamo fino a che punto, nell’esercizio di ogni virtù, la regola d’oro debba essere La Sapienza, l’armonia, la fuga dell’eccesso e l’amore della moderazione e dell’equilibrio. Il salmista riconosce giustamente:
Ti amo, Signore, mia forza.
Signore, mio sostegno, mio rifugio
e mio liberatore. Mio Dio in cui confido, il mio aiuto.
Egli è il mio difensore e la fortezza
dalla quale dipende la mia salvezza,
ed Egli mi ha accolto sotto la sua protezione.Sal 17, 1-3
Ancorato in questa fortezza divina, che è al contempo virtù e dono, l’uomo può intraprendere e sopportare. Intraprendere grazie al proprio spirito di decisione, di coraggio e di costanza; sopportare poi, cosa più difficile della prima, superando le sue paure, perché bisogna far fronte a uno o a più nemici superiori, che spesso sono insondabili: sofferenze, malattie, maldicenze, cattiverie, calunnie, menzogne.
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Tenere duro necessita una forza di carattere poco comune, una sopportazione spirituale la cui fonte non è più naturale ma unicamente soprannaturale. Tali sono i santi che attraversano, incrollabili, le peggiori persecuzioni, comprese quelle che vengono loro inflitte talvolta dagli uomini di Chiesa. Soffrire per mimano della Chiesa è forse una delle prove che più reclamano fortezza divina. Pensiamo ad esempio a santa Jeanne Jugan, allontanata dalla propria fondazione, o a San Pio da Pietrelcina, perseguitato nel suo convento e nel suo ordine. E potremmo citare esempi ancora più recenti, in tal senso.
Fermi nell’avversità
San Tommaso d’Aquino insiste sul fatto che i due aspetti della fortezza – attaccare e sopportare – necessitano ciascuno di due condizioni (S.Th. II-IIæ, quindi. 123-140). Per attaccare, occorre che l’animo sia preparato dalla fiducia e poi che il fine sia portato a compimento con magnificenza, poiché il fine è elevato e reclama quanto di più bello e di più grande si possa trovare esistente. Per sopportare, l’anima non deve lasciarsi impressionare dal male, a rischio di lasciarsi schiacciare, e dunque deve coltivare la pazienza; e poi, quando la prova si prolunga, essa deve rifugiarsi nella perseveranza, altrimenti rinuncerà.
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Lo scoramento è il nemico principale dell’esercizio della fortezza. La nostra epoca più di altre non ci arma affatto a restare fermi nell’avversità, perché ci Atos a ripetendoci incessantemente che le prove sono nefaste e che bisogna sbarazzarsene al più presto: uccidere il dolore, aggirare le difficoltà, abbandonare rapidamente ciò che reclama uno sforzo. Non c’è da stupirsi che in tanti scivolino allora nella depressione, nel malessere, nella perdita del gusto per la vita. La fortezza, al contrario, è questa costante tensione che trasporta attraverso e oltre gli ostacoli, anche se nella traversata c’è da scorticarsi per benino.. Tali vittorie su sé stessi aiutano a restare entusiasti, energici, dimentichi di sé. Mollezza e volontà ondivaga non sono compatibili con la virtù della fortezza. La costanza – questa fedeltà dell’intelletto e dell’azione – non è coltivata al giorno d’oggi. Siamo piuttosto api bottinatrici stordite da tutti i nettari del mondo. Di per sé non siamo portati a dedicarci – come raccomanda il Signore – a costruire sulla roccia e non sulla sabbia. Altrimenti saremmo forti quanto basta per trasportare le montagne e lanciarsi oltre gli ostacoli.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]