«Dammi dei figli o muoio»: quando il grido straziante della biblica Rachele risuona nel romanzo di Maud Jan-Ailleret, colpisce al cuore il lettore. La storia di una maternità contrariata, dolorosa, in cui morte e vita avanzano tenendosi per mano, senza mai abolire il coraggio né la speranza.
Trentasettenne, sposata, madre di due figli e imprenditrice, Maud Jan-Ailleret ha perso otto figli in diversi stadi della gravidanza a causa di un’anomalia genetica di cui è portatrice. Con Donne-moi des fils ou je meurs (Grasset) firma un primo romanzo ispirato alla propria vita, che racconta la storia di una coppia che si trova a confrontarsi con una serie di lutti perinatali. Osando dire un dolore che molte donne conoscono, la scrittrice svela al naturale il sentimento d’impotenza, il senso di colpa e di rivolta che tutto questo genera, pur testimoniando qua e là, con delle frasi luminose, l’accettazione e il coraggio necessari per andare avanti. Intervista.
Mathilde de Robien: Stiamo parlando di un romanzo o di un racconto autobiografico?
Maud Jan-Ailleret: Si tratta di un romanzo, certo. Anche se cela una grossa parte di vissuto, non si tratta di un’autobiografia né di una testimonianza. Ho voluto utilizzare la finzione per spingere più in là la prova del lutto perinatale e parlare delle possibili ripercussioni che esso ingenera in una donna e in una coppia. Sono partita dalla mia esperienza personale, certo, ma anche da quella di numerose coppie che ho potuto incontrare. Scrivere un’opera di finzione significava anche autorizzarmi a usare certe parole che non ho mai osato esprimere nella realtà, come ad esempio il malessere o la gelosia urlate a un’amica molto vicina all’annuncio della sua gravidanza.
M. d.R.: Il titolo, “Dammi dei figli o muoio”, si riferisce al libro della Genesi (30,1). È lo straziante grido di Rachele, sterile e gelosa di sua sorella, contro il marito Giacobbe. È un personaggio che l’ha segnata?
M. J.-A.: Questa frase della Bibbia mi ha spesso colpita, sì. Ed ho trovato bello e necessario mostrare che la questione della fertilità è stata sempre presente nella storia dell’umanità. Questo desiderio di figli che in qualche misura è un desiderio di eternità, di prolungamento di sé, non è cosa di oggi o di ieri. C’è in questo grido tutta la rivolta che si può sentire di fronte all’ingiustizia di non poter conseguire un desiderio profondo ed evidente. Quando Laure perde per la seconda volta suo figlio si rifugia in una chiesa e piange domandandosi: ma qual è il piano di Dio per me? Ho fatto qualcosa di male?
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In caso di aborto spontaneo o di morte in utero, si ha veramente l’impressione che qualcuno ci abbia dato qualcosa e poi ce la porti via senza dare la minima spiegazione. Ed è estremamente doloroso. Facciamo esperienza della piccolezza umana, della sua impotenza di fronte a qualcosa di più forte di noi. Si tocca da vicino il grande mistero che è dare la vita, e poi quello della morte… quello di portare la vita e poi quello che ce la fa vedere ripresa. Tutto ciò mi ha portata alla rivolta, ma in fondo io credo che nel cuore stesso di tale rivolta non mi sono mai affidata così tanto a Dio, mai l’ho cercato tanto come in quei momenti, anche se avveniva soprattutto fra le lacrime o nella collera.
M. d.R.: Nel romanzo, il desiderio di un figlio di Laure sfiora quasi la follia. Come fare per distaccarsi da quel desiderio quando diventa ossessivo?
M. J.-A.: Alcuni offrono consigli pratici: come partire per le vacanze, intraprendere un nuovo progetto, vivere l’istante presente eccetera. È vero, certo, ma bisogna aver già preso un po’ di rincorsa per riuscirci. Personalmente, ilm io desiderio di maternità mi occupava enormemente lo spirito. Era come un bisogno impossibile da reprimere, quasi vitale. È andata meglio, il giorno in cui ho finito per accettare che non ho la famiglia che avevo immaginato. Passiamo la vita a fare progetti, e per me la famiglia non era finita con “soltanto” due figli sulla terra. Lentamente, e questo è ancora in corso, accetto che le cose non siano perfette…
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Lascio fare la vita, ma si tratta di un benedetto cammino che senza alcun dubbio durerà tutta la mia esistenza! All’inizio prendevo le mie gravidanze difficili come una sfida, mi dicevo “la prossima volta ce la farò”, ma come nella malattia non ci sono veri strumenti. A credersi più forti si cade ancora di più. Non esiste qualcuno perfettamente solido, che tutto controlla e che riesca in tutto. Il vero coraggio è quello di accettare. Spesso è a prezzo di un fallimento o di una ferita che si progredisce. In fondo bisogna pure che Dio passi da qualche parte per entrare in noi.
M. d.R.: «Come si fa il lutto per un morto che non si può seppellire?», di domanda Laure all’unisono con numerose donne che – anch’esse – hanno attraversato l’esperienza del lutto perinatale. Cosa rispondere a questo?
M. J.-A.: Per noi, quel che è stato importante nel nostro percorso è anzitutto di aver dato dei nomi a quegli esserini che sono in Cielo. E abbiamo apposto una placca al loro nome sul “Chemin de la Miséricorde” sulla montagna della Sainte-Baume, perché avevamo bisogno che ci fosse su questa terra una traccia, anche piccola, le loro passaggio. Questo rituale dà sollievo. Ci si può dire: «Sono esistiti».
M. d.R.: Che consiglio darebbe a quanti si trovassero in simili situazioni? Quale attitudine adottare di fronte a una coppia provata da maternità interrotte?
M. J.-A.: La cosa peggiore, secondo me, è non parlarne con la scusa del pudore. L’immagini: ci si proietta in una gravidanza e da un giorno all’altro il cuore del vostro piccolo smette di battere. Se le persone non ve ne parlano è una cosa orribile! È vero, ci vuole molta delicatezza, la coppia o la donna che attraversano la prova non hanno bisogno di commenti che minimizzino o che al contrario drammatizzino ciò che stanno vivendo, ma semplicemente di ascoltare parole di conforto, parole benevole. Altri saranno più a loro agio nell’offrire una spalla su cui piangere e assestare un bacio un po’ più schioccante su una guancia, e va bene anche questo. Una delle mie amiche, che pure non ha mai vissuto questo evento, aveva avuto un’attenzione particolare: tutte le mattine, per alcune settimane, mi “risollevava” proponendomi una corsetta, lasciandomi un libro nella cassetta della posta, invitandomi a pranzo e venendo a trovarmi all’uscita dal lavoro…
M. d.R.: È una prova che per forza di cose dà uno scossone alla coppia. Come si fa per superarla insieme?
M. J.-A.: L’uomo e la donna non vivono alla medesima maniera questo tipo di eventi: un uomo non lo vive nel suo corpo, dunque è difficile che sia perfettamente accordato al dolore di lei.
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Mio marito ha dato prova di enorme empatia, riguardo a me. Era triste in egual misura per i piccoli e per me. Credo di poter dire, al netto di qualche precisazione, che una maternità interrotta permette in fondo di partorire un po’ più di sé stesse, e anche un po’ più di coppia, perché in quel momento ci si ritrova in piena verità. Si misura tutta la propria piccolezza di esseri umani e al contempo tutta la propria forza. E si avanza sul cammino della vita, che è una strana alchimia di volontà e di lotta, ma soprattutto di abbandono e di resilienza.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]