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Ciò che unisce è una buona storia

GAME OF TRONES
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L'Osservatore Romano - pubblicato il 02/06/19
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L’ottava e conclusiva stagione di «Games of Thrones»di Edoardo Zaccagnini

C’è una frase, al crepuscolo dell’ottava (e conclusiva) stagione di Game of Thrones, che partorisce una buona domanda per parlare di questa serie pazzescamente vista, copiosamente discussa e analizzata, assai premiata e piratata in tutto il mondo. È una frase di Tyrion Lannister, il saggio personaggio affetto da nanismo, acuto e gran bevitore di vino. Davanti all’assemblea, quando c’è da scegliere il nuovo re dei Sette Regni, Tyrion si interroga su una questione: «Cosa unisce le persone? Armi, oro, vessilli? Storie! Non c’è niente al mondo migliore di una buona storia. Chi può fermarla?». E se nessuno è riuscito a sgambettare (e nemmeno a rallentare) il trionfale passo di Game of Thrones in questi nove anni di settantatré puntate popolate da un’imponente schiera di personaggi, è obbligatorio porsi una domanda: che storia è Game of Thrones? Di che pasta è fatta? Di che paste, anzi, si compone? Sì, meglio usare il plurale, perché il suo amalgama è assai ricco di materie e carico di sapori: le armi, a cui fa cenno Tyrion — dalle spade all’altofuoco, fino ai draghi che sparano fiamme giganti dalla bocca — oppure l’oro o quei vessilli simbolo di appartenenza a una casata, a una famiglia, a una dinastia, sono certamente parte della grande combinazione.



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C’è anche il fantasy, però, che soffia di continuo sul racconto, ma senza dominare né indebolire le tensioni, i duelli, le pulsioni, le contraddizioni e le passioni degli umani protagonisti, sane o sconsiderate che siano. Arricchisce e ossigena il racconto, lo avvolge, lo caratterizza, ma non lo divora e non ne monopolizza la struttura. L’abbondante sostanza sovrannaturale è contaminata di sangue, è innaffiata di sesso, è scurita di horror e affollata di nomi a cui dire addio nel corso del racconto. Questa variegata miscela è poi colata nel tema portante della serie: la sfrenata, feroce e distorcente corsa al potere. Che è materia degli umani, e perciò è antica e riporta ai classici della letteratura e sa di Storia, ed è contemporanea perché continua a riguardarci oggi. Potere vuol dire intrighi, tradimenti, crudeltà, alleanze e combattimenti, guerre e uccisioni. Ed eccole, forsennate, violente, estenuanti e disturbanti, le battaglie anche nella stagione appena conclusa: nella “lunga notte” della terza puntata, gli umani riuniti combattono contro gli “Estranei” del “re della Notte”, e nel quinto episodio, il personaggio di Daenerys Targaryen avrebbe potuto fermarsi, non uccidere tanti innocenti, e invece si è lasciata dominare dagli istinti più bassi e ha distrutto, con una visione deviata della libertà, una città intera.

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Senza pietà né compassione, ha raso al suolo Approdo del Re, ma poi la sua atroce battaglia si è seduta in panchina per dare spazio ai momenti più riflessivi dei protagonisti, in quel fluire tra azione e intimismo, tra campi narrativi diversi attraverso cui Game of Thrones ha saputo fondere il mondo immaginario dei giganti, dei draghi, dei maghi e delle lunghissime stagioni meteorologiche, con quello realistico dei rapporti di sangue tra discendenti. E allora, unendo confini e mescolando colori, forte della sua grande muscolatura visiva, Il trono di spade — per dirlo in italiano — è definibile in una sorta di coinvolgente indefinibilità, nel suo personale e attraente attraversare ponti che legano un’antichità medioevale vagamente astratta con un’attualità angosciosa, tra pellicce di animali sul collo degli uomini e divise degli stessi con taglio più squadrato, quasi fantascientifico. Possiede il fuoco e il ghiaccio, Il Trono di spade, il mare e il cielo azzurri, ma anche il fascino del freddo plumbeo, della neve e dell’oscurità. Ha forme sfuggenti che rimandano a qualcosa di conosciuto, e poi ha quei colpi di scena che spiazzano e impediscono ai personaggi stessi di lasciarsi dividere con immediata facilità tra positivi e negativi. È un balletto postmoderno di ingredienti nato dalla stretta di mano tra parole e immagini potenti e costose: tra il best seller Cronache del ghiaccio e del fuoco di George R.R. Martin e l’idea di trasporlo sullo schermo dei due creatori della serie, David Benioff e D. B. Weiss. I quali, dalla sesta stagione in poi, hanno proseguito a scrivere senza più il supporto dei romanzi, ma solo con le indicazioni dello scrittore. Quando ormai, tuttavia, Game of Thrones era già andata esponenzialmente diffondendosi nell’immaginario collettivo del decennio, fino a giungere all’odierno e discusso finale in cui la sanguinosa maratona viene interrotta da un drago che libera l’uomo (il quale, da solo non ce la fa) da quel trono di spade che è idolo agognato e instancabile alimentatore di traviamento, dissoluzione e devastazione.



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Chi è rimasto vivo sembra aver compreso finalmente la necessità di un equilibrio nuovo, la grande importanza di rompere davvero la mortale “ruota” e di entrare in relazione con parole salvifiche come libertà e pace. Sembra aver capito che deve custodire la memoria di quanto accaduto per avere consapevolezza dei pericoli profondi che porta con sé la sete di potere. E allora si accorda per un futuro che punti sulla qualità di uomini coscienti di questo, oltre ogni inutile, se non dannoso, diritto di sangue, all’estremo epilogo della lunga e complessa storia di Game of Thrones, che così ha tanto appassionato gli spettatori nel mondo.

 

Qui l’originale de L’Osservatore Romano