Comunicare non è solo esprimersi correttamente, un seminarista racconta come si può portare Dio anche faticando molto nell’apprendere una lingua complessa come il cinese.di Gabriele Saccani
Come si fa a discernere in quel groviglio sonoro, come si fa a non percepirlo come una poltiglia o un ticchettìo di suoni di cui si capisce solo vagamente il significato? E quando finalmente si passa dal cinese pronunciato a quello scritto ci si scontra con l’esercito dei caratteri che si presenta ai nostri occhi come un invalicabile muro di spine.
Questa citazione del sinologo gesuita Claude Larre ci dà forse una vaga impressione di che cosa sia la lingua cinese per chi, come me, la approccia per la prima volta. Non nascondo che immergersi per ore nello studio di questi caratteri, riscrivendoli decine e decine di volte per memorizzarli, o esercitarsi nella pronuncia di una certa sillaba ha davvero il suo fascino e mi coinvolge.
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Da quando sono nella nostra missione in Estremo Oriente, ogni giorno dedico almeno due ore allo studio personale del cinese, in aggiunta alle dodici ore settimanali di lezione presso il Centro di Lingue dell’Università Cattolica Fu Jen, a Taipei. Nonostante questo mio impegno assiduo, i progressi sono assai lenti. Dopo qualche mese di permanenza qui, mi aveva preso anche il timore dell’ipotesi “per sempre” in relazione a questa lingua che produce in me un forte handicap nella comunicazione. Di fatto, sono le umiliazioni l’aspetto più duro della lingua. Ciò che mi ha letteralmente salvato è stato il dialogo con i miei superiori e la ricerca del silenzio e della preghiera.
Ho scoperto che l’umiliazione produce l’umiltà solamente quando è accettata: altrimenti inacidisce e rende vuoti. Ho iniziato ad accettare questa lingua come un’offerta a Dio che cerco di rinnovare ogni mattina. Condividere con i fratelli in casa ciò che succede a lezione, ironizzando sugli errori miei e dei compagni, è un’altra strada per vivere con la giusta leggerezza questo impegno. Alle volte mischio cinese e inglese, suscitando in chi mi ascolta parecchia perplessità e qualche sorriso.
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Anch’io ormai rido di gusto per i miei strafalcioni. Nella vicinanza della casa e dei superiori, e nell’affidamento lieto a Gesù, io vedo la risposta misericordiosa di Dio alla mia fatica. Essa si manifesta concretamente quando, andando dalla sarta per far rattoppare dei pantaloni, riesco a parlare con lei in cinese e a capire quello che mi dice… Incredibile! Comunicare non è solo una questione di linguaggio. Un maestro in questo è san Giuseppe Freinademetz, missionario in Cina, mio conterraneo. Sbarcato a Honk Kong, scopre che nessuno parla mandarino, la lingua che aveva studiato, ma solo cantonese: nessuno lo capisce quando parla. In una sua lettera, scrive che l’unico idioma comprensibile in quella terra è il linguaggio della carità e dell’amore. Stando qui, sto scoprendo che in verità le persone che incontriamo hanno bisogno, più che delle nostre parole, proprio della carità di Cristo, di cui possiamo essere segno.
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